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MONDO
Ecuador, come è tornata al potere la destra?
L’arrivo alla presidenza di Guillermo Lasso, politico e banchiere conservatore, segna una svolta a destra nel paese. Il risultato mostra la resistenza al correismo e il peso del voto nullo promosso dal movimento indigeno, aprendo uno scenario complesso con un presidente allineato ideologicamente al neoliberismo
Il processo elettorale 2021 sarà ricordato per un’anomalia: tre candidati sono passati al secondo turno, invece dei due annunciati ufficialmente dall’autorità elettorale. Le accuse di brogli presentate da Yaku Pérez, candidato del Movimento di Unità Plurinazionale Pachakutik [partito ecuadoriano di orientamento socialista e indigenista fondato nel 1995 – ndt], lo hanno posto di fatto come terzo contendente al ballottaggio.
E non perché con la sua decisione sia riuscito a far pendere l’ago della bilancia a favore di uno dei due finalisti dello scorso 11 aprile, ma perché con il suo invito ad annullare il voto ha messo in crisi i voti di entrambi. Con quasi il 97% dei voti scrutinati, Guillermo Lasso del movimento Creando Oportunidades (Creo) [partito conservatore fondato nel 2012 – ndt], si imponeva con il 52,52% dei voti contro il 47,48% del correista Andrés Arauz [ex-ministro del governo Correa e candidato per la coalizione Unione per la Speranza – ndt], e i voti nulli raggiungevano quasi il 17% (già anche al primo turno era stato elevato).
Nonostante formalmente fosse impossibile provare i brogli denunciati nel primo turno elettorale, ci sono indizi che sosterrebbero questa ipotesi.
È sufficiente segnalare i più rilevanti per comprendere l’entità dell’evento: nella notte del 7 febbraio, la presidente del Consiglio Elettorale Nazionale (Cne) ha annunciato sulla televisione nazionale che Yaku Pérez era passato al secondo turno dietro il giovane Arauz, ex- funzionario di Rafael Correa; fino al giorno successivo, il voto confermava una tendenza irreversibile a favore del candidato del Pachakutik; eppure, questa differenza è stata invertita grazie all’arrivo all’ultimo minuto di migliaia di urne dalla città di Guayaquil, roccaforte della destra con pessimi precedenti per quanto riguarda la trasparenza elettorale.
(immagine da commons.wikimedia.org)
Nonostante l’accordo raggiunto il 12 febbraio davanti all’autorità elettorale e alle delegazioni internazionali, Lasso ha rifiutato di aprire le urne nelle quali erano state rilevate irregolarità; inoltre, dopo la palese aggiunta di 612 voti a favore di Pérez riscontrati in appena 28 urne esaminate, il Cne non ha autorizzato l’apertura dei 20.000 verbali contestati. Un pareggio tecnico come questo tra Pérez e Lasso non richiedeva forse una verifica più approfondita dei risultati?
Nelle tre settimane successive al primo turno elettorale, le azioni legali promosse dal Pachakutik hanno generato la presa di posizione da parte dei gruppi di potere economico, dei partiti tradizionali, dei mass media e dell’autorità elettorale. Ovvero, di quello che si potrebbe definire come sistema politico.
Il successo elettorale del movimento indigeno ha spazzato via ogni previsione e calcolo.
Non solo: minacciava le dinamiche di potere. Nonostante Yaku Pérez, in senso stretto, non possa essere considerato come un outsider, rappresenta un progetto con alternative importanti: sia il rifiuto del modello estrattivista che l’autonomia territoriale legata alla plurinazionalità comportano una seria messa in discussione della logica del dominio capitalistico.
La cosa più sorprendente è stata l’allineamento del candidato e della dirigenza correista alle tesi di Lasso. Dal Belgio, lo stesso ex-presidente Correa ha parlato apertamente contro le accuse di brogli e appoggiando la decisione finale del Cne. A prima vista, la spiegazione di questa posizione è semplice: nelle proiezioni elettorali per il secondo turno, Pérez avrebbe battuto largamente Arauz, mentre quest’ultimo godeva di migliori possibilità contro un banchiere conservatore come Lasso. Tuttavia, ci sono elementi di maggiore complessità che spiegano questo tacito accordo tra la destra e il correismo.
