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Donald Sutherland, l’attore ribelle

Un ricordo di Donald Sutherland, artista celebre per la sua versatilità sullo schermo e il suo impegno politico, dal sostegno alle Black Panthers, ai film contro le guerre e l’apartheid. Il suo lascito artistico e politico rimane una testimonianza del valore profondo dell’arte nel promuovere e ispirare il cambiamento attraverso il potere della narrazione e dell’azione

Da La strada di Fellini a Occupy Wall Street

Donald Sutherland, uno dei più versatili e prolifici attori del nostro tempo, è deceduto il 20 giugno scorso all’età di 88 anni, a Miami, in Florida.

Solo in questi giorni, una parte di pubblico è venuta a conoscenza del fatto che Sutherland, eccezion fatta per il riconoscimento alla carriera nel 2017, non abbia mai ricevuto una candidatura agli Oscar come migliore attore. Tuttavia, la prospettiva di come avrebbe esposto la statuetta d’oro dell’Academy sul caminetto del salotto è di poca importanza. Quel che resta indiscussa è la sua lunga carriera nell’arte drammatica, caratterizzata da una vasta gamma di generi, dai film di guerra ai thriller psicologici, dai drammi storici alla fantascienza. Le sue interpretazioni, caratterizzate da straordinaria versatilità e profondità emotiva, hanno lasciato un’impronta indelebile nel cinema, infondendo ai suoi personaggi una presenza magnetica e una complessità psicologica unica. Film iconici come Mash, Invasion of the Body Snatchers, Ordinary People, la saga Hunger Games, Quella sporca dozzina, Animal house, testimoniano la sua predilezione per personaggi spesso scomodi ma sempre memorabili.

Merita di essere ribadito che Donald Sutherland non sia stato esclusivamente un attore di straordinario talento, ma anche un attivista determinato, capace di utilizzare la propria visibilità per promuovere cause sociali e politiche. Da sempre sostenitore dell’antimilitarismo e della pace, critico del capitalismo neoliberista e promotore dell’impegno collettivo verso un cambiamento radicale, il suo significativo contributo politico si è concretizzato in azioni incisive e dichiarazioni di forte impatto.

In un’intervista del 2018, Sutherland ha menzionato due eventi specifici della sua giovinezza che hanno profondamente influenzato il proprio cammino come attore e attivista. Dopo aver saltato le lezioni di ingegneria, si ritrovò per caso in un cinema che proiettava La strada di Federico Fellini, un film che lo colpì profondamente, suscitandogli la domanda se fosse davvero possibile realizzare opere simili. Ancora in preda all’euforia, vide un altro film, Paths of Glory di Stanley Kubrick, un’opera che critica aspramente la guerra come istituzione disumana e mette in discussione il concetto di onore militare in contrasto con la realtà dei sacrifici e delle atrocità vissute dai soldati sul campo di battaglia. Uscendo dalla proiezione, Sutherland, come racconterà al “Guardian”,  prese delle pietre, dei frammenti di ghiaia e li lanciò per strada tanta era la rabbia che gli aveva suscitato la visione  di quel film. In seguito, attribuirà a questi episodi il merito di aver acceso in lui la passione politica e il sogno di diventare attore: le due fervide aspirazioni che avrebbero intrecciato il corso della sua vita.

Nella biografia di Sutherland, la lotta agli abusi di potere si è manifestata in diversi modi significativi. Uno dei più noti è il sostegno alle Black Panthers, il movimento fondato nel ’66 da Huey Newton e Bobby Seale in risposta alla brutalità e all’oppressione della polizia contro la comunità afroamericana di Oakland, in California e che ha rappresentato una componente radicale e militante del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti.

Negli anni ‘70 Sutherland è stato attivamente coinvolto nel movimento contro la guerra del Vietnam, distinguendosi soprattutto per la sua partecipazione al tour FTA (Free or Fuck The Army) insieme a Jane Fonda: un programma itinerante di spettacoli satirici che condannava la guerra e sosteneva i soldati contrari al conflitto. Il documentario che ne seguì catturava queste performance, mostrando come gli attori usassero la commedia e la musica per esprimere il proprio dissenso politico, e metteva in luce l’importanza delle mobilitazioni contro la guerra e il ruolo che gli artisti hanno avuto nel sensibilizzare l’opinione pubblica.

