OPINIONI

Economia e coronavirus: per un’alternativa al dominio del Pil

L’epidemia del coronavirus sta mettendo in luce i limiti di uno sviluppo economico incentrato solo sulla crescita. Mai come ora occorre invece ripensare un diverso modello, che concepisca l’ambiente come un organismo vivo e dotato in sè di diritti.

Il Prodotto interno lordo deve crescere. Questo concetto appare indiscutibile, ma perché questa economia cresca le industrie devono continuare a produrre beni che devono essere consumati. Ci hanno dileggiato per decenni, noi che parlavamo di “decrescita”. Intendo Serge Latouche, inventore della formula, e pochi altri che avevano il coraggio di insistere, chi scriveva libri e chi, come me, ha usato un settimanale chiamato “Carta”. Medievali, penitenziali, tristi, fuori del mondo, cavernicoli. Ce ne hanno dette di tutti i colori. E ancora oggi insistono. Quale sarà la conseguenza del coronavirus sul Pil? Ecco la domanda ossessiva, il capro da sacrificare sull’altare dell’economia.

Ma quale economia? Ce lo spiegano e ripetono e ribadiscono, come qualcosa che è impensabile mettere in discussione, economisti di destra e di sinistra, politici di destra e di sinistra, parlatori televisivi di destra e di sinistra, nonché commentatori di giornale, e i giornalisti, incapaci anche solo di gettare un’occhiata al di là del muro, sempre più pericolante, dell’ovvio.

Lo schema, la piccola ideologia, è: il Prodotto interno lordo deve crescere, è il solo metro per misurare benessere (lavoro, commerci, tasse e quindi debito pubblico, concorrenza e quindi innovazione…). E perché questa economia cresca le industrie devono produrre non importa cosa, e i clienti devono consumare non importa cosa, i turisti in viaggio devono aumentare e intasare Venezia e così via… E la somma finale deve essere superiore a quella dell’anno prima, almeno un uno per cento. E a cascata lo stesso deve accadere ai bilanci delle imprese e alle casse dello stato. Di più, sempre di più. Chissà che gli storici del futuro non decideranno che il 2001 è stato l’anno in cui questo macchinario totalitario del capitalismo globalizzato ha cominciato a cedere, a crollare, dopo i vent’anni del liberismo senza avversari, e carico di promesse, siamo tutti ricchi (o per lo meno quelli dei “paesi civili”) e possiamo viaggiare ovunque, la tecnologia ci renderà onniscienti e onnipotenti e guarirà anche la natura, e tutti giocheremo in borsa.

All’inizio del secolo si è visto (chi ha voluto vedere) che non era più così, per molte cause insieme, inclusi i movimenti che hanno svelato il trucco, da Seattle a Porto Alegre, dal Messico indigeno a Genova. E poi la guerra e le torri gemelle, il peso della finanza, talmente smisurato da comandare gli stati, e naturalmente il rapidissimo degrado dell’ambiente, del clima. Quindi la crisi finanziaria del 2008, annunciata dal crollo argentino del 2001. Ora il contagio che funziona da rivelatore delle tante follie.

E nel frattempo la sinistra è rimasta aggrappata alla giaculatoria: il nostro unico scopo è prendere il potere per distribuire i benefici della crescita del Pil. Ma il potere non si sa più bene cos’è e certo non sta a Palazzo Chigi, e a distribuire quel che produce il Pil già provvede il coronavirus (insieme al disastro climatico, al furto dell’acqua e alla rapina delle materie prime, la distruzione delle foreste e la plastica dappertutto, la polvere di acciaieria nei polmoni dei bambini di Taranto, eccetera). Il capitale “estrattivista” è interessato solo all’estrazione, appunto, di guadagni, costi quel che costi, non ha più nemmeno l’ombra di quel che fu il “progressismo”, più salari e più consumi e dunque più benessere: questo valeva forse negli anni Sessanta, quando riempire le città di automobili (e dei loro fumi di scarico) sembrava una conquista proletaria, quando riversare cemento armato in ogni angolo di periferia appariva come la soddisfazione del diritto alla casa. Tra l’altro.

Oggi tutti si svegliano e si vestono a lutto: il Pil italiano nel 2020 sarà uguale a zero. E c’era poco da prendere in giro, la decrescita eccola qua. Purtroppo però sta avvenendo nella maniera peggiore, la gente non è sobria ma povera, l’industria crolla perché continua a produrre quel che non serve o è nocivo, il governo al massimo escogita incentivi perché si riprenda a consumare non importa cosa. Invece il meccanismo si è definitivamente inceppato, soprattutto perché ha prodotto la sua stessa impossibilità: o qualcuno ancora non ha capito che il coronavirus è l’effetto dell’industria dell’allevamento, cioè del modo sadico con cui gli animali vengono allevati e non del fatto che “i cinesi mangiano topi vivi”, come dice quel tale leghista Presidente di qualcosa? Non insegna nulla il fatto che l’abuso di antibiotici (anche le industrie farmaceutiche hanno il diritto di “crescere”, cioè di vendere ogni anno più farmaci dell’anno prima, no?) ha prodotto batteri resistenti a qualunque cosa, detti “superbatteri”, che negli Usa l’anno scorso hanno ammazzato una persona, in media, ogni 15 minuti? Va bene, ma queste cose le sappiamo, anche se non ne teniamo conto.

