ROMA
Ex Dogana: rigenerazione urbana e reinvenzione della regola
Nel deserto sociale che è diventata la città di Roma, non è l’uso che fa lo spazio ma l’architettura che tira. Quando la valorizzazione di spazi in dismissione è spacciata per rigenerazione urbana: quella di chi ha i soldi per cambiare le regole
L’Ex Dogana ha chiuso. Anzi no. É scaduto il 4 gennaio 2019 il contratto di affitto della ex dogana di San Lorenzo tra Cassa Depositi e Prestiti e Mondomostre Skira, che a sua volta ha subaffittato gli spazi a due società. Qui Spazio Temporaneo srl e l’Attimo Fuggente srl hanno tenuto svegli i residenti del quartiere fino alle 7 di mattina per tre anni con le loro feste a pagamento. Adesso, non ci stanno ad andar via e lanciano un sondaggio su facebook, come se il futuro di un quadrante della città si potesse scegliere con un post facebook. “Indossati i panni dei paladini della partecipazione, dei difensori archeologia industriale, ora si ergono a paladini del valore storico dei beni di pregio minacciati dai progetti speculativi. Peccato che anche il loro è stato ed è un progetto speculativo” scrive La Libera Repubblica di San Lorenzo, che da anni porta avanti una battaglia per la fruizione pubblica e gratuita dello spazio. A San Lorenzo infatti questo nuovo progetto, come i precedenti, non è mai stato discusso pubblicamente. I gestori della ex dogana non sono la soluzione, sono parte del problema. Il perché, lo spiegavamo in questo articolo.
Recupero, riuso, rigenerazione, risanamento sono parole entrate in maniera massiccia nella comunicazione quando si parla di trasformazione urbana. Spesso unite alla parola periferia. Che a sua volta viene accompagnata dalla parola degrado. Questo è il grimaldello che si usa per aprire la strada alla finanza. Ovunque ha deciso di farsi largo nei quartieri che hanno costruito la loro storia e il loro valore con un lungo processo di relazioni e valorizzazione sociale. Si procede sostituendo chi quei quartieri abita con nuovi abitanti e si affida alla finanza la decisione sulla trasformazione della città.
Se il riuso e la rigenerazione di spazi è l’unica prospettiva percorribile come alternativa al consumo di suolo, il fine delle grandi operazioni di rigenerazione urbana non coincide quasi mai con l’interesse degli abitanti della città. «Nella speculazione, mediante la speculazione, passando attraverso una mediazione – cioè lo spazio – il denaro produce denaro», scrive H. Lefebvre in Spazio e politica. Affinché lo spazio continui a generare rendita è necessario che il ciclo economico, la rotazione del capitale e del credito immobiliare, non rallenti mai. Bisogna rinnovare, rigenerare, demolire, ricostruire, diventare green e sostenibili, poco importa se il territorio diventa una groviera di «costruzioni e distruzioni inutili».
Cubature regalate in cambio della realizzazione di aree e servizi pubblici a carico dei soggetti privati che sistematicamente disattendono gli accordi e dimenticano di completarli, come nel caso di Piazza dei Navigatori. «Le destinazioni del piano regolatore sono soltanto un generico riferimento: ciò che conta è la capacità del proprietario e dell’operatore di intessere un rapporto con l’amministrazione pubblica finalizzato alla contrattazione urbanistica», scrive Paolo Berdini. Un modello che vale anche per le attività sociali e culturali che alcuni spazi della capitale offrono, in attesa di diventare altro.
A Roma esempi di valorizzazione finanziaria spacciati come interventi di riuso e recupero sono i casi delle Caserme di via Guido Reni e della ex Dogana a San Lorenzo, con il ruolo che in queste operazioni rivestono Cassa Depositi e Prestiti e i fondi immobiliari.
Nel caso di via Guido Reni è il Fondo Investimenti per le Valorizzazioni (FIV) che detiene la proprietà dell’area. Il FIV ha l’obiettivo di acquisire immobili già appartenenti a soggetti pubblici e di procedere al successivo sviluppo degli stessi in funzione della loro valorizzazione e dismissione, assicurando un rendimento ai sottoscrittori del Fondo. Qui il progetto di rigenerazione prevede il solito «mix funzionale» di servizi, residenze e spazi commerciali. Per i 27mila metri quadri pubblici era prevista la realizzazione, con 43 milioni di euro di oneri concessori di Cassa Depositi e Prestiti, di un Museo della Scienza, progetto poi ripensato dall’amministrazione, in assenza però dell’indicazione di un progetto pubblico alternativo.
L’ex Dogana di San Lorenzo, uno spazio di 23mila metri quadri a ridosso della ferrovia, è stata ceduta per la valorizzazione a meno del suo valore di mercato a una società mista, Residenziale Immobiliare 2004, partecipata al 75% da Cassa Depositi e Prestiti e al 25% da soci privati riuniti in Finprema spa. Lì dovrebbe aprire a gennaio 2019 uno studentato di lusso di una società olandese, lo Student Hotel.
