editoriale
Elezioni in Catalogna: un rompicapo per le sinistre del “cambio”
Se l’indipendentismo è risultato maggioritario col 47,5% dei voti, la vera vincitrice del voto catalano è stata la destra nazionalista spagnola. La sinistra di Catalunya en Comú-Podem e quella indipendentista escono fortemente ridimensionate dalle urne. Serve ora una nuova strategia per uscire dall’impasse
Una catastrofe annunciata: hanno vinto le destre. Ogni analisi sensata del voto catalano deve assumere questo dato. Una pagina buia per le sinistre, per el cambio nel Paese e per la stessa Catalogna che, divisa, rischia un processo di ulsterizzazione. La sconfitta del premier Mariano Rajoy (con la repressione annessa) è un mero contentino. La polarizzazione dello scontro ha portato, infatti, al trionfo della destra nazionalista (Ciudadanos) e della destra indipendentista (Junts per Catalunya).
Il partito di Albert Rivera, la Podemos di destra come qualcuno la definiva agli albori, ottiene il 25,3% affermandosi come primo partito. L’ex governatore, fuggito in Belgio, Carles Puigdemont conferma, invece, la sua leadership all’interno dell’eterogeneo blocco indipendentista che, nelle elezioni del 21 dicembre, risulta maggioritario in Catalogna.
I partiti indipendentisti (Junts per Catalunya, Esquerra Republicana de Catalunya, Candidatura d’Unitat Popular) mantengono la maggioranza assoluta nel Parlamento di Barcellona (70 deputati su 135, ne avevano 72 nell’ultima legislatura), favoriti dalla legge elettorale che premia le circoscrizioni rurali. Guadagnano circa 100mila voti rispetto al settembre del 2015, ma perdono lo 0,3% per l’altissima partecipazione (79%), dimostrando però che quasi la metà dei catalani (47,5%) difendono ancora l’indipendenza della regione. Succeda quel che succeda, dunque, circa 2 milioni di catalani continuano (e probabilmente continueranno) a votare partiti indipendentisti. Il problema è dunque politico e non può essere risolto solo con i tribunali e il commissariamento della regione: la sconfitta di Rajoy è dunque netta, tenendo poi conto che il Partido Popular (Pp) ottiene solo 4 deputati e il 4,2% dei voti, convertendosi in un partito minoritario in Catalogna. Ciò che ora è a rischio per il Pp è anche l’egemonia nel centro-destra spagnolo a favore di Ciudadanos (con l’ex premier José María Aznar che appoggia palesemente i giovani di Rivera).
Ma chi festeggia per la vittoria indipendentista – ottenuta sicuramente in un clima di repressione statale e con i leader in carcere o all’estero – non considera però che i risultati mostrano una società spaccata a metà. I partiti costituzionalisti – Pp, Ciudadanos e socialisti – aumentano i loro consensi, ottenendo il 43,5% dei voti e 57 deputati. Esistono due Catalogne, ormai. La divisione è anche geografica: l’interno della regione vota indipendenza; Barcellona e la sua area metropolitana, e la costa fino a Tarragona, votano contro. La polarizzazione è estrema. E si è trasformata in una spaccatura anche identitaria: chi vota contro l’indipendenza è soprattutto di origine spagnola, parla spagnolo in casa e si sente più spagnolo che catalano (o tanto spagnolo quanto catalano); chi vota a favore dell’indipendenza è soprattutto nato in Catalogna, catalano-parlante e si sente solo catalano (o più catalano che spagnolo). Gli indipendentisti hanno dunque vinto, ma non hanno convinto, fermi come nel 2015 intorno ai 2milioni di consensi. Il rischio è che la frattura non si ripari e il fantasma dell’ulsterizzazione è dietro l’angolo. C’è poco da esultare: il risultato delle elezioni dimostra come il problema rischia di cronicizzarsi.
