MONDO

Il dissenso politico nell’India di Modi e lo spettro dei Delhi Riots

Quanto può costare essere attivisti politici nell’India contemporanea? Questo interrogativo è dirimente per comprendere cosa stia accadendo all’interno di quella che viene definita come «la più grande democrazia del mondo». Oggi, gli spazi in cui si esercitano forme di democrazia e dissenso sono sempre più residuali, data l’azione di repressione politica posta in atto negli ultimi anni

Lo spazio della democrazia rappresentativa è sempre più chiuso, dato l’uso discrezionale fatto dal Governo di Narendra Modi ed i nuovi regolamenti in vigore per lo svolgimento delle nuove sessioni parlamentari. Alla società civile indiana non resta altra alternativa, se non quella di tornare a popolare le piazze con contenuti propri e radicali. Ma per agire questi spazi c’è da far i conti con la repressione e con lo spettro dei Delhi Riots.

 

L’occasione dell’ incontro epocale fra Narendra Modi e Donald Trump è stato accolto dagli attivisti politici indiani come occasione per catalizzare le energie dei movimenti di Delhi.

 

Decine di concentramenti sono stati chiamati nella città di Delhi al fine di paralizzare i distretti del Nord-Est della città e far ascoltare all’intero mondo il grido “Reject CAA/NRC!”. Dall’altra parte della barricata la destra ultrahindu, protetta da migliaia di poliziotti, avvolta fra le saffron flags si raduna per una protesta pro CAA. In quest’occasione Kapil Mishra – esponente di spicco del BJP – pronuncia queste parole: «Un ultimatum di tre giorni alla polizia per ripulire le strade e dopo questo non provate a convincerci, noi non vi ascolteremo più».

Sono bastate queste parole ad aizzare le forze di polizia al soldo del Ministro Amit Shah ed i membri della destra ultrahindu alla caccia al musulmano, al suono dal leitmotiv “Jai shreem Ram”.

I quartieri a maggioranza musulmana di Jaffrabad, Chand Bagh e Ashok Nagar sono stati completamente divelti: negozi, pompe di benzina ed abitazioni sono state incendiate e poi rase al suolo. Shoaib Ahmad, negoziante musulmano, dichiarerà nei giorni seguenti «tutti i miei sogni sono stati distrutti fra le fiamme». Le moschee di Maulana Baksh, Chand, la Jamia Aarabia Madinatul Uloom ed il mazaar di Chand Bagh sono stati prima profanati con le saffron flags e poi incendiate.

Alla fine di queste giornate si sono registrati più di 200 feriti e 53 morti. I dati pubblicati dal Governo sono scioccanti: i musulmani costituiscono il 77% dei civili uccisi e l’85-95% delle proprietà danneggiate o distrutte apparteneva a musulmani. Più che dei riot, un pogrom in piena regola.

 

 

Lo spettro dei Delhi Riots

Insieme ai pogrom del 2002 in Gujarat, le giornate di Delhi costituiscono una macchia indelebile nella storia indiana. Quel che ne resta sono solo centinaia di migliaia di pagine negli archivi aperti su attivisti politici contro il CAA/NRC ed intellettuali dalla polizia di Delhi.

 

Sono 751 gli attivisti indagati secondo la legge anti terrorismo – con cui viene permesso l’arresto di presunti terroristi senza la formulazione di capi d’accusa in sede legale – da febbraio ad oggi ed oltre 1300 gli attivisti posti in stato d’arresto.

 

Fra i soggetti più colpiti troviamo attivisti delle Università Jamia Millia Islamia, Jawaharlal Nehru University, Delhi University e Aligarh Muslim University, femministe, attivisti per i diritti civili e membri dell’opposizione politica. Due casi in particolare hanno catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica: l’arresto di Safoora Zargar – detenuta incinta – e Kafeel Khan – incarcerato per aver pronunciato questo discorso.

Nella giornata dell’11 Settembre sono stati aggiunti al registro delle persone sospette e collegate ai casi di violenze dei Delhi Riots Sitaram Yerchury presidente del CPI(M), il regista Rahul Roy ed il documentarista Saba Dewan, laprofessoressa Jayati Ghosh, i professori universitari Apoorvanand ed il leader del movimento Swaraj Abhiyan Yogendra Yadav. Roy e Dewan hanno la colpa di essere all’interno del gruppo whatsapp “Delhi protests support group”, mentre il collegamento di Apoorvanand alle attività cospirative è dedotto dalla sua presenza in un gruppo whatsapp con studenti della JNU e delle femministe di Pinjra Tod.