In attesa del progetto di rigenerazione la ex dogana è diventata una location per eventi temporanei. Dopo il successo di Outdoor Festival nel 2014, una mostra di street art al chiuso, la proprietà ha affittato lo spazio a una società di promoter, la Dead Poets Society, con capitale sociale di 450 euro. Il 29 agosto 2015 la società ottiene il primo permesso temporaneo di pubblico spettacolo. Da allora si susseguono inaugurazioni, feste di chiusura, e ancora inaugurazioni, di sempre gli stessi spazi e capannoni all’interno della Dogana.
Si tratta banalmente una questione di permessi. Le autorizzazioni temporanee rilasciate dal Dipartimento Cultura del Comune del Comune di Roma hanno una durata massima di 150 giorni complessivi nell’arco di un anno, per 90 giorni consecutivi, con un periodo di pausa obbligatorio di 2 mesi prima dei restanti 60 giorni di attività.
La Dead Poets Society ha ottenuto nel corso del 2016 ben sette autorizzazioni temporanee e proroghe dell’orario concesso dal Municipio, mentre nel 2017 la G.S.E. srl, una controllata di Mondomostre Skira, presieduta da Tomaso Radaelli, entrata nella gestione dello spazio dal febbraio dell’anno scorso, ha richiesto e ottenuto nove autorizzazioni, con buona pace di quanti protestano per i gravissimi disagi causati al quartiere dalla trasformazione dell’area in una mega discoteca con ingresso a pagamento.
Perché il Dipartimento Cultura ha rilasciato un totale di 18 permessi temporanei alla ex dogana nell’arco di tre anni? Lo ha raccontato lo stesso AD di Mondomostre Skira, Tomaso Radaelli, in un intervento pubblico il 9 novembre scorso all’Università dal suggestivo titolo “La reinvenzione della regola e dello spazio. Il caso dell’ex dogana”.
«Non è che ospitereste un Planetario?’ Il loro ‘ospitereste’ significa lo prendete, lo pagate, lo installate ve lo gestite. In buona sostanza era quella la storia. E Roma Planetario con il simbolo del Comune? Tutto pagato da noi, interamente. Abbiamo chiamato una ditta americana, installato un geode rimettendo a posto un hangar di lamiera (…) affittando tutto quello che era necessario, e poi dandolo in mano a quattro astronomi del Comune di Roma».
Viene il sospetto che si tratti di un caso di compensazione: sparito il progetto pubblico del Museo della Scienza a Guido Reni, almeno Roma ha un Planetario all’ex Dogana, finanziato dal privato, di 890 mila euro, a seguito di un bando-lampo indetto da Zètema, a cui aveva partecipato solo Mondomostre, con diritto di prelazione.
«Perché fare questo?» – domanda Radaelli – «Bisogna che ci siano sempre delle bilateralità nel dialogo, altrimenti se tu chiedi soltanto permessi a un certo punto vai avanti a schiaffi. E se non hai maniera di restituire… restituire significa tante piccole cose, non vi nego di essere stato sollecitato dall’amministrazione a fare questa o quell’altra cosa».
Il tema della legalità, cavallo di battaglia di questa amministrazione, si aggira facilmente con i soldi. «C’erano degli stranissimi contratti, rinnovati di tre mesi in tre mesi… una classica situazione non gestita. (…) Il tema delle licenze è un tema che si risolve anche ottenendo una licenza non temporanea, e per noi ha significato fare, e stiamo finendo di fare qualcosa come 350mila euro di lavori», racconta Radaelli.
Non potendo contare su un budget tanto sostanzioso, le associazioni e gli spazi sociali che a Roma svolgono una reale funzione sociale nei territori massacrati dai tagli ai servizi hanno ricevuto intanto numerose ingiunzioni di sfratto in applicazione della delibera 140, con la motivazione di facciata del rispetto della legalità – tradotto: della compensazione economica.
«Di spazi da rivitalizzare a Roma ce n’è tanti» – continua Radaelli – «sia in centro che nella periferia. L’esperienza della Dogana mi porta a dire che è abbastanza complesso mettere insieme tutto quello che è necessario per fare un lavoro del genere, nel senso che ci vogliono delle spalle economiche piuttosto solide, altrimenti si va a sbattere a raso sul tema della cassa, per fare certe cose devi essere ricco di famiglia tra virgolette, altrimenti non riesci a pagare i primi investimenti necessari, ad esempio ad avere i permessi per operare, per fare un certo tipo di attività tu devi avere certe misure di sicurezza, certe cose senza le quali sei illegale e se succede qualcosa è veramente un guaio».
