EUROPA
Elezioni in Gran Bretagna: la vittoria del Labour fra blairismo, socialismo e movimenti
L’ampio risultato raggiunto da Keir Starmer chiude in Gran Bretagna una lunga stagione segnata dal predominio politico dei Tories. Questa svolta però sembra più determinata dal collasso elettorale dei Conservatori che dalla conquista di consenso di un Labour Party tornato su posizioni moderate. L’accumulo delle lotte sindacali e dei movimenti britannici degli ultimi anni sarà dunque determinante per comprendere la nuova situazione sociale e politica britannica
«Landslide», valanga: così la maggior parte dei media mainstream britannici ha definito la schiacciante vittoria del Partito laburista alle elezioni politiche anticipate del 4 luglio scorso. Dal punto di vista statistico e storico, il risultato è inconfutabile. Conquistando 412 seggi sui 650 a disposizione, il partito rinverdisce i “fasti” del 1997, quando sotto la guida di Blair ottenne 418 seggi (su all’epoca 659), e del 2001, quando ne ottenne 413. Soprattutto, i Conservatori, coi loro 121 seggi, ottengono di gran lunga il risultato peggiore dai tempi di Robert Peel, quando nel 1834 il partito assunse il nome e la forma attuali. A ogni modo, anche solo rimanendo strettamente sull’oggi, i risultati di questa tornata elettorale in Gran Bretagna ci restituiscono un quadro che rappresenta per certi versi un terremoto politico.
Molto si è mosso anche riguardo gli altri partiti politici: i liberal-democratici fanno un balzo dagli 8 seggi del 2019 ai 71 di ora; sul fronte nazionalista, crollo dello Scottish National Party, che perde ben 37 seggi, il Plaid Cymru gallese raddoppia (da 2 a 4 seggi), mentre gli unionisti del DUP perdono 3 seggi e lo Sinn Féin rimane stabile (ma, come sappiamo, i repubblicani si rifiutano di sedere sui banchi della Camera); buona affermazione della destra populista e razzista di Reform che avanza ma non sfonda (5 seggi), dei Verdi (4 seggi) e delle candidature indipendenti (7 seggi).
Fin qui i dati, ma cosa ci restituiscono queste elezioni della situazione sociale e politica britannica?
Prima di addentrarci sul tema, un paio di precisazioni sono doverose, perché non proprio di dettaglio. Innanzitutto i dati sull’affluenza (60%) sono i secondi peggiori dal 1885: solo nel 2011 andò peggio, col 59% degli aventi diritto recatisi ai seggi. Un trend più o meno in linea con la situazione continentale, che non depone proprio a favore dello stato di fiducia popolare nelle democrazie europee. Inoltre, durante le elezioni locali dello scorso anno, il governo britannico ha introdotto l’obbligatorietà di mostrare un documento d’identità con foto in un seggio elettorale. Secondo un rapporto pubblicato dalla Commissione elettorale era già emerso che le nuove regole hanno avuto un impatto negativo sulla partecipazione, con un numero sproporzionato di persone che vengono allontanate dai seggi elettorali nelle aree più svantaggiate rispetto ai luoghi ricchi. I giovani, quelli appartenenti a minoranze etniche, i disoccupati e le persone con disabilità significative (generalmente settori che votano a sinistra) erano tutti più propensi rispetto all’elettore medio a citare la mancanza di documenti d’identità come motivo per non aver votato. Collegato a questo elemento c’è poi quello del sistema elettorale, maggioritario uninominale: il famoso «First Past the Post». Un sistema, quindi, in cui la sproporzione fra seggi conquistati e voti effettivi ottenuti è forte: il Partito laburista ottiene un risultato vicinissimo a quello del 1997, come abbiamo visto, ma con circa 4 milioni di voti in meno (9.725.117 contro 13.518.167) e addirittura 3 milioni in meno di quelle del 2017 (12.874.985), come ha giustamente ricordato ieri Jeremy Corbyn. Ancora, Reform (ex-UKIP ed ex-Brexit Party), coi suoi 4 milioni di voti, è oggi il terzo partito nel Paese, dato che dimostra in maniera evidente come anche in Gran Bretagna l’estrema destra razzista stia avanzando come recettore del malessere e della protesta sociale. Tanto per capirci, il National Front non ha mai ottenuto seggi in Parlamento e il massimo risultato elettorale è stato nel 1979 quando ha ottenuto 191.719 voti.
