approfondimenti
OPINIONI
Ereditare il gesto di Basaglia
Quarant’anni fa, il 13 maggio 1978, venne promulgata la famosa Legge 180, la cosiddetta “Legge Basaglia”, che impose in Italia (primo paese al mondo) la chiusura delle istituzioni totali manicomiali. Ma che cosa vuol dire essere basagliani oggi?
Il 2018 è anno di commemorazioni di momenti importanti nella storia dei movimenti politici, tra cui l’avventura di Franco Basaglia. Il rischio che sempre si corre nella commemorazione di un evento di portata rivoluzionaria è di restare a guardare, ipnotizzati e sedotti dalla bellezza del gesto che, seguendo questa china, viene interamente liquidato nella sua dimensione estetica e immaginaria e disinnescato della sua portata eversiva. Non che questa dimensione estetica non abbia una grandissima importanza – ad esempio nel riuscire a captare gli sguardi e le attenzioni di chi opera e pratica con quei problemi, con quel reale, quelle contraddizioni, costituendo un soggetto collettivo che si muove per una causa comune. Ma affinché il passato informi il presente al meglio, affinché possiamo usare non tanto un metodo, ma un nome come fosse un attrezzo, un saper-fare, occorre che sempre ci domandiamo: cosa c’è di invariabile, di reale, in quel gesto di 40 anni fa?
Attualità di Franco Basaglia
Come si può, oggi, provare a definirsi basagliani? Siamo in un tempo in cui la diagnosi psichiatrica (che potremmo riassumere come l’insieme degli scostamenti da una norma che si produce a posteriori, di rimbalzo rispetto alla costituzione di quell’insieme, e che tende sempre più a rarefarsi per cedere spazio alla patologizzazione) va di pari passo al trattamento farmacologico, di cui costituisce un mercato significativo, e in cui il livello di politicizzazione della malattia mentale è praticamente nullo. Sono poche le istituzioni dedicate al trattamento della sofferenza psicofisica che con fatica riescono a ritagliarsi uno spazio per riflettere sul proprio mandato istituzionale e sul senso del proprio operato, e che rivolgono un’interrogazione su se stessi anziché sul malato come oggetto di un sapere specialistico. Nel nostro tempo, quindi, di cosa può far segno il nome di Franco Basaglia? Qual era in fondo la causa di Basaglia? Cosa ha mosso quel gesto, quella storia e quell’evento? È possibile oggi recuperare e applicare quel gesto, in presenza di elementi, spazi, personaggi e forme nuove rispetto a quarant’anni fa?
Sappiamo bene che quella lotta consisteva nella critica, nella decostruzione e infine nella demolizione dell’istituzione totale del manicomio. Cos’è, si chiedeva Basaglia, questa singolare forma di trattamento della malattia mentale, così diversa dalle forme di trattamento di qualunque altra patologia? Come mai il malato mentale si trova a pagare un prezzo così alto per la “cura” del proprio male? È cura, questa? Conosciamo la risposta: nel caso del manicomio non si trattava di cura ma di segregazione, esclusione, realizzazione di un luogo di repressione reale per soggetti in difetto di rimozione simbolica. Il gesto segregativo nei confronti del folle ha una lunga storia, che è stata scritta da Michel Foucault nella sua Storia della follia nell’età classica e di cui possiamo dire che il manicomio costituiva l’ultimo triste capitolo.
La demolizione del manicomio e l’approvazione della legge 180 sanciscono con forza il riconoscimento del malato mentale come soggetto di diritto e mettono la parola fine alla storia della segregazione del cosiddetto alienato.
Ma è tutto qui? Se così fosse, se quella storia fosse davvero delimitata da un inizio e una fine, avremmo ben poco da ereditare, ci rimarrebbe la sola contemplazione estetica del gesto rivoluzionario. Dobbiamo invece chiederci: che cos’è la segregazione al di là del moloch dell’istituzione totalitaria? Il meccanismo di esclusione e segregazione funziona solo in presenza di elementi molari, istituiti, ben riconoscibili? Si tratta solo della storia di un lungo errore oggi emendato una volta per tutte, o di qualcosa di più insidioso, sempre all’opera, sempre in atto in quella “microfisica del potere” che Foucault aveva indicato nelle relazioni umane?
Un meccanismo di inclusione ed esclusione è costantemente in atto nel momento stesso in cui apriamo la bocca per parlare ed esprimere un’idea, un giudizio, una speculazione, un’opinione. Se consideriamo poi che non c’è bisogno di aprire la bocca per parlare, che la parola è un campo in cui tutti siamo già da sempre immersi e che disegna zone di inclusione e di esclusione, zone di riconoscibilità e di irriconoscibilità, la faccenda si complica. La lezione freudiana sul meccanismo della rimozione consiste in fondo in questo: ogni volta che svolgiamo un atto di coscienza (parlare, pensare, guardare, ascoltare ecc.) qualcosa resta fuori, e questo qualcosa non è casuale, ma al contrario ha a che fare con la verità più intima del soggetto. Il più intimo del soggetto è subito e da sempre ciò che gli è più estraneo. In questo senso, la follia è sempre stata uno dei più grandi nomi di questo “fuori”, l’altro assoluto della coscienza e della ragione, guadagnandosi pertanto lo stesso trattamento che è in funzione nell’apparato psichico così come immaginato da Freud. Esclusione e segregazione nei confronti del folle, rimozione nei confronti dei moti pulsionali non adatti alla (con)formazione dell’Io. Jacques Lacan preciserà che il folle è quel soggetto che si costituisce attraverso questo meccanismo di esclusione radicale (forclusion) della ragione conformata; tra ragione conformata e follia c’è rapporto di esclusione.
Oggi che non siamo più in presenza di istituzioni totali in ambito di salute mentale, credo che uno dei volti del meccanismo di esclusione e segregazione possa essere rintracciato in uno stile di assistenza, di cura e di trattamento connotati da una eccessiva preoccupazione per le fragilità del malato mentale, una infantilizzazione del soggetto psichicamente debole e una conservazione della relazione di cura in una scena che vede (spesso per tempi sospettamente prolungati) i ruoli troppo ben delineati del curante e del curato.
Il sapere specialistico può, in questo ambito, prendere le forme di un manicomio teoretico, che surrettiziamente prende il posto della costruzione di un sapere soggettivo, un sapere del soggetto sul soggetto, sul suo male, sulle sue angosce, sulle sue possibilità e impossibilità, occludendo così il vero lavoro e il vero progetto con cui il folle è alle prese: la ricostruzione di un suo mondo.
Il sapere specialistico, in certe condizioni e utilizzato in modo acritico e dogmatico, può fare del malato mentale eterno oggetto di cura e dello specialista eterno soggetto delle cure.
Elvio Fachinelli scriveva in un articolo per L’Espresso del 1985 dedicato a Basaglia: «si potrebbe parlare di uno sguardo antropologico rovesciato, rivolto verso l’interno anziché verso l’esterno, verso l’esploratore anziché verso l’esplorato». Andare oltre la logica dell’esclusione e della difesa dal cuore scandaloso dell’esperienza umana, immaginare e costruire istituzioni (psichiche e sociali) inclusive – uno dei punti più luminosi della produzione teorica di Basaglia fu la differenza tra istituzione e istituzionalizzazione –, educare i normali all’accoglienza della (propria) anormalità. Credo consista in questo l’eredità più attuale della rivoluzione di Franco Basaglia.