Si, di spazi da rivitalizzare ce n’è tanti. Nel deserto sociale che è diventata Roma non è l’uso che fa lo spazio ma lo spazio, con la sua bellezza e architettura, a infondere un’aura di grande evento alle feste che si svolgono al suo interno, con ingresso a pagamento. Per tutto il resto, c’è il bando. Poco importa se le iniziative con finalità sociale rivitalizzano, nel vero senso della parola, gli spazi pubblici. Tutti a bando. Soggetto a logiche economiciste di concorrenza ed esclusione, l’uso dello spazio pubblico è rigidamente regolamentato per chi non lo può pagare. Per chi può, diventa un contenitore di eventi brandizzati – palchi in plastica sul Palatino, Blockbuster americani al Circo Massimo, un drive-in “sostenibile” al Colosseo. In ogni caso nella Roma dei ricchi è lo spazio che significa il contenuto, ridotto a sfondo e location.
Ci sarebbe meno da obiettare sugli “eventi temporanei” organizzati negli spazi in dismissione di Roma che celebrano la loro valorizzazione finanziaria, vendita, e privatizzazione, se i gestori evitassero di usare una certa retorica finto-comunitaria per condire la comunicazione di eventi organizzati in spazi di fatto sottratti alla collettività. All’ex Dogana una installazione di lampadine si annuncia come trasformazione di «edifici e spazi pubblici, contribuendo a ripensare il modo in cui viviamo gli spazi della collettività». Forse il riferimento è alla tangenziale. Le feste al Cinema Avorio, ex cinema al Pigneto, avrebbero avuto il merito di riaprire lo spazio, al centro di contenzioso giudiziario, al pubblico, mentre alla ex Zecca di Piazza Verdi si è celebrata per una notte la sua imminente trasformazione in hotel di lusso da parte di una società cinese.
Esiste un’alternativa possibile a questo modello di rigenerazione urbana, ma purtroppo bisogna guardare all’estero. Prendiamo Parigi. Lo Spazio 104 (Centquatre) di Parigi è un centro culturale ed espositivo di 39000 metri quadri situato in un edificio industriale della metà del XIX secolo, un tempo servizio comunale delle pompe funebri della Ville de Paris.
Il sito, completamente rinnovato dopo tre anni di lavori, rientra nel progetto di riorganizzazione urbana e di valorizzazione di un’area di Parigi lasciata in rovina.
Ufficialmente, il 104, è definito “uno stabilimento pubblico a carattere industriale e commerciale di cooperazione culturale”. È stato inaugurato nel 2008 grazie ai generosi finanziamenti della città di Parigi – 110 milioni di euro – che ha voluto investire in questo progetto di riconversione dell’area urbana, una zona periferica con un tasso di disoccupazione molto alto, e di promozione di nuove forme espressive.
Di sicuro, è diverso dalla maggior parte dei centri culturali che siamo abituati a vedere. È stato concepito come cantiere di opere d’arte, come laboratorio artistico di rinnovamento culturale, è basato sull’idea che arte e cultura debbano sempre essere legate alla realtà sociale e territoriale e fonde tra loro tutte le forme d’arte (danza, teatro, pittura, scultura, cinema, video, musica, arte culinaria, attività circensi, corsi di Yoga, Tai Chi, Qi Gong, ecc.) in stretta collaborazione con altre simili realtà artistiche europee, e non solo. Artisti e pubblico entrano in contatto senza intermediari: ognuno può interagire in tempo reale con l’atto creativo. La programmazione è variegata in quanto tiene conto delle proposte del pubblico.
La struttura è suddivisa in varie aree: 18 laboratori artistici/atelier, due sale per spettacoli e una sala prove. Ogni giorno ci sono eventi, mostre, concerti, performances, dibattiti e incontri ai quali partecipano attivamente non solo gli artisti ma anche i visitatori che vengono coinvolti in modo diretto e interattivo, mettendo in pratica la cosiddetta Participatory Art. In pratica, il 104 è un luogo di incontro e di scambi per artisti, ragazzi e famiglie.
Ci sono anche attività gratuite dedicate ai bambini che possono giocare, fare sculture o disegnare nello spazio chiamato Maison des Petits. Qui c’è spazio per ogni tipo di esigenza: dal relax allo studio, dall’assistenza alla formazione culturale. Insomma, il 104 di Parigi è un luogo di sperimentazione e di partecipazione dove chiunque, e non solo gli artisti, può dar vita a esibizioni, esposizioni e pratiche collettive.
Un modello che i cittadini proposero ben tre anni fa per la ex Dogana di San Lorenzo, durante estenuanti incontri per il Progetto Urbano San Lorenzo. Ma tra feste, inaugurazioni, eventi temporanei e politici, la grande assente a Roma è sempre, ancora una volta, la volontà politica.