Le conseguenze del voto
E, ora, che governo si formerà? E con quale programma? Si abbandonerà la via unilaterale? Gli indipendentisti hanno bisogno dei voti o almeno dell’astesione degli anticapitalisti della Cup, che per quanto hanno sofferto una batosta (4,4%, 4 deputati, ne avevano 10 nella scorsa legislatura), possono giocare ancora un ruolo chiave. Il loro dato elettorale dimostra come in Catalogna siamo ben lontani dalla creazione di una nuova “Repubblica Socialista” – come auspicherebbero i leader della Cup o come molti erroneamente pensano in Italia – ma che il processo indipendentista sia egemonizzato dai settori borghesi, che hanno governato la regione per trent’anni.
Altra questione irrisolta: chi sarà il nuovo presidente della Catalogna? Puigdemont è latitante a Bruxelles e se ritorna in Spagna sarà arrestato. Altri sette deputati indipendentisti sono nelle stesse condizioni e potrebbero non poter partecipare alla sessione di investitura, mettendo dunque a rischio la maggioranza parlamentare indipendentista. La magistratura avrà un ruolo chiave. E per quanto gli indipendentisti chiedano a Rajoy di intervenire sui tribunali, in Spagna esiste, come in qualunque democrazia occidentale, la separazione dei poteri, per quanto si possa discutere sul livello di politicizzazione della giustizia. Una volta avviata, la macchina della giustizia – per quanto possiamo considerare giuste o sbagliate le imputazioni e le decisioni prese dalla procura generale e dai magistrati – non si ferma. Un problema enorme. Vedremo quel che succederà: il 17 gennaio si costituirà il nuovo Parlamento e entro fine mese si terrà la prima sessione di investitura.
E le sinistre?
Le sinistre escono penalizzate dalle elezioni. Catalunya en Comú-Podem – ossia i Comuns, la confluenza di sinitra alternativa guidata dalla sindaca di Barcellona Ada Colau e appoggiata da Podemos – peggiora il risultato di due anni fa, ottenendo solo il 7,4% dei voti e 8 deputati. Poco, troppo poco. Com’era prevedibile, con la polarizzazione dello scontro, chi offriva dialogo e una via d’uscita politica (riforma federale della Costituzione come i socialisti; referendum accordato sul modello scozzese come i Comuns) è rimasto schiacciato.
Le sinistre, soprattutto quelle alternative che difendono un cambiamento politico in Catalogna e in tutta la Spagna, devono ripensare la loro strategia, anche perché Ciudadanos ha fatto il pieno di voti nei quartieri popolari di Barcellona e nell’area metropolitana, che storicamente hanno votato le sinistre. E che sono state il motore che hanno permesso ad Ada Colau di arrivare al Comune della Ciudad Condal nel maggio 2015 e a En Comú Podem di essere il primo partito in Catalogna nelle elezioni generali spagnole del dicembre 2015 e del giugno 2016.
Alcuni esempi. A L’Hospitalet de Llobregat (250mila abitanti) e Santa Coloma de Gramenet (120mila abitanti), città dell’hinterland barcellonese governate ancora oggi dai socialisti, Ciudadanos è stato il primo partito con rispettivamente il 33,4 e il 35,5%: l’avvisaglia c’era già stata nelle precedenti elezioni regionali del settembre del 2015 presentate dall’indipendentismo come un plebiscito sull’indipendenza, quando il partito guidato in Catalogna da Inés Arrimadas aveva ottenuto il 23,5% in entrambe le città. Lo stesso dicasi di Nou Barris (165mila abitanti), il municipio del Comune di Barcellona dove maggiori sono le disuguaglianze sociali: nel 2015 Ciudadanos ottenne il 22,7% dei voti, lo scorso 21 dicembre si è trasformato nel primo partito con il 31,4%. È pur vero che Ciudadanos è riuscito a raccogliere alti consensi anche nei quartieri più ricchi del capoluogo catalano ed è cresciuto molto anche in Comuni benestanti della costa della regione – prova che la questione identitaria supera le barriere di classe, che ci piaccia o meno –, ma la sua crescita spettacolare nell’ultimo lustro (nel 2012 aveva appena il 7,5%) si deve essenzialmente alle periferie, dove gli indipendentisti non sfondano (tutti i partiti indipendentisti insieme non superano il 30%).
