approfondimenti

EUROPA

Elezioni europee: il tempo del Green New Deal è già finito?

Il moderato pacchetto di misure ambientali introdotto dalla precedente legislatura è fortemente sotto attacco in questa campagna elettorale. Il rischio concreto, con il nuovo parlamento, è la sua cancellazione e un ulteriore arretramento delle politiche di difesa ambientale

Le tematiche ambientali sono state un tema di dibattito in questa campagna elettorale in tutto il continente. Al centro della attenzione e delle discussioni è il Green New Deal dell’Unione Europea.

Con questo termine, tecnicamente, si intende una strategia politica che prova ad attuare la tanto proclamata transizione energetica verso una economia priva di fonti fossili, in linea con gli impegni presi a Parigi nella COP del 2015.

Questa strategia infatti non riguarda solo l’Europa, è un tema che i democratici statunitensi, ad esempio, hanno utilizzato molto nella campagna elettorale di Biden nel 2020. Con il termine si possono però intendere anche posizioni ben più radicali: sulla necessità immediata di un Green New Deal, si è pure spesa Naomi Klein in un suo recente libro, Il mondo in fiamme.

In Europa il Green New Deal si materializza in un pacchetto ampio di norme che vengono proposte al parlamento a partire dal 2019, alcune di esse sono oggi già approvate, altre in via di approvazione o di negoziazione

All’interno del Green New Deal c’è per esempio la strategia “farm to fork” per accorciare la filiera alimentare, l’impegno a ridurre la produzione di plastica e di rifiuti, la tutela delle zone forestali e della biodiversità oltre che, ovviamente, la riduzione nell’utilizzo di combustibili fossili per arrivare alla neutralità climatica nel 2050.

Alcune contraddizioni della strategia si sono rese palesi presto. Ad esempio, al fine di permettere la transizione ecologica del Green New Deal, l’UE ha definito una tassonomia delle fonti energetiche sostenibili (e finanziabili) e ha incluso tra queste gas metano e nucleare, nonostante la scienza sia ormai concorde nel ritenere il metano pericoloso al pari (o persino peggio) degli altri combustibili fossili. Similmente molte norme approvate – come quelle sulla plastica – contengono varie scappatoie per permettere alle aziende e agli stati membri di aggirarle o di limitarne l’impatto.

Analizzando invece più a fondo emergono i limiti strutturali del pacchetto di riforme attuato a partire dalla presidenza Von der Leyen, e sostenuto dalla maggioranza parlamentare di coalizione popolari-socialisti. In particolar modo questi programmi sono interamente pensati in ottica di crescita economica, infatti più posti di lavoro e maggiore competitività delle imprese sono quasi un mantra nei testi. Il Green New Deal crede fortemente nelle soluzioni tecnologiche alla crisi, nonostante i loro evidenti limiti o le loro contraddizioni, mentre rispetto alle tempistiche per raggiungere i risultati è tutt’altro che ambizioso e in estremo ritardo in confronto con quanto richiede oggi il consesso della scienza.

Non vi si trova nei documenti alcun accenno alla necessità di ridurre in modo sistemico il nostro impatto sul pianeta, nessuna intenzione di mettere in discussione il paradigma sviluppista della crescita né tanto meno il capitalismo come sistema economico

Diciamo che il Green New Deal è stato il tentativo di riconoscere la gravità della crisi ecologica, dando a essa risposte molto parziali e con un certo grado di “sostenibilità”, rimanendo pienamente all’interno del sistema stesso.

Tutto da buttare quindi? Le opinioni a sinistra sono variegate, tra chi constata che in questo modo non si intaccano le cause più profonde della crisi ecologica e chi crede invece che davanti alla gravità della situazione presente il Green New Deal può essere un esempio di una moderata, lenta, inversione di tendenza.

Va pure detto che il Green New Deal ha permesso di porre al centro dell’attenzione alcuni temi che prima erano considerati tabù e che ha forse creato un contesto favorevole al dibattito e alla ulteriore mobilitazione dentro e fuori il parlamento. Il Green New Deal quindi può essere considerato come un campo di azione in cui combattere battaglie durissime – come quella per interrompere i progetti a base di metano o per fermare la produzione di plastica – in un contesto non favorevole ma almeno non apertamente ostile. Secondo un certo pensiero critico però, il Green New Deal rischia anche l’effetto opposto, ossia permette al pensiero liberale di impossessarsi del discorso della “sostenibilità” neutralizzando la carica di dissenso dei movimenti ecologisti.

Uno dei tanti limiti di questo pacchetto di norme è quello di non essere stato adeguatamente comunicato e condiviso con i soggetti coinvolti. Tutta la vicenda della protesta dei trattori dell’inverno scorso si può leggere in questi termini. Davanti a problemi seri e strutturali dovuti in gran parte alla PAC (la Politica Agricola Comune) gli agricoltori hanno preso di mira alcune norme del Green New Deal in particolare quella che obbliga alla riduzione nell’uso di pesticidi.