Il risultato elettorale del Pachakutik al primo turno (il partito costituirà il secondo gruppo più numeroso dell’Assemblea Nazionale) e le ombre delle irregolarità hanno determinato una chiara linea di separazione con la politica convenzionale. Se Lasso appariva come espressione della vecchia politica oligarchica, Arauz lo faceva come manifestazione di una politica in aperta decomposizione e non è stato mai in grado di prendere le distanze dall’immagine di corruzione legata al correismo.
Inoltre, durante la campagna elettorale, sono venuti alla luce torbidi eventi che coinvolgevano direttamente il candidato in atti irregolari.
Ad esempio, la denuncia di un accordo con i costi maggiorati per un festival d’arte nella città di Loja [capoluogo della provincia omonima nel sud del paese – ndt] o di contratti petroliferi con la Cina svantaggiosi per l’Ecuador.
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In queste condizioni, era inevitabile che Pérez venisse designato come candidato antisistema, catalizzatore dell’insofferenza e della delusione di buona parte della cittadinanza e elemento di raccordo di varie agende sociali. In effetti, la candidatura del Pachakutik è andata ben oltre quello che potrebbe essere considerato un voto organico delle organizzazioni sociali di sinistra e con un’identità etnica.
Il suo affermarsi in aree storicamente precluse a una candidatura indigena, come alcune province della costa ecuadoriana, riflette un drastico cambiamento nel comportamento elettorale di diversi settori sociali.
Dei 27 membri dell’assemblea eletti dal Pachakutik, due provengono dalle province di Guayas e El Oro, risultato impensabile fino a poco tempo fa.
Alla fine, la denuncia dei brogli è passata dall’essere una rivendicazione di diritti e trasparenza elettorale a diventare una questione di posizionamento strategico, una messa in discussione di un sistema politico esclusivo e antidemocratico. Il voto nullo, deciso dalla maggioranza della Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador (Conaie), è stata la ovvia e coerente conclusione di questa messa in discussione, perché evidenziava l’illegittimità delle altre due candidature.
Ovvero, l’illegittimità del sistema nel suo insieme. Non è un caso, quindi, che tutte le voci dell’establishment, all’unisono, abbiano criticato questa decisione. Inoltre, sia i portavoce di Lasso che quelli di Arauz erano concordi nel sostenere le argomentazioni contro il voto nullo, perché presumibilmente favoriva il rivale. Di fatto, il numero dei voti nulli ha finito per trasformare Pérez nel terzo escluso dal secondo turno elettorale.
Lasso ha invertito la tendenza
In questo contesto, e alla luce dei risultati elettorali dell’11 aprile, si può trarre una prima conclusione: è stata la destra a fare bene i calcoli, non il populismo correista. L’ostinazione di Lasso nell’andare al secondo turno, anche rimangiandosi le sue stesse parole, ha una giustificazione: sapeva che, nonostante l’ampia differenza ottenuta al primo turno (32,7% contro 19,7%), Arauz era un candidato battibile.
Non solo per la sua scarsa oratoria, la sua docilità e la perdita di prestigio del correismo, ma anche perché gli strateghi della campagna di Lasso, guidati da Jaime Durán Barba [consulente politico ecuadoriano, ha collaborato alle campagne elettorali di Pablo Escobar, Felipe Calderón e Mauricio Macri – ndt], avevano degli assi nella manica: vediamoli.
Il punto di svolta nella corsa presidenziale è stato il dibattito tra i due candidati finali. Lo staff di Lasso era a conoscenza dei limiti insormontabili di Arauz in questo campo.
