MONDO
Egitto, al-Sisi e i suoi compari (seconda parte)
In questa seconda parte di inchiesta sul ruolo della lobby militare nell’economia politica egiziana, si ricostruiscono i passaggi che portarono alla contrapposizione tra nasserismo e islamismo fino alla rivolta che segnò la fine di Mubarak e aprì agli sviluppi attuali
La lobby delle stellette è, dunque, ben più d’un ceto sociale. Occupandosi di economia e politica risulta trasversale e, incardinata ai vertici del potere, raccoglie consensi spontanei e interessati, diretti e indiretti. Allora viene da chiedersi perché abbia imboccato la via dell’accanimento repressivo interno, spaccando e polarizzando oltremodo la nazione. Diverse tensioni partono da lontano, quando i ‘Liberi ufficiali’ avevano iniziato a controllare il Paese con elementi di prestigio e carismatici. Gamal Adb el-Nasser è stato certamente l’uomo che molto ha fatto, deciso e sognato per l’Egitto, per la categoria di provenienza, per se stesso. Dalle umili origini, che non gli fecero comunque mancare il corso di studi superiori, iniziò a partecipare alle manifestazioni nazionaliste contro il protettorato britannico. L’ingresso in Accademia militare, dove si laureò in giurisprudenza, lo collocava nel privilegiato ambiente dell’esercito. In esso e con esso visse, nel 1948, la frustrazione della sconfitta contro Israele nel conflitto sviluppato da palestinesi e alleati arabi contro la nascente nazione sionista, per poi inseguire sentimenti repubblicani antagonisti alla monarchia interna e un credo laico in contrapposizione all’impegno politico islamico.
Quest’ultimo era organizzato dalla Jamaʿat al-Iḫwān al-muslimīn, letteralmente Associazione dei Fratelli Musulmani sorta alla fine degli anni Venti, che venne perseguitata con alcuni esponenti di spicco, come Sayyd Qutb, proprio da Nasser fin dall’inizio della sua presidenza. Il teorico islamista – divenuto tale dopo un precedente attivismo prossimo al conservatorismo liberale d’impianto antimonarchico, tanto da sostenere il colpo di mano dei “Liberi ufficiali” – fu arrestato nel 1954 e dodici anni più tardi addirittura impiccato. L’ordine giunse direttamente da Nasser, oggetto sì d’un attentato di cui era sospettata la Fratellanza Musulmana, ma che avrebbe potuto mostrarsi magnanimo verso l’ideologo avversario.
All’epoca il presidente, che aveva già lanciato il ‘socialismo arabo’, risultava una figura di spicco di quel ‘terzomondismo’ diventato a inizio anni Sessanta una spina nel fianco di imperialismo e neocolonialismo. Il blocco dei Paesi non allineati, creato nel 1956 da Tito, Nehru, Sukarno e Nasser era stato istituzionalizzato nel 1961 e contava, nel vertice del Cairo del 1964, quarantasei membri, fra cui nazioni giovani in espansione com’erano India, Brasile e appunto Egitto. Nella versione politica moderna del nuovo Egitto, che da quell’epoca riscontrò una notevole crescita demografica, l’impostazione laica incarnata dall’esercito, ormai padrone del potere, e quella islamica si confrontavano e si contrapponevano. Il socialismo nasseriano rivendicava anche una matrice islamica, ben distinguendosi dal socialismo scientifico e rifiutando conflitto di classe e ateismo, parlava di giustizia sociale ma non di abolizione della proprietà e, come la Fratellanza, proponeva un programma sociale interclassista.
Dunque, eccoli i termini della competizione che elementi islamici come il citato Qutb, su posizioni dissidenti verso il fondatore del movimento della Fratellanza Al-Banna e il prosecutore al-Hudaybi, invece esaltarono. Perciò nasserismo e islamismo, pur vicini nel contrastare il colonialismo britannico e nel sostenere il nazionalismo, egualmente interessati a una controllata emancipazione sociale, diventavano avversari. E con la repressione governativa si trasformavano in acerrimi nemici. Eppure ci fu un avvicinamento. Doveva morire Nasser perché ciò avvenisse. Dopo di lui il credente Anwar Sadat, altro militare assurto alla presidenza, tagliò i fili del socialismo arabo che flirtava con l’Urss, all’interno incoraggiò la riorganizzazione islamica messa al bando per un ventennio, mentre in politica estera aprì le porte agli Stati Uniti e alle imprese straniere. La Costituzione del 1971, ridiscussa nel 2012 durante l’amministrazione Morsi e nuovamente dopo il golpe di al-Sisi, individuava nella shari’a la fonte della legislazione egiziana. Sadat puntava a usare la Fratellanza Musulmana, rilanciandone la componente più moderata, per contrapporla al nasserismo di sinistra e a quel progressismo laico sviluppatosi nel post Sessantotto anche fra gli studenti dell’altra sponda del Mediterraneo. La presenza politica islamica fra il crescente numero di giovani riaprì la strada a un reclutamento in base all’assistenzialismo, già praticato agli esordi dalla Fratellanza e impedito dalla repressione nasseriana, e allo sviluppo di taluni sindacati professionali dove gli Ikhwan si stavano fortemente radicando.
