OPINIONI
Elogio dell’economicismo
Combattere per avere più salario, e lavorare meno, non significa cedere alle lusinghe dello «sterco del diavolo», ma è parte irrinunciabile di una politica del desiderio che ponga, tra i suoi obiettivi, la questione della felicità
[…] la miseria generale della condizione umana non si estrinseca in nessun simbolo esteriore in modo così completo come nella continua scarsità di denaro che affligge la maggior parte degli uomini.
G. Simmel, Filosofia del denaro (1900)
Meglio chiarire da subito: non smetterò di rileggere le invettive di Lenin contro gli «economisti», le critiche (amichevoli, ma non poco acuminate) di Lea Melandri al settimanale “Rosso”. Il primo è per un verso insopportabile, per l’altro geniale. Insopportabile: perché afferma che «la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica»; perché vuole un partito di rivoluzionari di professione, prediligendo il tribuno del popolo al sindacalista. Geniale: perché indica l’urgenza di «contribuire alla formazione di rivoluzionari operai» che stiano allo stesso livello di quelli intellettuali; perché svela, nell’incitazione tradunionista ad abbassarsi al livello del cosiddetto «operaio medio», l’arroganza opportunista degli intellettuali che fanno affari contrattando il prezzo della forza-lavoro altrui e, soprattutto, guardandosi bene dal «distruggere il regime sociale che costringe i non abbienti a vendersi ai ricchi».
Lea Melandri, criticando la formula secondo la quale reddito (ovvero: appropriazione proletaria) e felicità coincidono, ricorda «che c’è gente che muore quotidianamente anche per solitudine, per mancanza d’amore, e non solo per mancanza di casa, luce, telefono».
Certo, senza storicizzare, si rischia la banalità. Lenin vuole costruire una «macchina da guerra» rivoluzionaria nella Russia zarista, e il suo celebre Che fare? precede la decisiva rivoluzione del 1905, ovvero l’invenzione dei soviet. Non esclude di certo l’importanza del conflitto sindacale, ma lo ritiene parziale, nonché poco praticabile contro la violenza dell’autocrazia; sintomo di corruzione riformista, quando lo sguardo si rivolge al mondo anglo-germanico. Melandri, nel pieno dell’esplosione femminista dei Sessanta e dei Settanta, polemizza con il ruolo a suo avviso ancora troppo ancillare che “Rosso” riserva al corpo sessuato e alla politica del desiderio. In un altro testo importante (Lo scarto irriducibile), indica nel «predominio della sessualità maschile» l’origine del primato dei rapporti economici sugli altri rapporti sociali.
È fuori discussione, però, che bolscevismo e femminismo, in tempi e modi diversi, vogliano allargare il campo della pratica rivoluzionaria, oltre la mera questione salariale. Nell’un caso si tratta di far saltare in aria l’intero sistema che rende possibile lo sfruttamento della forza-lavoro, oltre lo scontro col singolo imprenditore o con un gruppo di essi; nell’altro, di sconfiggere il patriarcato, ritenuto fonte decisiva del regime di accumulazione capitalistica. Ovviamente il femminismo combatte senza sosta il modello organizzativo leninista, ancora in voga nel Sessantotto e negli anni a seguire, ritenendolo tutto sommato cieco alla violenza maschile sulle donne; incapace, poi, di fare i conti con la radicalità esistenziale dei movimenti giovanili e anti-autoritari.
Ciò non toglie che furono Lenin e i bolscevichi a fare la rivoluzione, come suggerito da Gramsci, «contro il ‘Capitale’», ovvero in un paese largamente arretrato, dal punto di vista economico, e privo di una solida tradizione liberale, da quello politico.
Così facendo, hanno politicamente praticato una dirompente concezione del tempo storico: qualitativo, singolare, pulsato e non lineare. Concezione ripresa e sviluppata dai movimenti delle minoranze (le donne, gli afroamericani, gli studenti, i colonizzati) che conquistano la scena nel Sessantotto. Pur utilizzando la Scienza della logica di Hegel, Lenin può essere compreso adeguatamente attraverso Machiavelli, il quale, preme ricordare, non è il soprannome di Carl Schmitt.
La domanda che mi pongo è la seguente: dopo un quarantennio di controrivoluzione neoliberale, che nei paesi del G7 ha ridotto senza sosta i salari, assottigliando il ceto medio, privatizzando il welfare, impoverendo la società e aggravando le disuguaglianze, è ancora così prioritario ribadire la critica all’economicismo? Entro breve, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa, cominceranno a crescere i tassi di interesse, ciò per tenere a bada un’inflazione galoppante che nulla ha a che fare con l’aumento dei salari, i quali invece, soprattutto in Europa, sono fermi dagli inizi degli anni Novanta. In Italia, tutti i santi giorni, ci tocca ascoltare uno «chef stellato» ‒ ultimo atto della vendetta patriarcale (le donne continuano in prevalenza a cucinare dentro casa, gratuitamente of course, mentre i maschi sono chef stellati che guadagnano cifre da «archistar») ‒ che si lamenta perché non trova giovani bianchi di pelle disposti a lavorare 14-15 ore al giorno per salari da fame.
