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ITALIA
“Dreamland”. La sfida di mille “sé” che migrano
Martedì 26 gennaio ci sarà la presentazione del libro curato da curata da A4C, Rosa Jijon e Francesco Martone. Un viaggio multidisciplinare e polifonico teso a mostrare come quello del “confine” sia uno spazio produttivo, un metodo epistemologico, ma anche una modalità di manifestarsi e riprodursi del capitale
Dreamland è una recente e importante pubblicazione della Manifestolibri curata da A4C, Rosa Jijon e Francesco Martone. Rosa Jijon è artista visuale e da anni si occupa di questioni migratorie e di cittadinanza. Francesco Martone, è un attivista impegnato su temi di giustizia ambientale e climatica, diritti umani e della natura. Insieme promuovono Artsforthecommons-A4C una piattaforma che intende offrire occasioni di scambio ed interlocutore tra artisti ed attivisti. Dreamland è il loro primo lavoro editoriale e si rivela al primo sguardo un tassello prezioso per comprendere e mettere ulteriormente in tensione la prospettiva da cui guardare oggi le migrazioni.
Migrazioni non più da intendersi come fenomeno transitorio ma come fatto umano strutturale, contraddittorio, politico. Dreamland si propone senza ambiguità come uno strumento immediatamente politico, che prende posizione e la compone attraverso testimonianze potenti ed eterogenee. Si tratta, allo stesso tempo, di un catalogo, di un volume composto «con la stessa cura di una curatela», con un approccio artistico, sensibile e carico di obiettivi che pone una domanda mai univoca e mai risolta su quale possa essere il ruolo dell’arte nelle battaglie politiche contemporanee per i diritti e la libertà.
Dreamland è in sintesi un volume che ci pone domande e ci stimola a ragionare a partire da un assunto che si inscrive nel filone di ricerca politica nota come “l’autonomia delle migrazioni” che vede in Sandro Mezzadra uno dei protagonisti. Il migrante è un soggetto attivo, singolare e collettivo allo stesso tempo.
Il confine è uno spazio produttivo, un metodo epistemologico ma anche una modalità di manifestarsi e riprodursi del capitale. L’invito che ci porgono gli autori/curatori si presenta però in una polifonia di linguaggi artistici, ma anche testuali, estremamente “situati”. L’invito fondamentale sembrerebbe essere, d’altronde, quello ad assumere definitivamente, un metodo in common, di condivisione delle prospettive di pensiero, ricerca e rappresentazione e della costruzione di spazi comuni, dei veri e propri “place of safety” per usare un linguaggio tristemente attuale.
Due filoni di ricerca, tra gli altri, sembrano tessere un paziente collegamento tra le opere d’arte che compongono il volume. Quella ispirata al lavoro di TJ Demos (The Migrant Image) e la mostra curata da Massimiliano Gioni “La Terra Inquieta”. In entrambi è centrale la riflessione sullo spazio e sull’esperienza che trasforma lo spazio stesso e la sua rappresentazione. E sia lo spazio che l’esperienza si rincorrono nelle opere di Dreamland e nelle linee di ricerca e di azione che li hanno stimolati, risuonando e divenendo talvolta complementari le une alle altre.
Ed è così che, ad esempio, Nation 25, il collettivo (artistico e curatoriale) che allude a un concetto spaziale di nazione da ri-costruire, propone nei suoi “sconfinamenti” il «corpo come metodo» in risposta alla proposta di Border as method di S. Mezzadra e B. Neilson (nella traduzione italiana Confini e Frontiere), che ci racconta di un corpo resistente o ancora, di un «corpo-corazza».
O ancora, “leggere” insieme Sahara Chronicle di Ursula Biemann e l’immenso lavoro di Heller e Pezzani (Forensic Oceanography) non può non scuoterci e stimolarci a forzare, noi stessi, il significato e l’utilizzo delle più avanzate tecnologie della comunicazione nella rappresentazione delle migrazioni, dalle origini e cause, sempre diverse e distribuite sull’intero pianeta, ognuna con la sua differente storia e sfumature di sfruttamento e oppressione alle spalle, all’azione in sé, quella così comune e così forte come l’agire la mobilità in prima persona contro divieti e confini, all’apparato strumentale e politico messo in campo per il controllo di quella mobilità: «Focalizzarsi sulla dimensione estetica del confine non significa, quindi, dimenticarsi delle pratiche materiali che definiscono, in maniera spesso brutale, il conflitto fra i dispositivi di controllo delle migrazioni e le reti di mobilità migrante. Al contrario vuol dire riconoscere come proprio quelle pratiche operino anch’esse attraverso una dimensione estetica che mette a frutto le logiche di visibilità e invisibilità» (Forensic Oceanography).
Sempre più ricorrente è, d’altronde, il tentativo dell’arte contemporanea di rintracciare nel passato e nell’immaginare nel presente forme e strumenti che non solo “rappresentino” la migrazione ma ne restituiscano la complessità definita dalla coesistenza di rottura e desiderio, di sofferenza e azione, di ribellione e potenziale di cambiamento.
Scrive Demos: «Trovare forme adatte a esprimere gli effetti devastanti (spaziali ed esperienziali) dello sradicamento; inventare archivi in grado di sprigionare le potenzialità latenti nella coscienza storica; scoprire nuovi mezzi per stringere legami sociali in contesti transnazionali».
Ma anche solo renderci consapevoli che i migranti non costituiscono necessariamente un altrove perché segregati ed esclusi spazialmente e socialmente, ma che come ci ricorda con una semplicità disarmante e necessaria Estefanía Peñafiel Loaiza «ils vont dans l’espace qu’embrasse ton regard» e sono parte, a tutti gli effetti, dello spazio e della prospettiva comune a tutti noi.
Ed è proprio perché molti artisti hanno accettato la sfida provando a essere di parte e a fornire strumenti di ricerca e stimoli per un immaginario comune di resistenza solidale, che sta di nuovo al pubblico, eterogeneo, caotico, di militanti, ricercatori, cittadini solidali, elettori bianchi, divenire attori protagonisti a fianco di chi lotta per la libertà di movimento, «mettendo in discussione le statiche categorie di soggettività» per costruire un corpo collettivo a partire dai mille “sé” che lo compongono, per liberare però non solo se stessi, ma compiere un salto più ambizioso che riguarda la rottura materiale e simbolica dei confini e una redistribuzione globale della ricchezza.
Qui l’evento relativo alla presentazione del 26 gennaio
Immagine di copertina di anjan58 da Flickr