Ma allora chi ha vinto e chi ha perso? Perdono i Conservatori, che dopo quasi 15 anni ininterrotti di austerità, aumento della tassazione, privatizzazioni e diseguaglianze crescenti, lasciano un Paese coi redditi reali più bassi degli ultimi 200 anni e i servizi pubblici al collasso, in primis l’NHS, il Servizio sanitario nazionale, per decenni il fiore all’occhiello del Paese e il simbolo del welfare state britannico, sulla cui (finta) difesa Johnson aveva vinto il referendum sulla Brexit: per quegli strani ma suggestivi scherzi della storia, il 5 luglio, quando Sunak ha lasciato Downing Street, ricorreva proprio l’anniversario della creazione dell’NHS. Di fronte alle proteste sociali montanti, il Partito conservatore non ha trovato di meglio che implementare una legislazione autoritaria e razzista, fatta di leggi anti-sciopero e anti-movimenti e culminata nell’odioso provvedimento che prevede la deportazione in Rwanda dei migranti rifugiati nel Paese. A questo aggiungiamo che ci si è trovati probabilmente di fronte al peggior gruppo dirigente Tory della storia: l’incredibile sottovalutazione delle conseguenze della Brexit da parte di Theresa May, lo scandalo «Partygate» di Johnson, la grottesca performance di Liz Truss sul bilancio e infine il caos sulla decisione di Sunak di indire le elezioni anticipate all’insaputa di molti funzionari del partito (ma non di tutti, visto che una decina di stretti collaboratori del «Prime Minister» sono indagati e uno anche arrestato per aver scommesso sulla data delle elezioni prima che venisse ufficialmente annunciata) stanno lì a testimoniarlo.
Se quindi è abbastanza facile capire chi ha perso, la situazione si fa più complessa quando proviamo a rispondere alle domande: chi ha vinto? Cosa succederà ora?
Il 4 luglio il Labour Party ha vinto e il governo Starmer, come da protocollo, si è insediato già il giorno dopo. La parola d’ordine di questa campagna elettorale e di questo nuovo esecutivo è «Change Britain», a voler dichiarare una fortissima discontinuità con la gestione politica del Paese degli ultimi 15 anni. Dietro questo slogan si cela però una realtà molto diversa, con un Labour diviso fra maggioranza blairista e sinistra socialista – nonostante il “colpo di Stato” che portò alla defenestrazione di Corbyn – e incalzato dai movimenti.
Lo scontro politico interno al Partito laburista non è cosa nuova, anzi si può dire che è tradizione consolidata. Dai tempi dei tre governi Wilson (1964, 1966 e 1974), passando per gli esecutivi Callaghan (1976) e poi Blair (1997, 2001 e 2005), la contraddizione fra un gruppo dirigente che guardava al centro e al mondo imprenditoriale e finanziario e una sinistra che invece rimaneva ferma sulla difesa degli interessi della working class e dei cosiddetti new movements ha caratterizzato la dialettica interna del partito. In particolare, è col movimento sindacale che le maggioranze centriste hanno avuto gli scontri più duri. Quel movimento sindacale che, ricordiamolo, è fondatore del Labour Party e ancora oggi ne garantisce i principali finanziamenti e rappresenta uno dei principali bacini di iscritti. Con la segreteria Starmer, la musica non è cambiata, anzi forse è ancora peggiorata.
Kevin Farnsworth, professore di politiche sociali e pubbliche all’Università di York, attraverso un’analisi dei big-data, ha inserito i manifesti elettorali di Attlee (1945), Wilson (1964), Corbyn (2017 e 2019) e Starmer (2024), codificando e categorizzando termini, frasi, schemi: i loro significati e sentimenti, la frequenza con cui compaiono e i contesti in cui vengono utilizzati. La prima constatazione è che, si tratti di scuole pubbliche o università, di tassazione progressiva o di pensionati, Corbyn è l’erede di Wilson e Attlee, eccezion fatta per l’enfasi sulla disuguaglianza, che veniva attaccata con maggiore frequenza e forza rispetto a quelli di altri leader laburisti. Il manifesto di Starmer, non solo nel linguaggio e nei valori non è affatto in linea con la tradizione laburista, ma è completamente l’opposto: menziona la parola disuguaglianza solo una volta. Secondo l’analisi di Farnsworth, la piattaforma di Starmer per il 2024 è più vicina a quella del leader conservatore Ted Heath nel 1974. Forse questo non avrebbe dovuto sorprendere, dato che il team di Starmer menziona la povertà solo 14 volte in 130 pagine circa, mentre il termine “business”, ottiene circa 60 menzioni.
Questo era chiaro sia al movimento sindacale, sia alle componenti più radicalmente di sinistra come Momentum. L’ondata di lotte, scioperi, vertenze che si è abbattuta sul paese dagli ultimi due anni, ha fatto diventare quello britannico il territorio col più forte e continuo scontro sindacale a livello occidentale.
