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Il nuovo album dei Veeblefetzer
«Quello che a noi interessa è sempre mettere un elemento di disturbo nella pacifica musica occidentale ed europea, che noi chiaramente rappresentiamo, ma che allo stesso tempo vogliamo mettere in tensione, immettendo sapori e colori che vengono da altri tempi e luoghi»
Incontriamo Andrea “Mondo Cane” Cota, il cantante del gruppo, in un bar di Tor Pignattara, tra un cappuccino e un campari e prosecco, parliamo e ridiamo del nuovo album dei Veeblefetzer – gruppo dal nome impronunciabile – tentando di fare una cosa sempre difficile: spiegare la musica con le parole. More, il nuovo album del gruppo, è un incrocio tra reggae, hip hop e brass’n’roll, ed esprime tutta la curiosità musicale e voglia di sperimentare del gruppo, anche se incastonate all’interno di un sound per certi versi tradizionale.
Cominciamo con una domanda semplice, a cui probabilmente avete risposto già decine di volte, spiegaci il vostro nome.
È un nome astruso che rappresenta l’inconsuetudine della nostra band, difficile da etichettare. Ci piaceva questa idea di non catalogabile, di questo suono così strano già nel nome. Difficilissimo da ricordare, il nome è come la band, sperimenta con i suoni, e non ha la vita facile!
La band è partita sei anni fa, con una chitarra e batteria abbiamo buttato giù le prime canzoni, le ritmiche, poi abbiamo cercato un basso, abbiamo trovato un contrabasso, e suonava perfetto. Sembrava già fossimo arrivati. Era però un periodo in cui ero ossessionato dalle fanfare e da un’attitudine bandistica della musica, così guardando un video di C. W. Stoneking, un musicista blues delle origini, che suonava un basso tuba, ho pensato andiamo avanti. Così abbiamo incontrato Luca che suona un sousafano che ci ha conquistati con la sua attitudine super punk. E così erano nati i Veeblefetzer: Gabriele Petrella, Sandro Travarelli, Luca Corrado e me. Oggi dal vivo ci accompagna anche Stefano Degl’Innocenti.
Il 25 gennaio è uscito il nuovo album More, raccontaci la sua gestazione.
Potremmo definire il primo disco della band una fotografia analogica, perché era un disco che ci esprimeva così come eravamo sul palco, la nostra bella copia fatta in uno studio su nastro analogico.
Ma nel momento in cui abbiamo deciso di fare un nuovo disco, l’idea è stata quella di sperimentare con la produzione artistica, di portare avanti questo sound, di inserire un po’ di elettronica, qualche ritmica hip hop, dub e reggae.
La gestazione è stata lunga, di quasi tre anni, prima di tutto perché siamo una band dal vivo e quindi abbiamo fatto una montagna di concerti in Italia e all’estero in questi anni. È stata una gestazione lunga anche perché quando ci si mette a fare musica sono più i dubbi che le certezze. Fare un disco è come una traversata di un oceano, ti trovi in balia delle correnti quando stai lontano dalla terra ferma, quando cerchi una sonorità, una direzione, soprattutto se la tua intenzione è quella di mischiare le carte. Perché quello che a noi interessa è sempre mettere un elemento di disturbo nella pacifica musica occidentale ed europea, che noi chiaramente rappresentiamo, ma che allo stesso tempo vogliamo mettere in tensione, immettendo sapori e colori che vengono da altri tempi e luoghi.
Infine, è stata una lunga gestazione perché siamo una band do it yourself nel vero senso della parola. E qui è importante sottolineare la differenza tra indipendente e indie – noi siamo veramente indipendenti, nel senso che facciamo tutto da soli, con i suoi lati positivi e negativi. Quindi, c’è voluto del tempo per mettere insieme tutti pezzi, organizzarci e autorganizzarci, con alcuni membri della band che fanno anche altri lavori. Ma finalmente è uscito il disco.
Katabum è uno dei due singoli che ha anticipato l’album, il video in pochi giorni ha raggiunto le 15.000 visite su youtube, fa parte della colonna sonora del film “La profezia dell’Armadillo”, in cui fate anche una comparsa. Raccontaci com’è nata questa collaborazione e questa canzone che definisci “una macumba contro i conflitti internazionali e il business della vendita di armi”
Il regista Emanuele Schiaringi ci aveva visto in un localino piccolo e fumoso e ha pensato che fossimo la band perfetta per alcune scene e momenti musicali del film. Ci siamo incontrati e abbiamo deciso di collaborare alla colonna sonora, e alla fine abbiamo anche fatto un piccolo cameo nel film.
