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ITALIA
E se i centri antiviolenza non fossero più femministi?
Il finanziamento dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio è affidato a un sistema di bandi organizzato dalle Regioni su ripartizioni di fondi nazionali. Affidamenti brevi, con fondi che spesso arrivano in ritardo e che non valorizzano “l’approccio femminista”. Il rischio è neutralizzare il sistema dell’antiviolenza
Affidamenti troppo brevi
Il Centro antiviolenza di via Titano nel III municipio di Roma è stato gestito dal 2021 dall’APS Casa delle Donne Lucha Y Siesta. Sono passate da questo centro 400 donne, sono stati portati avanti progetti con le scuole, iniziative e dibattiti nel municipio, costruendo una rete territoriale solida con istituzioni, associazioni e gruppi informali. Nonostante questo enorme lavoro portato avanti nei due anni di affidamento del servizio, l’aps Lucha Y Siesta non è l’assegnataria del nuovo bando, perché ha vinto «l’offerta economicamente più vantaggiosa».
Lucha Y Siesta il pomeriggio del 23 giugno ha restituito i due anni di lavoro del centro con un’iniziativa pubblica in piazza: un dibattito, uno spettacolo per bambini, una stand up comedy e musica. «Siamo affrante e arrabbiate» sono le parole delle attiviste che aprono il dibattito e l’emozione è palpabile nella piazza, dove si mescolano femministe, abitanti del quartiere e donne che hanno intrapreso con quel centro un percorso di fuoriuscita dalla violenza.
Come leggiamo dal sito: «Roma Capitale gestisce 14 Centri Antiviolenza, attraverso l’affidamento del servizio a realtà specializzate del terzo settore». La maggior parte dei bandi del Comune di Roma, però, dura due anni o anche meno – come ci spiega Chiara Franceschini operatrice antiviolenza dell’APS Casa delle Donne Lucha Y Siesta: «oggi sono coordinatrice di un’altro centro antiviolenza presso il VII municipio, per il quale abbiamo l’assegnazione per soli 18 mesi. Questa brevità per noi è un grosso problema perché non permette la continuità del nostro servizio, si interrompe il lavoro di rete territoriale, ma soprattutto si lasciano in sospeso i percorsi di fuoriuscita dalla violenza delle donne che arrivano nei nostri centri. Noi abbiamo bisogno di ragionare su tempi più lunghi».
Infatti, la presa in carico da parte dei centri antiviolenza di donne che hanno subito o che subiscono violenza riguarda molteplici aspetti della loro vita: «il percorso principale è quello di fuoriuscita dalla violenza seguito dalle operatrici antiviolenza – ci spiega Chiara Bastianoni psicologa, dottora di ricerca e psicoterapeuta in formazione a orientamento sistemico relazionale – poi c’è il percorso legale, civile e penale, seguito dalle avvocate specializzate, il percorso di supporto psicologico, di sostegno alla genitorialità e di orientamento al lavoro. Certo, ogni caso è diverso, ma tutti portano con sé un grande vissuto di dolore, per il quale c’è bisogno di tempo anche solo per iniziare a lavorarci sopra». Paure, vissuti dolorosi e spesso traumatici hanno bisogno di tempi lunghi, soprattutto per riuscire ad affidarsi e costruire un nuovo rapporto di fiducia con le operatrici, al centro della metodologia di accoglienza basata sulla relazione tra donne sulla quale costruire nuovi percorsi di autonomia e fuoriuscita dalla violenza. Bandi troppo brevi e proroghe che a volte possono andare avanti di mese in mese non permettono una programmazione e una gestione adeguata dei centri e case rifugio. E spesso rischiano di lasciare sole le sonne. Di nuovo.
Fondi insufficienti
I centri antiviolenza sono «il perno e il cuore del sistema antiviolenza» – si legge nella relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio della scorsa legislatura – eppure «le complesse procedure di allocazione delle risorse assegnate all’attuazione del Piano [strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne] e lacunosità dei meccanismi di rilevamento dei fabbisogni effettivi delle vittime, ha comportato una serie di criticità in fase applicativa, a partire dalla precarizzazione dei funzionamenti di molti Centri antiviolenza e Case rifugio».
I fondi programmati nel Piano nazionale di durata triennale, l’ultimo è il 2021 – 2023, vengono erogati annualmente alle Regioni, le quali sulla base della loro forma di governance, o gestiscono i fondi direttamente, o a loro volta li trasferiscono ad altre amministrazioni locali; in alcune Regioni si attuano entrambe le modalità. Sui fondi del 2017, solo 11 su 19 Regioni sono riuscite a utilizzare tutti i fondi entro il dicembre 2019, mentre per i fondi del 2018, 13 Regioni sono riuscite ad utilizzare tutti i fondi per dicembre 2020 – come si legge dalla relazione del Parlamento. Nello specifico per i fondi del 2018 la Sicilia non ha effettuato alcuna liquidazione, la Calabria ha liquidato solo il 20% e la Basilicata il 24% del totale delle risorse ripartite. Queste risorse non ripartite devono poi essere restituite al Dipartimento Pari Opportunità.
