cult
CULT
Elena Ferrante: la narrazione come pratica femminista
Isabella Pinto, nel libro appena pubblicato per Mimesis “Elena Ferrante: poetiche e politiche della soggettività” si colloca in un interregno tra letteratura classica del femminismo della differenza e letteratura più contemporanea, interrogandosi anche su quanto la pratica della narrazione possa divenire essa stessa una pratica politica
Prima che Elena Ferrante, grazie alla sua “amica geniale”, divenisse un fenomeno letterario popolare e di grande eco mediatica nessuno mai si sarebbe sognato di criticarla per le sue opere precedenti altrettanto importanti, come L’amore molesto, ad esempio, e tanto altro.
Già questo è un sintomo di quanto un’opera attraverso cui ci siamo riconosciute in tantissime possa essere accolta con snobismo o con la postura classica di chi, pur non avendola mai letta, ha voluto etichettarla come “letteratura femminile” per depotenziarla, ghettizzarla, ridurla a fenomeno da baraccone: come se davvero potesse esistere un canone entro cui inserire una storia di amore e di amicizia che attraversa tutta la seconda metà del Novecento italiano o, peggio, come se il pensiero della differenza sessuale fosse immediatamente riconducibile ad un “femminile” stereotipato, banale, da rivista patinata.
Eppure ancor prima di lei, prima di questo travolgente successo che l’ha resa famosa in tutto il mondo, la letteratura femminista della differenza aveva fatto compagnia, soprattutto in Francia e in Italia, a tutte quelle pensatrici, come Irigaray, Muraro, Lonzi, Cavarero, che hanno generato un vero e proprio “taglio” nel pensiero dell’Uno e di quell’Universale su cui si erano andati adagiando i linguaggi, i poteri e l’intero castello epistemologico delle scienze umane e sociali. Un Uno (maschio, bianco, padre) che non prevedeva mai l’ordine/disordine del Due, a partire dalla relazione, dal linguaggio, dal simbolico oltre che dalla materialità del vivere, dall’esperienza che si fa pensiero e parola.
Chissà, infatti, in quante e in quanti sanno dell’importanza che ha avuto l’opera di Hélène Cixous nello stravolgere il canone – quello sì – di una scrittura letteraria basata sulla logica binaria costruita dal maschile o quanto quei richiami all’opacità e alla malinconia che ritroviamo in Julia Kristeva non siano stati fondamentali per dare piena autorevolezza a un linguaggio creativo, potente, proprio perché incistato nel sentire dei corpi o comunque teso a fare del “lato”, del “margine”, delle micro storie, dell’inconscio, anziché dell’astrattismo teorico, qualcosa di molto simile a quel “senso comune” di cui parlava Antonio Gramsci.
Qualcosa attraverso cui riconoscere gli altri e attraverso cui riconoscersi, questa volta non a partire dall’ideologia politica, ma a partire da una geografia di sentimenti ed emozioni.
Tuttavia, se questa è la base dell’alfabeto del pensiero della differenza sessuale, è pur vero che sulla nozione stessa di “differenza” si genera ancora parecchia confusione perché, un po’ come accade allo stereotipo del canone sbrigativamente definito come “letteratura femminile”, non è certo concetto riconducibile a quello, decisamente più statico e rozzo, di “identità” sessuale o di genere con cui invece si confonde spesso.
Ma allora cosa possiamo intendere per “differenza” leggendo l’opera letteraria di Elena Ferrante? Isabella Pinto, nel suo libro appena pubblicato per Mimesis, ce lo spiega molto bene collocandosi in un interregno assai ben riuscito tra letteratura classica del femminismo della differenza e letteratura più contemporanea in grado di risignificare quello stesso femminismo senza depotenziarsi o perdersi nell’astrazione teorica.
La nostra autrice, nella sua minuziosa ricostruzione del senso e del significato della poetica ferrantiana, ci dice che la differenza è certamente intesa come differenza dall’Uno del maschile e dell’universalismo, ma è anche e soprattutto la differenza che genera un corpo che parla a partire dalla propria esperienza singolare, andando persino a scombinare il rapporto canonico tra natura e cultura (cosa è se non questo la “smarginatura” con la quale Lila rompe con ogni canone del “femminile” classicamente inteso?); è differenza come differimento situato, sempre in relazione, “differance”, qualcosa che si sposta continuamente, che taglia e al contempo si ricompone senza mai cedere alla tentazione del “neutro”, cioè sempre l’Uno, l’universalismo, il maschile.