Questo avviene dopo che, da oltre un ventennio, la mia generazione si è abituata a vivere di precarietà, ad accettare che il lavoro intellettuale o quello di cura, essendo entrambi di natura intensiva e difficilmente quantificabili, siano pagati poco o nulla. Quando c’è passione d’altronde, che farne del salario, questa misura anchilosata del tempo di lavoro, intendendo quest’ultimo astrattamente?
Va poi aggiunto che, a seguito della sconfitta del Sessantotto, il sacrosanto rifiuto del lavoro salariato di allora si è tradotto in un’esaltazione acritica, perché spesso priva di esperienza sul campo, della cooperazione extra-lavorativa, delle forme di vita ostili allo scambio mercantile. Un testo splendido quanto in buona parte sbagliato di Hannah Arendt, Vita activa, è divenuto occasione per affermare che il lavoro è poca cosa, che la vita “vera” avviene nella prassi, che la prassi nulla condivide con la riproduzione sociale del proprio corpo biologico e non lascia opere dietro di sé. Anche chi ha contestato questa mossa, alla fine, si è convinto che solo alla trasformazione dei concetti e delle condotte vanno dedicati gli sforzi migliori. Mentre ciò accadeva sul piano delle idee, la precarizzazione del lavoro ha demolito retribuzioni e diritti sindacali, rendendo spesso lo sciopero un’arma spuntata. La generazione mia, e quella dopo della mia, si sono abituate a pensare che angoscia e depressione vengono da dentro, sia esso anima o cervello, che la povertà è un fallimento individuale e che comunque, quando si tratta di fatti dello spirito, i soldi non c’entrano. Del denaro, è rimasta l’astrazione, la realtà è evaporata.
Ed ecco allora che, mentre si impongono stagflazione ed economia di guerra, tutti esaltano le virtù della «great resignation». Dimettersi, invece di lottare per un salario e un welfare dignitosi, magari per ricostruire la propria vita lontano dalla città, è l’ultima moda: i numeri americani sembrerebbero parlar chiaro, la gente si è stufata di mettere al centro della propria vita il lavoro, con esso il conflitto sindacale, figlio invecchiato e inservibile della modernità. Se negli Stati Uniti ci si dimette, in Cina ci si sdraia, col movimento «Tangping». Il cielo è finalmente caduto sulla terra, come profetizzava Radio Alice, e non ce ne siamo accorti? L’exit in questione, ammesso che possa durare nel tempo, sta seriamente mettendo a rischio profitti e governi? La vita senza lavoro, lavoro sotto padrone, è l’unica degna; lo penso da quando sono bambino e non smetterò mai di lottare per questo obiettivo.
Escludo fortemente che questo risultato possa essere raggiunto senza lottare, a meno che uno non se lo possa permettere. Non essendo il mio caso, non essendo il caso di una parte assai rilevante della popolazione mondiale, direi che è venuto il momento di farla finita con la celebrazione della prassi “pura”, che nulla condivide col lavoro e la riproduzione sociale, essendo tra l’altro questi due ambiti radicalmente co-articolati.
Anzi, proprio perché è la stessa prassi (agire di concerto, discorso, esposizione pubblica di sé) a essere continuamente catturata dai processi di valorizzazione capitalistica, c’è bisogno di un sindacalismo di tipo nuovo, che in diversi e da qualche tempo definiamo ‘sociale’, che estenda e generalizzi lo scontro sulla ricchezza, sia essa salario, welfare, reddito di cittadinanza, sussidio, ecc.
Riflettendo sulla crisi dell’istituzione psicoanalitica, e accendendo i riflettori sul denaro in un convegno dedicato al rapporto tra sessualità e politica (Milano, 1975), Elvio Fachinelli dice (e poi scrive): «la determinazione della realtà come realtà di denaro/lavoro implica una concezione del mutamento come modificazione lenta, progressiva, percepibile a lunga distanza. Nel momento in cui si fa strada nel collettivo una zona di realtà liberata dalla cerchia denaro/lavoro, si espande anche il tempo del mutamento non lineare, l’improvviso al posto del continuo, l’intensità al posto dell’estensione, il salto al posto della marcia, l’aritmia al posto dell’orologio».
La controrivoluzione neoliberale, a maggior ragione nella sua crisi ormai cronica, ha fatto dell’improvviso tecnica di governo della forza-lavoro, rendendo continua l’interruzione dell’impiego e discontinue le biografie, trasformando l’intensità in prestazioni senza compenso e gli attacchi di panico nello stile di esistenza di precari giovani e meno giovani.
Per riconquistare e/o rafforzare «una zona di realtà liberata dalla cerchia denaro/lavoro», oggi, serve combattere flessibilità e bassi salari, economia di guerra e sacrifici, fiscalità regressiva e tagli al welfare. Nel farlo, e per farlo, va da subito praticata una vita altra, negli affetti, nell’uso dei piaceri, nell’esperienza estetica e culturale. Ma affinché questa vita altra non sia parentesi giovanile, o vezzo di chi se la può permettere, il denaro serve, ne serve tanto, per tutte e tutti.
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