Non si è messo invece in discussione il sistema di sovvenzioni che favorisce i grandi allevamenti intensivi e i grandi proprietari terrieri, un sistema ecologicamente distruttivo oltre che profondamente iniquo. Von der Leyen non ha battuto ciglio e ha ritirato il provvedimento sui pesticidi per placare le proteste, riuscendoci

Un altro tema, legato al precedente, è il rapporto tra la giustizia sociale e il Green New Deal. La Commissione ha istituito un Fondo per una transizione giusta, al fine di ammortizzare il costo della transizione, ma ancora una volta il centro dell’intervento sono le imprese e la loro sostenibilità, e non strumenti di redistribuzione della ricchezza e di tutela delle fasce meno protette della popolazione. I costi ovviamente ci sono, il problema è però chi li paga. Il Green New Deal è stato pensato per tutelare gli imprenditori medio-grandi, nonostante siano esse tra le fasce di popolazione maggiormente responsabili dell’impatto climatico. 

Cosa sarà del Green New Deal nel prossimo parlamento?

Tutti i sondaggi danno per certo un Parlamento Europeo più spostato verso destra. I partiti a destra del Partito Popolare vedono nel Green New Deal uno dei più grandi nemici, uno spauracchio da agitare nei loro discorsi, forse secondo solo rispetto alla questione migratoria. Esso è visto come la materializzazione di tutto quello che al proprio elettorato dà fastidio perché percepito come una scocciatura, una limitazione ai bisogni materiali o, per essere più precise, alle proprie libertà consumistico-narcisistiche. Pertanto, per compiacere quell’elettorato, si promette che questo grande nemico verrà del tutto smantellato.

L’Italia in questo senso è esemplare fino a sfiorare il ridicolo, con la Lega che nei suoi manifesti promette di difendere «gli italiani e le loro auto» e attacca le bottiglie di plastica con il tappo che rimane agganciato (misura dell’UE per ridurre la contaminazione da plastica dei mari).

In realtà, oltre che la volontà di compiacere “la pancia” dell’elettorato, dietro alle loro mosse ci sono precise pressioni da parte dell’industria fossile che ha interesse affinché si ritardi il più possibile qualunque transizione, anche la più moderata e ammortizzata.  Per questa ragione, tra i più acerrimi nemici del Green New Deal vi sono i partiti liberali e, per quanto riguarda l’Italia, Renzi e Calenda, ça va sans dire

Analoghe pressioni da parte dell’industria fossile le hanno ricevute in tutti questi anni popolari e socialisti per annacquare quanto più è possibile il già moderatissimo pacchetto.

Anche se non è facile definire linee di campagna comuni a tutta Europa, non sembra proprio che i socialisti stiano facendo del Green New Deal la propria battaglia strategica. Ne parlano molto poco, forse perché consapevoli del fatto che non è una misura che goda di ampi consensi, forse perché semplicemente anche loro legati all’influenza dell’industria fossile e del capitale neoliberale.

In ogni caso è abbastanza triste constatare che oggi quando si parla di politiche per il clima in Europa, se ne parla molto da destra per criticare quanto si è fatto finora e molto poco da sinistra per proporre un impegno ulteriore.

C’è infine un elefante nella stanza. Come potrà mai l’economia di una Europa che vive in un regime di guerra convertirsi alla sostenibilità, visto che non c’è settore più fossile e più impattante dell’industria bellica? Come potrà mai l’Europa investire in forma significativa sul Green New Deal quando quote sempre più significative di bilancio stanno venendo dirette verso le spese belliche?

Lo spot elettorale di  Von der Leyen che esalta il ruolo dell’Europa che si riarma è semplicemente incompatibile con le promesse di transizione green che la stessa Presidente ha promosso e millantato negli ultimi anni. É lecito supporre che sia proprio il riarmo europeo, voluto da tutti i paesi e da quasi tutti i partiti uno dei più grandi nemici di qualunque transizione energetica ed ecologica, anche della più lenta e moderata.

Cosa accadrà dopo il 9 giugno non lo sappiamo.  Si può immaginare che le battaglie ecologiste avranno nel parlamento di Strasburgo un interlocutore più ostile e più esplicitamente loro nemico. Se questo genererà una crescita di movimento e di protesta – come speriamo – o una sua paralisi, è tutto ancora da vedere.


Di sicuro il tema della crisi climatica non potrà essere completamente derubricato visto quanto essa già oggi abbia un impatto pesante nella quotidianità della popolazione e nell’economia. L’Europa non è certo esente dagli impatti più drammatici. Nella primavera del 2024 l’agricoltura inglese ha subito terribili perdite a causa di fenomeni meteorologici devastanti e tutti gli scienziati considerano il Mediterraneo un hotspot della crisi climatica in cui stravolgimenti improvvisi e potenzialmente drammatici sono da mettere in conto nel prossimo futuro.

Per quanto possa sembrare scontato, riconoscere l’importanza dell’intersezionalità, della convergenza organica tra lotte ecologiste e lotte pacifiste contro la guerra e contro le guerre, può essere un buon punto di partenza per costruire mobilitazioni, a partire dal 10 giugno e a prescindere dallo scenario che incontreremo nell’emiciclo di Strasburgo.

L’immagine di copertina Ilaria Turini – Fridays for Future 2021. La foto nell’articolo è di Mike Langridge

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