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Elogio del margine, elogio di Margini
Presentato al Festival di Venezia, dove è stato incoronato vincitore del premio del pubblico alla Settimana della critica, e uscito nella sale l’8 settembre, “Margini” è ormai alla sesta settimana di permanenza nelle sale cinematografiche italiane. Opera prima di Niccolò Falsetti e Francesco Turbanti, non si tratta solo di un film sul “punk a Grosseto” ma, ogni giorno di più, di un progetto culturale con un respiro molto più ampio.
Nessuno racconta mai cosa succede qui, forse a nessuno importa niente/
ma importa a noi, parlare di noi/i libri di storia li lasciamo agli eroi (Cosa rimane, Gli Ultimi)
Pensare a un film sul “punk a Grosseto” potrebbe strappare un sorriso. E, infatti, Margini, pur essendo questo, non è solo questo. La vicenda del film – che di per sé potrebbe sembrare non particolarmente originale – prende corpo nel 2008 e ruota intorno a tre ragazzi di Grosseto – Edoardo, Michele e Iacopo – che suonano in uno sfigatissimo gruppo punk hardcore, i Wait for Nothing. Delusi per la cancellazione di un concerto a Bologna nel quale avrebbero dovuto aprire a una famosa band statunitense, i Defense, decidono di organizzare proprio a Grosseto una data del gruppo. Il principio è chiaramente quello del do it yourself, dei “progetti dal basso”, che permea la scena punk. Non solo “fallo da solo”, ma anche “tutti possono farlo”: le difficoltà sono numerose e l’effetto comico, nonostante lo sconquasso che il progetto del concerto crea nelle famiglie dei protagonisti, è assicurato. Comico, ma anche amaro, perché Margini non è un film dei buoni sentimenti e l’happy end non è per niente scontato. Come non lo è il fallimento, neanche quando sembra che non possa andare diversamente.
Se la trama può sembrare piuttosto banale, è la caratterizzazione dei personaggi a garantire la piena riuscita del film e a farlo spiccare come una ventata di freschezza nel panorama cinematografico italiano degli ultimi anni. I personaggi non hanno mai caratteristiche nette e definite, tanto che si riesce a provare empatia per tutti. Al contrario de La guerra degli Antò (Riccardo Milani, 1999), altro film sul punk in provincia che ormai ha più di vent’anni, in Margini non ci sono stereotipi o figure grottesche e caricaturali. I tre protagonisti sono persone assolutamente “normali”, che si arrabattano tra lavoro e lavoretti, con famiglie, affetti, interessi. Ma ancora meglio sono forse rappresentati i personaggi secondari, tra i quali non si annoverano eroi: il fonico che arraffa lavori a destra e a manca (dai concerti alle messe all’aperto), gli impiegati comunali, il patrigno di Edoardo e proprietario dell’Eden, che continua a partorire “grandi idee” imprenditoriali per il suo locale per poi trovarsi con un pugno di mosche in mano. Ciascuno di essi mostra alcuni aspetti della provincia, perché in fondo Margini è un film sulla provincia, sulle sue frustrazioni, sul desiderio di rompere la sua mediocrità e di evaderne (anche attraverso un concerto) e su quello di restare. Quella provincia che – come cantano Gli Ultimi in Ai margini, la canzone che fa da colonna sonora e che è richiamata nel titolo – è una «periferia ancora più lontana che non fa mai notizia e non ne sentirai mai parlare […]. Questa è la mia gabbia ma non me ne voglio andare».
Niccolò Falsetti e Francesco Turbanti, i due autori del film (anche regista il primo, anche attore il secondo), hanno in diverse interviste chiarito che non si tratta di un film sulla scena punk e che il punk è stato solo un pretesto, «il liquido di contrasto che abbiamo iniettato nelle vene della provincia per vedere i suoi difetti le sue idiosincrasie, le sue goffaggini, le sue malefatte da due soldi». La provincia, appunto: in un’intervista, Falsetti ha aggiunto che «la marginalità è anche da questo punto vista, distanza dalle cose, far percepire tutto in maniere diversa da come succede nelle metropoli o nelle città più grandi».
Eppure, e non lo dico solo perché sono tremendamente di parte, il punk è troppo pervasivo – nel film come nella vita – per poter costituire solo la quinta davanti alla quale si muovono i personaggi: se è vero che Margini è molto di più del punk, è altrettanto vero che è impossibile immaginare Margini senza il punk.
Riprendendo il paragone con La guerra degli Antò quello che salta agli occhi è proprio come ogni secondo di Margini trasudi punk: dagli adesivi ai riferimenti musicali alle magliette (anche se la t-shirt indossata da Edo di un album de Gli Ultimi del 2012, in un film ambientato nel 2008, mi ha fatto l’effetto dell’orologio di Charlton Heston in Ben Hur). Ben altra storia rispetto a La guerra degli Antò, in cui non si sente neanche una canzone: lì il punk è esteriorità, è un atteggiamento e non c’è, infatti, la musica; in Margini, invece, intesse l’esistenza dei personaggi, come lo fa con quella di chiunque abbia attraversato quel mondo.