 

L’ultimo ad aggiungersi alla lista nella giornata del 13 settembre è Umar Khalid militante politico di United Against Hate ed ex studente alla JNU. L’attivista, già noto agli uffici della polizia di Delhi per gli avvenimenti del 9 febbraio 2016 alla JNU, è accusato di cospirazione ed istigazione alla violenza, attività illegali, omicidio, istigazione all’omicidio ed oltre altri dieci capi d’accusa.

Le basi su cui si poggia l’accusa risalgono ad un suo discorso del 17 febbraio, in cui esorta le folle di musulmani ad invadere le piazze il 24 febbraio: «Promettiamo che quando Donald Trump verrà in India il 24 [febbraio], diremo che il Primo Ministro indiano ed il Governo stanno cercando di dividere il paese, distruggendo i valori del Mahatma Gandhi e che il popolo indiano sta combattendo contro il Governo. Manifesteremo per le strade. Lo volete?», o ancora le parole da lui pronunciate in quelle giornate di febbraio: «Non risponderemo alla violenza con la violenza. Non risponderemo all’odio con l’odio. Se loro diffondono odio, risponderemo loro con l’amore. Se ci picchieranno coi bastoni, terremo alto il tricolore».

Inoltre, fra i capi d’imputazione di Umar Khalid c’è una presunta assemblea avvenuta a Shaheen Bagh l’8 Gennaio 2020 in cui si sarebbe iniziato a metter mano ad un piano d’azione per la venuta di The Donald. Questo capo d’accusa dimostra come tutta l’operazione sia solamente un’operazione politica volta a eliminare dallo spazio pubblico le opposizioni, poiché la notizia della visita del Presidente USA è stata resa nota solo il 13 Gennaio dello stesso mese.  Khalid è stato interrogato dalla polizia di Delhi per 11 ore. Successivamente, è stato posto in arresto per 10 giorni, al fine di esaminare con la polizia di Delhi le circa 1 milione e 100 mila pagine di dossier sui Delhi Riots.

 

Allargando lo sguardo ci si rende conto come questa sia solo un’aggiunta momentanea di nemici all’interno del mosaico dei cospiratori contro il progetto per l’India messo in atto da Narendra Modi.

 

I numeri degli arresti come vediamo non sono una variabile fissa, dato che il primo ministro ha deciso di stringere le maglie al dissenso politico ogni qual volta sia a esso congeniale. Facendo una rapida rassegna dei volti noti del registro degli indagati si può notare come vengano pescati nel mucchio personaggi noti all’opinione pubblica o personalità più esposte dei centri di maggiore produzione d’opposizione politica alla nuova legge sulla cittadinanza approvata lo scorso Dicembre – CAA/NRC.

Lo spazio pubblico è governato con la forza, escludendo a priori qualsiasi possibilità di dissenso. Questo è successo il 5 agosto col lockdown del Kashmir contemporaneamente all’inaugurazione del tempio di Ayodhya, nei giorni scorsi con la repressione violenta dei contadini in sciopero ad Haryana – nell’Uttar Pradesh – e in ogni manifestazione politica esercitata attivamente dalle minoranze politiche.

Tutto questo avviene in uno dei momenti maggiormente critici per il subcontinente. Con i numeri di contagi e morti a causa del Covid-19 in perenne salita, le previsioni di crollo del PIL al -24.3%, i dati sui suicidi di studenti del 2020 (un suicidio ogni ora), le costanti alluvioni, i monsoni e l’invasione di locuste di fine maggio – la situazione è tutt’altro che florida.

Modi ha deciso di agire col pugno duro, forte della polarizzazione venutasi a creare in questi anni con lo spostamento dell’elettorato moderato dalle fila del Partito del Congresso a quelle del BJP, ingaggiando così un braccio di ferro con le opposizioni al fine di assicurarsi il monopolio dello spazio politico.

 

Immagine di copertina ed immagine nell’articolo: Banswalhemant campo profughi e negozio incendiato a Delhi. Licenza Creative Commons.