Un sistema farraginoso che rallenta il flusso contabile, infatti, la maggior parte delle Regioni, per i fondi del 2018, ha impiegato dai sei ai nove mesi per la ripartizione, ma per alcune i tempi sono andati oltre i nove mesi (Basilicata, Campania, Emilia-Romagna, Sicilia e Veneto). Sempre per i fondi 2018, ultimo anno per cui il monitoraggio si è concluso, soltanto la regione Valle d’Aosta ha destinato le risorse, oltre che per le strutture, anche per interventi relativi al sostegno abitativo, al supporto psicologico e alla formazione delle operatrici CAV e delle Case Rifugio.
Ci spiega sempre Chiara Bastianoni: «Per ciò che riguarda la consulenza psicologica, le risorse che abbiamo a disposizione non permettono di attivare all’interno del centro una psicoterapia, ma una presa in carico iniziale volta a un invio eventuale presso un altro servizio, spesso molto complesso perché tutti i servizi pubblici sono oberati e sottofinanziati». Per questo Lucha Y Siesta in questi anni ha dato vita al progetto di Psicoterapia sospesa, finanziato tramite un crowdfunding, per dare accesso a una terapia gratuitamente per almeno un anno. E spesso l’APS si è basata sul lavoro volontario per tutti quei “servizi aggiuntivi” – come interventi nelle scuole, formazione al corpo docente, sanitario, o alle forze dell’ordine, dibattiti, iniziative culturali, ricerche sulla violenza digitale di genere – necessari per promuovere interventi di prevenzione alla violenza di genere.
Un sistema che tende a favorire le organizzazioni più grandi
Questo sistema a più livelli, con bandi brevi al massimo ribasso e ritardi nei finanziamenti tende a favorire le organizzazioni più grandi, che hanno più capacità di cassa, una pluralità di progetti in più settori delle politiche sociali e che spesso non hanno un intervento specifico sulla violenza di genere.
Questo problema è stato già evidenziato dalla Commissione di inchiesta sui femminicidi: «solo la metà dei Centri gestiti da organizzazioni private no profit, infatti, risulta specializzata esclusivamente in violenza contro le donne (55,1%). Tra questi, vi sono in particolare i Centri storici, gestiti da associazioni legate al movimento delle donne per le quali l’approccio femminista e di genere nella risposta alla violenza è fondativo». Anzi il 30% di queste associazioni si occupa di violenza di genere solo dal 2014, cioè da quando esistono appositi fondi da destinare al finanziamento dei Centri antiviolenza e alle Case rifugio (art. 5bis D.L. 93/2013).
L’intesa Stato-Regioni rimane ambigua rispetto alla definizione dei requisiti minimi richiesti per accedere ai fondi antiviolenza, gli avvisi di bando nelle regioni spesso riducono il contrasto alla violenza di genere a un mero servizio alla persona, senza considerare il fenomeno come una questione sociale e culturale diffusa, che necessità di una risposta multidimensionale. Questo ha significato, ad esempio, in alcuni avvisi di bando sostituire l’operatrice antiviolenza – figura professionale formata e specializzata in violenza di genere – dalla figura dell’educatrice che lavora nelle politiche sociali. «Con dei bandi articolati in questo modo si cerca di neutralizzare i centri antiviolenza», commenta Chiara Franceschini.
I centri antiviolenza hanno una storia lunga che affonda le sue radici nel movimento femminista e nell’autorganizzazione dal basso, i centri che seguono “l’approccio femminista”, sono luoghi aperti e politici e, nel corso degli anni, hanno elaborato una metodologia di accoglienza basata sulla relazione tra donne. «Si lavora sull’autonomia delle donne non solo da un punto di vista materiale, ma anche relazionale, sociale e psicologico, quindi della loro capacità di autodeterminarsi, che passa anche per decisioni che non sempre sono concordate all’interno del percorso attivato con il Centro ma non per questo valgono meno» – ci spiega Chiara Bastianoni. Questo approccio è oggi riconosciuto anche dalla Convenzione di Istanbul, un percorso personalizzato, basato sulla fiducia e costruito insieme alla donna, con il rispetto delle sue decisioni e dei suoi tempi.
Bandi che prevedono affidamenti più lunghi, di minimo cinque anni, maggiori risorse, anche per le politiche di prevenzione e pieno riconoscimento dell’approccio femminista dei centri antiviolenza e delle case rifugio: questo dovrebbe essere al centro del piano nazionale contro la violenza di genere. Eppure il governo va in tutt’altra direzione.
Immagine di copertina di Lisa Capasso per Dinamopress