L’attività di Sutherland in questo campo rappresenta un esempio di come l’arte possa essere un potente strumento di protesta e di cambiamento sociale. La sua collaborazione con Jane Fonda, in particolare, ha contribuito ad aumentare il coinvolgimento e la consapevolezza tra militari e civili, dimostrando che la resistenza può essere alimentata anche attraverso la creatività e l’umorismo.

Successivamente, Sutherland ha partecipato gratuitamente alla realizzazione di Un’arida stagione bianca (A Dry White Season): un film anti-apartheid del 1989 diretto da Euzhan Palcy e basato sull’omonimo romanzo di André Brink. Quest’opera ha giocato un ruolo significativo nel sensibilizzare il pubblico internazionale sulla situazione in Sudafrica, rappresentando uno dei primi film hollywoodiani a trattare apertamente il tema dell’apartheid e contribuendo così ad aumentare la consapevolezza globale su questo argomento cruciale.

Da non dimenticare, inoltre, la partecipazione attiva dell’attore a Occupy Wall Street, il movimento che si prefiggeva il compito di denunciare gli abusi del capitalismo finanziario, le disuguaglianze economiche e sociali, il potere sproporzionato delle grandi corporazioni e la corruzione politica. Iniziato su impulso del gruppo attivista canadese Adbusters, il movimento guadagnò rapidamente slancio e visibilità diventando ispirazione per proteste simili nel resto del mondo.

Attila e l’archetipo del male

Nonostante la fama, le doti drammatiche e lo spessore politico di Sutherland siano legati a specifiche opere e apparizioni, il suo particolare apporto al mondo del cinema mi è stato chiaro ormai tardi, quando l’immagine dell’attore era vivida nella mia memoria nella figura di Attila Melanchini, il malvagio e violento leader fascista del film di Bernardo Bertolucci Novecento.

Quand’ero ragazzina mi colpì da principio l’immagine di copertina del VHS, rinvenuto nella videoteca di mio nonno. L’arte della copertina, con i volti che sembravano dipinti e il titolo in giallo su uno sfondo contrastante, accentuava l’epicità della pellicola. Il volto di Sutherland era al centro, illuminato da un chiaroscuro che lo rendeva quasi diafano, contrapposto alla rappresentazione di altri grandi attori come Gérard Depardieu, Robert De Niro, Stefania Sandrelli, Dominique Sanda, Sterling Hayden e Burt Lancaster, i cui profili erano in tinte più vivaci. Inoltre, nella parte inferiore della copertina dominava il dipinto del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo.

Ancora oggi, si può considerare il ruolo di Attila Melanchini una delle interpretazioni più intense e inquietanti di Sutherland, il quale, affiancato dalla straordinaria Laura Betti nel ruolo di Regina, ha dato vita a un giovane fattore che ascende rapidamente nella gerarchia fascista grazie alla sua spietatezza e all’incrollabile devozione al regime. La scalata al potere è scandita da una serie di atti brutali, tra cui la partecipazione attiva nella repressione delle proteste contadine e l’uso della violenza come strumento di controllo e intimidazione.

Attila non è semplicemente un antagonista, ma un archetipo della violenza e della repressione fascista. Con la sua figura imponente e il volto duro e spietato, incarna la disumanità di un regime determinato a schiacciare ogni forma di dissenso. Sin dalle sue prime apparizioni nel film, Attila si distingue per la sua ferocia e la totale mancanza di scrupoli, diventando protagonista di atti di violenza gratuiti e crudeli.