Isabella Pinto, oltre a compiere questo gesto teorico e politico di differire dalla differenza intesa come identità sessuale e di genere, oltre a spostarsi con estrema raffinatezza dal canone della “letteratura femminile” rimettendo l’opera di Ferrante nel suo canale di irriducibile singolarità, di una creatività letteraria transnazionale comunemente definita come Global Novel, si interroga anche su quanto la pratica della narrazione possa divenire essa stessa una pratica politica.
Il volume si articola in tre parti principali in cui, fin dai titoli, si respira quanto già scritto sopra: mitopoiesi (il ciclo delle madri cattive); diaspora (temporalità postumane e “fantasia di auto-fiction”); performatività (autorialità diffratta e la “narratrice traduttrice”), più una interessante conclusione e un affondo sull’ultimo volume di Ferrante, La vita bugiarda degli adulti.
Senza svelare fino in fondo i segreti di questo libro-scrigno che restituisce grande dignità epistemologica alla letteratura ferrantiana, si potrebbe innanzitutto dire che rileggendo il ciclo L’amore molesto, I giorni dell’abbandono, La figlia oscura e La spiaggia di notte la rigidità dell’ordine simbolico della madre diventa una genealogia femminile che non poggia affatto la sua radice sulla mistica del materno, bensì sulla pratica della relazione che è anche conflitto, dolore, talvolta persino lacerazione tra madre e figlia.
Così come l’uso del termine “diaspora” per interpretare e riavvolgere i tanti nodi che emergono da una lettura approfondita dalla quadrilogia de L’amica geniale ci indica, attraverso il simbolico della bambola usato come oggetto “postumano”, ma al contempo perturbante e transizionale, un continuo spostarsi del sé, talvolta persino un abdicare da esso, nella relazione con l’altra. Mentre il richiamo alla “performatività” non si situa sulla mera rappresentazione scenica del sé, bensì sul tentativo di leggere una sorta di “diffrattività” del concetto di autorialità presenti in opere ferrantiane come La frantumaglia e L’invenzione occasionale.
Non v’è dubbio che in questa opera importante per la letteratura, così come per tutto il pensiero femminista e politico, un ruolo determinante è giocato dalla dimensione generazionale che accoglie il passato, lo traduce nel tempo presente e lo sposta verso il futuro.
Non v’è neppure dubbio, però, che questo straordinario esercizio scientifico e politico insieme per Isabella Pinto che studia Elena Ferrante non è mai ostile alla genealogia femminista e femminile, nel senso che non si produce in un ordine dialettico azzerando e contestando il pensiero delle studiose e delle pensatrici che l’hanno preceduta.
Il suo, infatti, è un gesto intelligentissimo attraverso cui l’uso dei saperi diventa generativo e fecondo perché adottato come trama di relazioni, come un dire e ascoltare insieme. La presenza di Rosi Braidotti è molto forte in questo volume, o almeno a me è parso di vederla disseminata più o meno ovunque. Tuttavia, nonostante il “postumano” fosse spesso associabile al concetto di “corpo senz’organi” in Deleuze o al famoso Manifesto di Donna Haraway, è altrettanto vero che esso può ri-materializzarsi attraverso il pensiero e le pratiche femministe, così come sta già avvenendo lavorando sul rapporto natura/cultura/artificio assai presente negli studi di eco-politica o eco-critica.
Parallelamente, attraverso lo spostamento dal concetto di “differenza sessuale” a quello di “singolarità” nel pensiero femminista e psicoanalitico di matrice lacaniana è possibile anche immaginare un movimento contrario, ovvero una sorta di ri-umanizzazione dell’umano attraverso il linguaggio unico e singolarissimo dell’inconscio.
Nonostante Isabella Pinto non viri verso questa seconda direzione non v’è dubbio che il suo desiderio di ripensare la politica femminista attraverso la letteratura ferrantiana conduca a un qualcosa che può tenere assieme entrambe le prospettive in una nuova trama relazionale tutta da costruire e pensare per dare centralità alla poethica della soggettività, anziché solo alla loro conta identitaria. Una politica delle emozioni, dunque, non delle “mozioni”. Qualcosa che lega e separa, unisce e disgiunge, senza mai smettere di riconoscere l’irriducibile diversità dell’altra/altro. D’altronde senza questo gesto non vi può essere relazione e, dunque, neppure politica di lungo respiro.
Isabella Pinto, Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività, Mimesis, pp. 252, euro 22
Immagine di copertina: foto di David Seymour