Le canzoni parte della colonna sonora sono Love Buzz, rivisitazione personalissima di un pezzo degli anni ’60 di rock psicadelico degli Shocking Blues, reso famoso dai Nirvana; Katabum che è il pezzo dei titoli di coda del film; e La notte, il singolo di cui è uscito il video in questi giorni.
Katabum è una macumba nel senso che l’andamento della musica ricorda quello un po’ rituale e potente e marciante di un rito. E il testo affronta la questione della vendita delle armi. Oggi in Europa siamo concentrati a chiuderci dentro e ci sfuggono le ragioni di queste grandi migrazioni che stanno avvenendo. Molte di queste ragioni sono da ricercare nei conflitti armati, e in questi conflitti chi fornisce la materia prima per ammazzarsi l’uno con l’altro sono i paesi più industrializzati. Tra questi svetta l’Italia, grande produttore ed esportatore di armi. Eppure questa contraddizione non entra nel dibattito pubblico nazionale o non sfiora le coscienze delle persone. E da questa contraddizione e mancanza di attenzione nasce Katabum.
Per Love buzz potremmo dire che è la canzone che ha trovato noi. A Lipsia abbiamo suonato su un palco dove avevano suonato i Nirvana in apertura dei Sonic Youth. A me da anni suonava per la testa questo reef di Love buzz, che davo per scontato fosse dei Nirvana, ma che ho poi scoperto essere degli Shocking Blues, un gruppo psicadelico, con sonorità orientali. Infatti, in questo reef c’è qualcosa di orientale, proprio quell’elemento di disturbo che tanto ci piace, orientale con la potenza del punk, con qualcosa di gitano e nomade, e allo stesso tempo qualcosa di tropicale e reggae: perfetto!
Quindi quel giorno sul palco durante il sound check abbiamo accennato questa canzone, e abbiamo continuato durante tutti gli altri sound- check. Finché all’ultima data del tour a Bratislva quando il pubblico ci chiede il bis decidiamo di mettere in mezzo questa Love buzz, senza averla mai provata in sala, ne è venuta una versione improvista e immaginifica che è entrata subito in scaletta.
Come ci si sente a fare i musicisti in Italia oggi? Vi considerate dei musicisti emergenti?
Anni fa era molto più difficile diventare un musicista perché i mezzi erano veramente per pochi. Mentre oggi è possibile uscire con il primo disco anche a 15 anni con un etichetta online. Se una democratizzazione dei mezzi c‘è effettivamente stata, lo spazio che le persone dedicano alla musica non è aumentato, anzi in Italia è forse anche diminuito. E alla musica non si da grande rilievo artistico. Questo significa che è sempre più difficile trovare spazio per suonare e dire la tua.
La nostra non è una band emergente, tutti i musicisti che la compongono hanno una montagna di esperienze, anche di livello altissimo. La nostra è una band alternativa, che magari suona un po’ vecchio, indipendente, che fa parte di un certo modo di suonare la musica che è resistente. Una resistenza all’omologazione dei suoni, al conformismo dei messaggi, al sovranismo musicale – molto in voga dopo San Remo. Non vogliamo tornare alla vecchia e cara tradizione canora, chiuderci perché non c’è più spazio, o perché non abbiamo più le risorse. No, non siamo emergenti, siamo soltanto diversi, e non vogliamo emergere omologandoci. Dopo venti anni che fai delle scelte, non è una questione di emersione, ma di alternativa.
Presentate il vostro album scrivendo: «More, perché in inglese è anche anagramma di Rome, la nostra città dove torniamo a rifugiarci dopo ogni scorribanda. More, perché Roma è bella, ma ‘qui se more’ un po’ ogni giorno».
Questo disco, al contrario del primo, è sia inglese che in italiano. L’inglese ci ha permesso di suonare per tutta Europa, ma cantare in italiano ci permette di connetterci con il nostro pubblico in maniera diretta.
A Roma si more è uno scherzo con un fondo di verità, perché Roma per essere una grande città ha una vita culturale non poi così vivace. A Roma, poi, ci si lamenta in continuazione, facendoci morire un po’ l’entusiasmo dentro. Quindi torniamo a casa volentieri perché le scorribande sono belle quando hai un posto dove metabolizzarle, dall’altro lato questa casa non sempre ti dà quella eccitazione e spinta che ti saresti aspettato, così torniamo ad essere pronti per nuove scorribande.