La sua fiacca prestazione nel primo dibattito obbligatorio, prima del primo turno, anticipava una situazione in salita per il candidato del correismo. Inoltre, Arauz si è rifiutato di partecipare a un altro dibattito indetto dai media, evidenziando così le sue scarse abilità nel confronto mediatico. Nonostante fosse un candidato perdente, Lasso è stato in grado di volgere i risultati a proprio favore. Inoltre, ha usato uno stratagemma retorico diventato devastante. La frase «Andrés, non mentire di nuovo» con la quale ha martellato il dibattito, ha inondato in poche ore sia i social network che il mondo politico.
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L’idea di un candidato che non diceva la verità ha colpito nel segno. La divulgazione di un rapporto di lavoro tra Arauz e il governo di Lenín Moreno come funzionario della Banca Centrale, che Arauz ha cercato di negare con argomentazioni fuorvianti, è stata utilizzata come punta di diamante della macchina del fango di Lasso. A complemento di questa divulgazione, è stato utilizzato il pagamento di una lauta buonuscita per le sue dimissioni da quella posizione, proprio nel bel mezzo della pandemia e dopo essere stato per diversi anni senza alcuna retribuzione. L’immagine del “pipón” (parassita burocratico in gergo popolare) è stata devastante.
L’ultimo scivolone è stato causato dall’accordo frustrato con la Conaie, diffuso in pompa magna dopo l’appoggio da parte del presidente Jaime Vargas ad Arauz, ma immediatamente smentito dalla maggioranza della confederazione indigena.
L’uso della macchina del fango è stato gestito in modo più efficace dalla candidatura di Lasso, partendo da un’osservazione molto semplice: era molto difficile per il candidato della destra lavare in casa quei panni sporchi che il Paese conosce sin dalla sua prima gara elettorale: che è un banchiere, che è milionario, che ha delle proprietà, che è neoliberista, che è ultraconservatore, che ha collaborato con diversi governi, che ha approvato politiche padronali… niente di nuovo su cui generare una visione negativa aggiuntiva. Alcuni prodotti comunicativi volti ad attaccarlo hanno avuto persino un effetto opposto e sono stati ritirati.
Invece, il giovane Arauz era troppo vulnerabile su questo campo. Il suo problema principale era cercare di prendere le distanze dal peso del governo di Rafael Correa senza rompere con il correismo. Quell’ancora verso il passato è stata abilmente sfruttata dal suo contendente, al punto da togliere la patina di giovinezza e rinnovamento con la quale si presentava nella campagna. Ancora meno con la presenza di Pérez, che appariva non solo come un’alternativa reale, ma come un rinnovamento del discorso e della pratica politica. Il Pachakutik ha occupato con forza lo spazio a sinistra e ha relegato Arauz nel campo delle forze tradizionali. Il candidato correista è così finito per essere identificato con il passato. L’11 aprile Arauz ha vinto soprattutto sulla costa, ma ha perso nella Sierra e in Amazzonia.
Quest’ultimo punto è strettamente connesso a un altro fattore che era impossibile da gestire per gli strateghi della campagna di Arauz: la presenza nella campagna dell’ex presidente Correa dal Belgio.
Questo fattore era già stato notato e analizzato nelle precedenti campagne. Ad esempio, dopo la sconfitta elettorale del 2014, quando Alianza País [partito del presidente Lenín Moreno – ndt] ha perso i principali sindaci del paese, in particolare quello della capitale Quito. Nelle elezioni del 2021, l’immagine di un candidato succube della tutela totalizzante del leader, sommata alla forte resistenza che Correa genera da diversi anni, ha completato la formula corrosiva. La contraddizione era insuperabile: la base che ha fornito ad Arauz lo zoccolo duro del correismo è diventata a sua volta il tetto che gli ha impedito di superare la barriera del 50% dei voti validi.