Alcuni studi dimostrano proprio come i voti persi dai Comuns non siano andati alla sinistra indipendentista (Cup) bensì a Ciudadanos o ai socialisti, sia rispetto alle precedenti elezioni regionali – dove la lista Catalunya Sí Que Es Pot aveva raccolto solo l’8,9% – sia rispetto alle municipali e alle elezioni generali. Praticamente perde a destra, non alla sua sinistra. Le cause? Probabilmente, l’essere stati percepiti come non sufficientemente critici con l’indipendentismo e “ambigui” riguardo alla posizione da prendere in un momento di estrema polarizzazione. L’accelerazione indipendentista è stata vissuta con stanchezza, astio e preoccupazione da molti catalani non indipendentisti, soprattutto nelle periferie in cui la maggior parte degli abitanti sono di origine spagnola. Parliamo di un paio di milioni di persone che si sono sentite escluse da un governo regionale che con meno del 50% dei voti si rivolgeva solo ai propri votanti. Le sinistre sono riuscite a parlargli quando in ballo c’era il Comune o un cambio di governo in tutta la Spagna, non quando si decideva sull’indipendenza della Catalogna. Tanto che il tentativo di portare la campagna elettorale sulle questioni sociali non è riuscito a Catalunya en Comú-Podem. Si è votato in chiave nazionale/identitaria e sono state le destre che ne hanno raccolto i frutti. Una tendenza che si sta affermando in tutta Europa: le destre che – basandosi su campagne identitarie e patriottiche (dai forti accenti xenofobi) – riesce a sfondare nei quartieri popolari e più colpiti dalla crisi. Lì se la sinistra non costruisce un’opzione credibile di alternativa, lascia il campo alle (peggiori) destre.
È pur vero che in Catalogna ha sempre avuto un ruolo importante il voto disgiunto, ossia che una parte della cittadinanza vota in un modo alle regionali e in un altro alle municipali o alle generali. Il che potrebbe significare che i Comuns possono recuperare quei votanti in altre tornate elettorali, come era già successo nell’autunno del 2015. Ma è anche vero che a differenza del settembre 2015, questa volta Ada Colau ha appoggiato la lista dei Comuns e si è spesa personalmente in campagna elettorale. E che la crisi catalana si sta cronificando: rompere i “blocchi” – quello indipendentista e quello anti-indipendentista – con una proposta politica diversa si fa sempre più difficile.
La questione è cruciale non solo per il contesto catalano, ma anche per quello spagnolo: il rischio della secessione unilaterale catalana ha rafforzato nel resto del Paese le destre che si sono definite chiaramente contro l’indipendentismo. Recenti sondaggi dimostrano come Ciudadanos potrebbe convertirsi nel secondo partito superando i socialisti e importunando seriamente il Pp, mentre Podemos – che ha difeso coraggiosamente un referendum accordato per la Catalogna e l’idea della Spagna come stato plurinazionale – perderebbe consensi, scendendo al 15% dei voti. Se l’infiammazione catalana non si cura in fretta, sarà difficile invertire questa tendenza, a meno di non riuscire a cambiare strategia.
Ma come? Il rischio reale è che la “finestra di opportunità” di un cambiamento politico che si era aperta nel 2014-2015 – dopo il ciclo di mobilitazioni sociali iniziate con gli indignados nel 2011 – possa chiudersi per sempre. La battaglia indipendentista, infatti, non è la prosecuzione delle acampadas indignate ma la loro antitesi, per quanto nell’eterogeneo movimento indipendentista – che è trasversale – ci siano settori provenienti dalla sinistra movimentista e persone che si erano politicizzate proprio con gli indignados.
Un ciclo che si potrebbe chiudere non solo a livello nazionale, ma anche a livello locale, dove le confluenze municipaliste (Barcelona en Comú, Ahora Madrid, le Mareas galiziane, ecc.) avevano aperto una nuova tappa politica con le vittorie della primavera 2015. Se è indubbio che quello che è stato fatto in questi due anni e mezzo nelle “città ribelli” è più che positivo – sia nella maniera di fare politica sia nella gestione della città – e si mantiene l’appoggio della cittadinanza, è anche vero che le prossime elezioni comunali del maggio 2019 saranno la prova del fuoco.