Pochissimo è lasciato all’immaginazione. Tutto quello che riguarda il punk è iperrealistico e ricostruito con un’attenzione quasi maniacale al dettaglio: anche se un grandissimo gruppo statunitense, i Madball, suonò effettivamente a Grosseto in quegli anni, i Defense non esistono ma sono interpretati sullo schermo dai Payback, un gruppo romano ora purtroppo sciolto. Neanche i Wait for nothing esistono, ma Falsetti e Turbanti suonano effettivamente in un gruppo punk, i Pegs, che confesso che non conoscevo prima del film. La colonna sonora – con pezzi dei Nabat, dei Negazione, dei Rappresaglia, dei Kina, dei Colonna Infame Skinhead (il gruppo che canta davvero Punk è moda, canzone che ho letto in diversi articoli attribuire ai Wait for nothing della finzione cinematografica), oltre ovviamente che de Gli Ultimi – ripercorre una parte importante della storia del punk italiano, nonostante alcuni grandi assenti pienamente in attività nel 2008 a cui forse, allora, sarebbe andato il pensiero prima rispetto a Gli Ultimi e a Bull Brigade, oggi più famosi anche fuori dalla scena punk. La locandina del concerto disegnata da un romano che non risponde mai al telefono è del tipo che poteva essere fatta a quel tempo: nel frattempo il disegnatore è diventato il più importante fumettista italiano col nome d’arte di Zerocalcare, ma continua a non rispondere al telefono.
I due autori, del resto, vengono dal punk, sottocultura così totalizzante che, una volta deciso di metterla sulla scena, è difficile che possa sparire: fa parte della loro cultura, del loro immaginario. Ma il punk è anche performativo: crescere ascoltando quei testi, andando ai concerti, scambiandosi consigli musicali cambia per sempre la propria attitudine verso la vita e dà forma alle esistenze delle persone, volenti o nolenti.
E per questo, intorno e grazie a Margini, sono fiorite una serie di iniziative culturali e musicali che fanno del film molto di più che una semplice pellicola. Penso al fatto che i Pegs abbiano ricominciato a suonare, con il nuovo disco La palude. Penso alle proiezioni accompagnate da concerti, come quello – il giorno dell’uscita – al Parco Schuster a Roma, dove oltre ai Pegs e a Gli Ultimi, si sono esibiti gli Iena e i No more lies, che vedono nella loro formazione alcuni dei componenti dei Payback. Penso alla produzione e alla messa in vendita di magliette di gruppi inesistenti, quali appunto i Defense e i Wait for nothing. Penso all’album con la colonna sonora del film, i cui proventi sono destinati al Centro storico Lebowski, società sportiva fiorentina nata come emanazione della propria tifoseria. Penso al progetto, curato da Zerocalcare, “Cartoline della provincia”, che ha visto alcuni tra i maggiori illustratori dell’underground italiano disegnare una cartolina per Margini. Penso all’attività della pagina facebook del film, che propone playlist – i cui titoli sono emblematicamente riportati su alcune audiocassette – di varie derivazioni di punk degli anni duemila: per il momento sono tre, una Punk Hardcore, una Oi!/Streetpunk, una NYHC/HC/Metalcore, anche se io non sarei così netta nella divisione tra generi. O ai post sui riferimenti culturali del film, da This is England a L’odio, da Costretti a sanguinare di Marco Philopat a I ragazzi del mucchio di Silvio Bernelli.
Sembra quasi che ci sia un intento pedagogico, il desiderio di far conoscere il punk fuori dalla comunità di coloro che lo frequentano e lo attraversano già. E visto che chi scrive auspica un mondo in cui tutte e tutti lo ascoltino e in cui venga suonato ovunque, dai grandi palchi dell’Estate romana alle stanzette di 50 mq dei centri sociali (pur preferendo ancora i secondi ai primi), Margini e tutto quello che, a livello culturale, lo circonda non può che suscitare apprezzamento e simpatia.
Ancora più apprezzamento e ancora più simpatia perché il punk emerge dal film come ciò che, al di là della musica in sé, effettivamente è, cioè il mondo delle possibilità, dove tutti e tutte possono fare qualcosa. In fondo, nel punk non è così importante neanche saper suonare o saper cantare: ma si può suonare e si può cantare comunque. Per questo continuo a pensare che sia la sottocultura più inclusiva di tutte, quella in cui è più forte il senso di “collettività”, di fare le cose insieme, di fruire insieme la stessa musica: neanche queste riflessioni sul film sono estranee dal confronto con altri, del resto. Sarà forse perché abbiamo un po’ pleonasticamente cantato milioni di volte, insieme agli Sham 69 e a qualche centinaio di gruppi dopo di loro, che «if the kids are united then we’ll never be divided».
In fine, è il concetto stesso di margine che proietta il film in territori probabilmente più lontani di quelli immaginati dagli stessi autori. bell hooks, in Elogio del margine, identificava nella marginalità un «luogo di radicale possibilità, uno spazio di resistenza»: per lei la marginalità non era qualcosa «che si spera di perdere – lasciare o abbandonare – via via che ci si avvicina al centro, ma piuttosto un luogo in cui abitare, a cui restare attaccati e fedeli, perché di esso si nutre la nostra capacità di resistenza. Un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi». Chiaramente bell hooks si riferisce a una marginalità imposta dalle strutture di dominio di razza, di genere, di classe: ma la visione della marginalità come luogo anche di creatività e di resistenza è sicuramente un’indicazione che emerge con forza da Margini.
Immagine di copertina e nel testo tratte dal film Margini.