Ci frega della borsa, se cade, del Pil, se non cresce, del numero dei turisti, se diminuisce. Siamo aggrappati a un modo di vita che non sta più in piedi, però insistiamo, così che il medio evo che veniva rinfacciato ai sostenitori della decrescita è venuto in altro modo: muri e bunker sempre più corazzati e letali, come capita con i migranti al confine con la Grecia, cioè con l’Europa: si tratta di proteggere le ultime isole in cui si può vivere come veri occidentali. Ma senza darsi la mano, è pericoloso.

Ho letto, su Dinamo, un articolo di Emma Gainsforth, che non ho il piacere di conoscere. L’ho trovato estremamente interessante (e umano, che non guasta). A un certo punto, citando un certo libro, Emma scrive: «… mette in guardia contro un vitalismo che è stato in realtà già appropriato dal capitale: che è infinita potenza, volontarismo magico, in un’epoca in cui, piuttosto, è diventato urgente pensare il limite, la misura, la natura finita dei corpi e delle risorse. Ecco, non saper stare in tutto ciò che ci sfugge (…) si trasforma in una sorta di delirio di onnipotenza».

Anni fa, Latouche scrisse un libro che, per una volta, non cercava di popolarizzare l’idea della decrescita, di diffondere il rifiuto della “economia”, ecc. In quel libro Latouche contrapponeva lo spirito “atlantico” del protestantesimo, vera radice del capitalismo, allo spirito “mediterraneo”, più moderato e flessibile. Il capitale è, si leggeva, smisurato, senza limiti, inflessibile. Difatti ha storicamente fondato l’idea, che ancora oggi è evidente per ogni economista, che far crescere il prodotto interno lordo, diciamo, del due per cento l’anno, significa che beni e servizi derivanti dalla trasformazione della natura e dalle altre attività umane, potesse, anzi dovesse moltiplicarsi per venti in dieci anni, per quaranta in venti anni. Chiunque sia dotato di buon senso e non sia un calvinista fanatico, vede che è semplicemente impossibile anche solo immaginarlo.

Trent’anni dopo l’epoca in cui sostenere queste tesi era una impresa da pionieri contro ogni luogo comune distillato dal movimento comunista del Novecento, si può vedere bene che, ad esempio, quant’è demente considerare le conseguenze ambientali dell’attività capitalista come un effetto collaterale che non c’è nemmeno bisogno di inserire nel conto economico dell’impresa, ché tanto la natura è inerte e inesauribile, solo un serbatoio di materie prime e un territorio piatto in cui far correre la “logistica” (ad esempio in Val di Susa) e non, come fanno notare le culture non occidentali, un organismo vivo intrecciato con l’umanità e dotato in sé di diritti.

E d’altra parte tutti sappiamo quanto danno fanno gli ogm e le coltivazioni intensive, l’allevamento indiscriminato (per gli hamburger di McDonald’s), la deforestazione utile a coltivare mais per produrre bio-etanolo, la fratturazione di intere regioni per ricavarne bitume e cioè petrolio… Posso continuare all’infinito, nessuno più contesta che questa aggressione al mondo è pur necessaria al “progresso”. Perché ora si vede l’altra faccia, anzi si subisce.

Il coronavirus è uno di quei virus che “salta” dagli animali all’uomo, come l’aviaria o la spagnola, a suo tempo. E perché lo fa? Perché cerca di sopravvivere all’aggressione alla biodiversità, all’ambiente naturale in cui gli animali vivevano, appunto all’allevamento industriale di polli e maiali. Ed è l’infinita potenza, il volontarismo magico del capitale, che esiste solo in quanto cresce indefinitamente, ad aver creato questo genere di mondo.

A questo punto, nei decenni scorsi, qualcuno in platea alzava la mano e chiedeva, gentilmente ma scettico: e qual è l’alternativa? Ecco, questa sarebbe una bella discussione, a volerla fare ormai senza pregiudizi e partiti presi. Perché siamo al dunque, o si inventa qualcosa di molto diverso o cadremo a picco come i profitti della mostruosa industria del turismo, tanto per citarne una. Ma, anche qui, frammenti di una vita possibile dopo il capitalismo li abbiamo visti, spesso inventati. Il famoso fotografo Sebastião Salgado, dopo aver illustrato la bestialità del mondo com’è, vent’anni fa tornò alla fattoria della sua famiglia, nel centro del Brasile. Ricordava una casa circondata da una foresta, trovò una casa in mezzo a un terreno brullo, spoglio, disboscato. Salgado cadde in una grande tristezza e fu sua moglie, Lélia Wanick, a dire: va bene, facciamo rinascere la foresta. Due decenni dopo la foresta è rinata, con alberi autoctoni pazientemente e sapientemente ripiantati, uno a uno, e gli animali, gli uccelli e i pappagalli e altri sono tornati. Perché non farlo su tutto il pianeta?