Sutherland si era immerso completamente in questo ruolo, trasformandosi in un emblema del male puro. Con uno sguardo gelido e un comportamento intimidatorio, era riuscito a incarnare la disumanità e la spietatezza del personaggio in modo straordinario: la sua interpretazione si caratterizza per una fisicità marcata e una voce che trasuda minaccia, rendendo ogni sua apparizione sullo schermo un momento di tensione palpabile e di pericolo imminente. Tale performance fece di Attila l’incarnazione del fascismo più spietato, che disprezza e schiaccia chiunque consideri debole o diverso, che idolatra la forza e il dominio. Osservando il personaggio appare chiara la manipolazione e la deformazione degli individui a opera di un’ideologia che spinge a compiere atti di estrema crudeltà e, allo stesso tempo, la presenza di Attila nella trama del film è fondamentale per comprendere le dinamiche di potere e di violenza che hanno caratterizzato l’Italia durante il Ventennio. La sua interazione con gli altri personaggi, in particolare con i protagonisti Alfredo (Robert De Niro) e Olmo (Gérard Depardieu), evidenzia le tensioni e i conflitti che hanno segnato la società italiana dell’epoca e la lotta tra oppressione e resistenza.

Il ritratto di Attila non solo ha esplorato le oscure profondità della natura umana, ma ha anche sensibilizzato il pubblico sulle devastanti conseguenze del fascismo. In generale, la maestria nell’interpretare personaggi negativi ha contribuito alla comprensione dei contesti sociali che hanno modellato eventi cruciali e distruttivi, i quali esigono una riflessione sulla persistenza del male e sulle sue nuove rappresentazioni e giustificazioni.

Rimane il fatto che la morte di Attila sia solo evocata: il nostro sguardo lo lascia in piedi, impettito e impenitente, come se il male non fosse un fenomeno statico o irremovibile, ma un campo di battaglia costante che oltrepassa le epoche e si rigenera.

La rivolta di Coriolanus Snow

Dopo l’impatto di Novecento, rimane impressa l’interpretazione dell’antagonista per eccellenza. Fino all’arrivo di Hunger Games, saga che esplora vari temi complessi e offre diverse interpretazioni morali. Tra queste, emerge chiaramente la denuncia della prevaricazione e del totalitarismo: attraverso le vicende della protagonista e dei vari “tributi” che si confrontano nell’arena per sopravvivere sotto il regime oppressivo del Presidente Snow, il film critica aspramente la concentrazione di potere e ricchezza nelle mani di pochi. Ancora una volta, Sutherland interpreta l’antagonista principale: il crudele Coriolanus Snow, supremo tiranno di Panem, un mondo distopico nato sulle rovine dell’America del Nord. Leader astuto e manipolatore, Snow esercita il suo dominio con fermezza e brutalità, mantenendo il potere attraverso la coercizione e la paura. La sua personalità è pervasa da una malevolenza calcolata, rappresentando l’archetipo del despota disposto a sacrificare la libertà e il benessere dei propri sudditi per preservare la sua autorità. Sutherland dà vita a una figura di straordinaria autorità e malvagità, conferendo a Snow una complessità che lo rende un antagonista indimenticabile.

Proprio come Attila, anche Coriolanus Snow voleva provocare lo spettatore, affinché riconoscesse il male e desiderasse combatterlo. Ed è lo stesso attore a dirci questo. In un’intervista di una decina d’anni fa, Sutherland invitava i “millennials” a risvegliarsi dal loro torpore, criticando l’eccessiva attenzione alla tecnologia e ai social media rispetto all’attivismo sociale. Auspicava una rivolta giovanile come quella del ’68 e, come Noam Chomsky e Angela Davis, si augurava che le nuove generazioni creassero un partito alternativo ai repubblicani e ai democratici. Inoltre, riconosceva il suo ruolo nella saga Hunger Games come un modo per provocare gli spettatori a riflettere criticamente sulla realtà politica e a mobilitarsi per un cambiamento radicale.

In un’epoca in cui il risorgere di ideologie fasciste si avverte chiaramente e gli Hunger Games fungono da potente metafora della realtà, Sutherland ha brillantemente impiegato il suo talento per stimolare il pubblico, mettendo in luce il male impercettibile con vivida concretezza e spingendo gli spettatori a desiderare di contrastarlo. Proprio per questo la vita e l’arte per Sutherland hanno intrattenuto un dialogo costante, arricchendosi reciprocamente e fungendo spesso da veicolo di riflessione critica, intendendo il cinema non come strumento di puro consumo, bensì come mezzo privilegiato per interrogare, decostruire e trasformare l’identità individuale e collettiva.

Tutte le foto sono frame dei film FTA, Novecento e Hunger games

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