Riprese, comunque, voce, spazio e seguito l’islamismo radicale che puntava sulla lotta armata con attentati rimasti tristemente noti: da quello che nel 1981 eliminò Sadat per mano d’un miliziano della Jihad Islamica infiltratosi fra le sue guardie, al massacro di Luxor del 1997, dunque sotto Mubarak (62 morti, prevalentemente turisti), opera della Jihad Taliat al-Fatah. Nel mezzo un crescendo di conflittualità fra un terrorismo jihadista, propugnato da organismi titolati alla ‘guerra santa’, e un terrorismo militare che avviava metodi mai dismessi basati su sequestri, torture, sparizioni. Uno spaccato del peggior filone della guerra sporca.
Certo l’Egitto, pur con migliaia di vittime d’una sorta di conflitto civile strisciante, non raggiunse i coevi livelli di violenza insanguinata registrati nell’Algeria dei centocinquantamila morti del decennio 1991-2001. In Egitto la fase più acuta – avviata colpendo simboli del laicismo come l’intellettuale Farag Foda, assassinato nel ’92 e il tentativo di omicidio del premio Nobel per la letteratura Nagib Mahfuz, poi convogliata nell’attacco al business turistico gestito da Forze Armate e privati – non produsse l’attesa rivolta della gioventù diseredata del Paese rurale. Quelle periferie urbane come Imbaba, diventate enclavi dell’Islam radicale e spacciate per “micro Califfati”, rimasero più nell’immaginario militante che un progetto politico, sostanzialmente incompiuto e fallito. Ma la gioventù islamizzata delle università, che aveva dato corpo a una presenza sindacale politicizzata e non estremizzata, continuava ad agitare i sogni dei militari diventati presidenti-raìs.
Hosni Mubarak più d’ogni predecessore ne ha incarnato il ruolo, dividendosi fra la conservazione dei favori alla casta d’appartenenza e gli occhi socchiusi sugli accaparramenti dei colleghi, durante e dopo il servizio attivo. Le accuse d’affarismo illecito a danno dei beni dello Stato in cui era finito assieme al clan familiare nel periodo della rivolta di piazza Tahrir, ne sono la conferma. Contro questo sistema che ha espresso servitori del peggior regime della paura e delle sevizie – come furono e sono i capi dell’Intelligence da Suleiman a Ghaffar (i cui collaboratori sono implicati nell’omicidio Regeni) – s’era rivoltata la piazza politicizzata della sinistra ribelle e della base della Fratellanza, mobilitatasi sin dalle prime settimane bollenti del febbraio 2011. Mobilitata contro il parere dei vertici della Fratellanza. che se ne stavano quieti a scrutare l’orizzonte degli eventi.
La gioventù egiziana che da anni aveva sotto gli occhi assassini come quello di Khaled Said (il ragazzo massacrato di botte dalla polizia ad Alessandria nel 2010) non voleva più restare in silenzio. E tracimò per mesi nelle strade. Le settimane che fecero cadere Mubarak sono state macchiate dal sangue di ottocento martiri. Successivamente la Fratellanza fu l’unica a raccogliere tanti voti reali per eleggere un presidente esterno ai poteri forti delle stellette. Durò appena dodici mesi. Vari partiti laici, fantasmi presuntuosi quanto impotenti, opponevano livore ma nessuna alternativa. A conclusione d’un anno vissuto pericolosamente dall’inefficace presidenza dell’islamico Morsi, post nasseriani, liberali e collaborazionisti nostalgici hanno offerto corpo al golpe studiato per mesi dal Consiglio Superiore delle Forze Armate e hanno appoggiato l’avvento di Abdel al-Sisi. Quarantacinque giorni dopo quel colpo di mano, celato dalla “legalità” di milioni di firme raccolte contro la gestione Morsi, l’esercito riproponeva se stesso, massacrando nella sanguinaria notte di Rabaa oltre un migliaio di persone. Chi, fra i laici, gioiva della fine degli odiati attivisti islamici, doveva conoscere prima o poi, galere e torture. L’Egitto, nuovamente silenziato dai militari, è piombato nella sua notte più buia.