Praticamente tutte le categorie sono scese in sciopero: lavoratori e lavoratrici dei trasporti (ferrovie, pullman, traghetti, aerei, pubblici e privati), delle pulizie e delle poste, della scuola, vigili del fuoco, personale sanitario, lavoratori e lavoratrici del settore IT, dell’industria siderurgica, addirittura gli avvocati penalisti. Organizzazioni sindacali come UNITE, UNISON, CWU e RMT sono solo le principali sigle di un universo sindacale in fermento. Nel 2022, la frase «How to join a Union?» era diventata la più digitata sulla barra di ricerca di Google in Gran Bretagna. Parallelamente, lo scontro fra sindacati e partito laburista in Gran Bretagna è cresciuto negli ultimi due anni. In particolare con UNITE, l’organizzazione sindacale che maggiormente contribuisce al partito, in termini di iscritti/e e di fondi. Con la parola d’ordine «Jobs, Pay and Condition», l’organizzazione ha lanciato una campagna vertenziale che dal giugno 2022 a oggi ha portato a 243 vittorie in tutti i settori e su tutti i temi, come si può verificare leggendo l’elenco qui. Attaccata ripetutamente per gli scioperi organizzati dalla sua organizzazione, Sharon Graham, la segretaria generale di Unite, aveva già dichiarato che con queste posizioni, il Labour Party aveva toccato il suo nuovo minimo storico e che oggi gli unici a difendere i lavoratori sono i sindacati. La Graham ha parlato di un sistema “truccato” a favore delle imprese che si ingrassano facendo salire l’inflazione e abbassando i salari, mentre i politici non vogliono o non possono fermarlo: «Siamo nel bel mezzo di un ciclo di crisi. E ancora una volta i ricchi e i potenti chiedono ai lavoratori di pagare la crisi invocando il contenimento dei salari. Stiamo affrontando questa situazione con azioni sindacali, ma stiamo anche scoprendo come stanno realmente le cose». La polemica è salita di tono fino al 5 maggio scorso, quando ha minacciato il ritiro dei fondi al partito se Starmer continuerà a farsi dettare la linea dagli industriali in cambio dell’appoggio elettorale, costringendo il segretario a rettificare il tiro su una serie di dichiarazioni.
A questo quadro aggiungiamo la presenza di una pattuglia agguerritissima di deputate socialiste (alcune legate a Momentum) che, nonostante i tentativi di estromissione dalla tornata elettorale, sono state candidate a forza, soprattutto grazie all’intervento dei sindacati, e hanno vinto: Diane Abbott ad Hackney North, Zarah Sultana a Coventry, Apsana Begum a Poplar, Bell Ribeiro-Addy a Brixton, ecc. Infine, Jeremy Corbyn è stato rieletto da indipendente nel distretto londinese di Islington North, dopo che gli era stato impedito di candidarsi coi laburisti. A dimostrazione che dove c’è radicamento sociale nei movimenti e nei conflitti, si può vincere elettoralmente, anche con il «First Past the Post».
La tendenza votata al peggiore blairismo e che toglie voti ai Conservatori è comunque maggioritaria nel partito, ricordiamocelo.
Tanto che alcuni parlamentari Tory, come Mark Logan e Nathalie Elphicke, sono stati imbarcati nel partito non più tardi di due mesi fa, mentre Nick Boles, ex-ministro della pianificazione nel governo Cameron, è stato contattato per una revisione del quadro politico-legislativo in materia di semplificazione edilizia, sia residenziale, sia commerciale. Di contro sta la tendenza socialista, frutto degli ultimi due anni di conflitti sindacali e sociali: si pensi anche ai movimenti sulla giustizia climatica come Just Stop Oil o a quelli sul carovita come We Don’t Pay, alle imponenti manifestazioni in solidarietà con la Palestina e alle associazioni antirazziste. A ciò aggiungiamo i segnali che arrivano dall’esterno del partito, proprio in relazione alla mattanza di Gaza: non è casuale che in quattro distretti, fra i quali Leicester e Blackburn (oltre ovviamente Islington dove correva Corbyn, animatore di tutte le grandi manifestazioni di questi mesi), notabili laburisti hanno perso il seggio a vantaggio di candidati indipendenti considerati «Pro-Palestine», mentre a Birmingham il candidato del Worker’s Party ha perso per soli 1.500 voti contro quello laburista.
Questo scontro interno ed esterno al Labour è destinato a durare e probabilmente ad acuirsi nei prossimi mesi, se Starmer deciderà di non moderare il suo oltranzismo centrista. La crescita di Reform, come abbiamo visto, non fa dormire sonni tranquilli. Il giubilo per aver visto alcuni dei politici più odiosi del Paese perdere il loro seggio, come Liz Truss, l’integralista antisindacale Grant Shapps o Jacob Rees-Mogg, lascerà spazio alla soddisfazione o alla frustrazione delle legittime aspettative di reale cambiamento tenute da chi più è stato colpito dalle politiche Tory di questi 15 anni. A differenza di altri Paesi, fra cui l’Italia, in Gran Bretagna l’identità di classe è ancora cosa viva: appartenere alla working class, alla middle class o alla upper class fa ancora la differenza nel discorso pubblico e culturale, nei costumi sociali e di comunità, finanche nel registro linguistico. La partita è quindi appena iniziata.
Immagine di copertina di keir.starmer.mp da Flickr
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