Per diverse settimane, i tentativi di imporre un basso profilo a Correa furono evidenti e senza successo. Ma le fila di Lasso avevano una chiara consapevolezza di questa opportunità. Buona parte della strategia si è concentrata sull’attacco all’ex-presidente per costringerlo a intervenire nella campagna elettorale e togliere voti ad Arauz. La timidezza con cui il candidato del correismo voleva compensare gli sfoghi e le aggressioni del suo tutore ha generato un cortocircuito catastrofico. Forse l’episodio più conosciuto è stata l’affermazione che «l’odio è fuori moda», con la quale Arauz ha voluto prendere le distanze dal passato correista.
Insomma, quella che in giurisprudenza è definita un’ammissione di colpa, completamente dannosa per la strategia di costruzione di un’immagine del candidato fresca e rinnovata.
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La sinistra dopo l’11 aprile
Dopo 35 anni di democrazia formale, un rappresentante organico del settore imprenditoriale arriva direttamente al governo. A differenza di León Febres Cordero [Presidente dell’Ecuador dal 1984 al 1988 – ndt], la cui vittoria nel 1984 ricostituì l’antico regime oligarchico ecuadoriano in pieno apogeo neoliberista, Lasso affronta una crisi multipla di difficile soluzione. Anche solo il prolungamento della pandemia di Covid-19 implica un blocco politico permanente.
Le risposte che il prossimo governo darà sono state anticipate con sufficiente trasparenza: apertura agli investimenti esteri, accordo con il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), rafforzamento del settore privato dell’economia, priorità all’estrazione di metalli, flessibilità del lavoro, rafforzamento del modello produttivo basato sull’estrazione di risorse naturali… vale a dire, un intero compendio di strategie e politiche neoliberiste. Tuttavia, le condizioni del paese non sono favorevoli per l’applicazione di questo modello in un paese dollarizzato.
Il sollevamento popolare dell’ottobre 2019 ha evidenziato la persistenza di problemi strutturali profondi impossibili da risolvere all’interno dell’economia liberale. Le richieste del movimento indigeno (stato plurinazionale) e degli altri movimenti sociali (diritti diversi) sono ben evidenti.
In queste circostanze, il peso simbolico del voto nullo definirà i termini del futuro conflitto politico. Le ombre dei brogli elettorali e la scarsa legittimità del prossimo governo trasformano il movimento indigeno in un interlocutore politico fondamentale. Insieme al vecchio cristianesimo sociale, il Pachakutik è l’unica forza che non solo è riuscita a sopravvivere alla debacle dei partiti, ma ha anche aumentato la propria rappresentatività. Inoltre, può unire la pressione parlamentare alla mobilitazione sociale. Per ora ha recuperato la bandiera della sinistra dalle mani del correismo.
Questa condizione gli consente di irrompere con maggior forza nel futuro panorama politico. Di fronte alla fragile egemonia della destra, che non avrà la maggioranza in Parlamento, e al progressivo deterioramento del correismo, il Pachakutik e i movimenti sociali possono trasformare in realtà l’ipotesi di una terza via tra i due blocchi. C’è un programma di governo (la Minka per la vita) e un’agenda con linee guida strategiche (plurinazionalità, difesa della natura, diritti delle donne) che lo collocano sulla sponda opposta di un sistema politico atrofizzato.
L’autonomia territoriale delle popolazioni e delle nazionalità indigene, le restrizioni al depredamento della natura o la depenalizzazione dell’aborto, per citare le più urgenti, hanno segnato fin dall’inizio un campo di confronto con la destra e con il populismo correista. I risultati del secondo turno permettono un consolidamento di questa opzione.
Tuttavia, siamo in uno scenario complesso. Il correismo non si fermerà nel suo intento di trasformarsi nell’opposizione al governo Lasso e rinnovare la propria immagine progressista decadente. È la sua unica possibilità per non disgregarsi e scomparire nei prossimi quattro anni. Dall’aver annunciato la propria vittoria al primo turno al finire per perdere le elezioni, c’è un abisso incolmabile.
Articolo apparso originariamente sul sito della rivista Nueva Sociedad
Traduzione dallo spagnolo di Michele Fazioli per DINAMOpress
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