MONDO

Erdogan, il presidente di tutto

Il Sultano vince ancora le elezioni, pur perdendo consenso e voti. Maggioranza possibile solo con l’alleanza con gli ultranazionalisti dell’MHP. La sinistra filocurda dell’HDP supera lo sbarramento del 10%, nonostante la persecuzione politica e giudiziaria.

Nella sera di domenica, dopo la chiusura delle urne e con l’inizio del conteggio delle schede, sembrava di assistere allo spoglio del referendum dello scorso anno. Le agenzie governative come Anadolou diffondevano velocemente ai media nazionali e mainstream dati relativi a una vittoria schiacciante di Erdoğan e a una disfatta delle opposizioni, che contemporaneamente dichiaravano di essere in possesso di altri dati e denunciavano brogli.

Con il passare delle ore il margine di Erdoğan si riduce di molto, ma rimane sempre in vantaggio e poco prima della mezzanotte, quando lo spoglio non si è a ancora concluso, Erdoğan compare davanti alle telecamere e si dichiara vincitore dicendo messianico «Il paese mi ha affidato di nuovo una missione». Per strada già girano i caroselli dei suoi sostenitori.

Le opposizioni continuano a sbraitare, presidiano la sede della Suprema Commissione elettorale ad Ankara, Murrahem Inçe, lo sfidante numero uno di Erdoğan scrive su twitter a caratteri cubitali «Non ci crediamo», invitano ad aspettare i dati definitivi e consegnano le relazioni sui brogli avvenuti durante le votazioni. Stesso copione di un anno fa, ma con un finale differente.

Alla fine, nelle prime ore della giornata, l’opposizione è costretta a rassegnarsi di fronte a un risultato difficile da accettare dopo una campagna elettorale iniqua e piena di forzature da parte del governo e soprattutto dopo le aspettative che erano stati in grado di infondere. Mai come in questa occasione si percepiva nella popolazione turca anti-Erdoğan speranza ed entusiasmo, che serpeggiavano nelle conversazioni e riversavano le persone in piazza in comizi oceanici.

Infatti, il ballottaggio per le presidenziali era una possibilità non sicura ma molto concreta anche per gli analisti. Ma il carisma e la capacità di parlare a un fronte largo del candidato scelto dal partito social-democratico non sono state sufficienti a convincere quei turchi che vedono in Erdoğan ancora una sicurezza, sia dal punto di vista economico che dal punto di vista sociale. Per molti turchi il sultano resta il leader forte che ha cambiato la Turchia in meglio e ridato dignità sociale e politica alla confessione religiosa.

Molti turchi, al di là della propaganda governativa e per quanto consapevoli della stretta repressiva, non sono disposti a un cambiamento che dal loro punto di vista mette in discussione delle sicurezze. Erdoğan si riconferma Presidente della Turchia con il supplemento di poteri conferitogli dalla riforma costituzionale approvata nel discusso referendum dell’aprile scorso.

Per i 5 anni in cui sarà nuovamente al timone del paese, con la possibilità di essere riconfermato altre due volte, concentrerà su di se il potere legislativo ed esecutivo e avrà larga agibilità anche su quello giudiziario. Potrà sciogliere le camere in ogni momento ed emanare decreti immediatamente esecutivi.

In base al risultato delle elezioni parlamentari, però, agirà in un parlamento più eterogeneo di quello precedente: la sua nuova composizione riflette in maniera più obbiettiva la situazione politica attuale. Erdoğan non ha più la maggioranza assoluta ma la raggiunge solo grazie alla coalizione con gli ultra nazionalisti di destra dell’MHP, che hanno ottenuto un numero di voti ben al di sopra delle aspettative.

L’AKP, il suo partito, ha perso 7 punti percentuali rispetto alle precedenti elezioni: il suo leader è decisamente più debole rispetto al passato, come del resto si è spesso dimostrato in questa campagna elettorale, costellata di gaffes e fatta di proclami vuoti di contenuti e durante la quale ha accuratamente evitato ogni confronto diretto con gli altri candidati.

Un’altra sconfitta relativa per Erdoğan è il non essere riuscito a liberarsi dell’HDP, il partito curdo, che nonostante la campagna distruttiva messa in atto nei suoi confronti, riesce di nuovo a entrare in parlamento, superando l’altissimo sbarramento del 10% e piazzandovi 67 deputati su 600. Due di questi, compreso il segretario generale Selahattin Demirtaş, sono attualmente in prigione e un altro è il giornalista di inchiesta Ahmet Sik, arrestato due volte, trattenuto in carcere per anni e rimesso in libertà solo pochi mesi fa.

Lui ed altri soggetti politici simbolo della lotta per la libertà e democrazia in Turchia sono una delle poche luci che illumineranno un parlamento sul quale dopo queste elezioni grava anche un’ondata nera. I risultati hanno prodotto un rafforzamento della componente di destra ultranazionalista, a causa dell’ottimo risultato dei Lupi grigi in coalizione con l’AKP e dell’ingresso in parlamento di una quarta forza politica proveniente da una loro scissione, il “Partito buono” di Meral Akşener, ex Ministro degli interni degli anni ’90 e definita “La lupa”: l’anticipo delle elezioni non ha permesso a questa nuova forza politica, di sottrarre voti al MHP come si sperava l’opposizione social-democratica con cui si è coalizzata, ma che gli ha permesso però di piazzare i suoi deputati.

Come e se questo parlamento riuscirà a contrastare il presidente Erdoğan e i suoi super poteri, è tutto da vedere. Ma per lui il problema più urgente da affrontare non è politico, ma economico. Adesso ha a disposizione quella stabilità e continuità invocata per affrontare la crisi: la maggioranza dei turchi gliela ha accordata, ora deve dimostrare di saperle usare.