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Diritto e paradosso. Su “Diritto e violenza” di Christoph Menke
Diritto e violenza di Christoph Menke (Castelvecchi, 2022, 17 euro), curato da Francesco Mancuso e Giovanni Andreozzi e tradotto dallo stesso Andreozzi, propone in parallelo e sulla base della lettura del saggio sulla violenza di Walter Benjamin di considerare la violenza matrice originaria del diritto. La fuoriuscita dal diritto si può dare a partire dalla fuga dal diritto verso potenziali spazi liberati.
Il 20 maggio del 1934 Werner Kraft, critico, saggista e conoscente di lunga data di Walter Benjamin, annotava alcune righe dopo un incontro avvenuto a Parigi. Benjamin, scrive Kraft nel suo diario, aveva negato di sostenere ancora le posizioni del suo saggio del 1921, Per la critica della violenza. Passato a una forma assai eccentrica di marxismo, Benjamin secondo Kraft riteneva «giustificata la violenza che non ha alcun carattere di sanzione, che non vi aggiunge nulla, asimbolica». Spiegava che «è concesso uccidere se lo si fa come si uccide un bue». E, aggiungeva Kraft, ricordando le parole di Benjamin, che «nelle bande hitleriane, nei loro eccessi sadici si mostra un sovrappiù di violenza, una sorta di fede che, quanto più si immerge il coltello nella carne, tanto più si dimostra la giustezza della causa».
Tra le righe del suo resoconto appare poi un’espressione che avrebbe fatto orrore al Benjamin di Per la critica della violenza: “giusto diritto”. «Giusto diritto (gerechtes Recht)», avrebbe detto Benjamin, «è ciò che serve agli oppressi nella lotta di classe». Un’autentica contraddizione per il Benjamin del 1921, che costruisce la sua dicotomia sull’inconciliabilità tra la sfera giuridica e quella della giustizia (mai universale, destinata a situazioni non-ripetibili, mai ‘posta’, e senza “sovrappiù”).
Affrontato da scritti memorabili di Derrida e Butler, Agamben e Bojanic, magari all’insegna di un possibile, poi reale e mai trasparente dialogo con Carl Schmitt, a cent’anni e passa dalla pubblicazione Per la critica della violenza resta una delle cruces insolubili del pensatore berlinese: come intendere quella Gewalt, polisemica e intraducibile causa che incide «nei rapporti etici»? Christoph Menke, che a Francoforte insegna e dalla sua ‘Scuola’ ha tratto il meglio, ne ha negli anni proposto una lettura feconda, che non si arresta allo spietato nulla che costella le pagine finali del saggio (la violenza è giusta solo se distruttiva, vernichtend).
Per la ricchezza e la messe di proposte sottese alla sua lettura, è cosa buona e giusta che con Diritto e violenza(Castelvecchi, 2022, 17 euro), curato da Francesco Mancuso e Giovanni Andreozzi e tradotto dallo stesso Andreozzi, Menke inauguri la collana Ombre del diritto diretta da Mancuso (che vede in queste settimane una seconda pubblicazione intelligente: Pensare il nemico, Jean-Claude Monod su Carl Schmitt).
Ad aprire il volume è un’intensa prefazione di Mancuso (al libro, e all’intera collana). L’obiettivo è presto detto: «si tratta di attivare una relazione “iperdialettica” tra diritto, diritti e violenza, tra integrazione ed esclusione, tra ordine e conflitto, tra fiducia e sospetto, tra norma ed eccezione» (p. 9). Proprio alla ricerca di una ritrovata dialettica teorica e filosofica del diritto con ciò che gli si oppone e pure lo fonda si muove tutta la collana. Sin dal nome scelto, l’intenzione è quella di mettere a rischio e scuotere le narrazioni che vogliono le sorti del diritto sempre magnifiche e progressive, altrettante letture della buona notte per i giorni di vittoria del dominio liberale, con scarsa attenzione a quello che è invece un punto decisivo dell’interpretazione di Menke: il ‘non diritto’.
Oltre al saggio dell’intellettuale tedesco, il cui originale è del 2011, nel volume appare una postfazione d’autore (Com’è possibile in generale una critica del diritto?) e un’utile ricapitolazione e discussione, per mano di Andreozzi, dell’itinerario complesso di un autore in dialogo da decenni con i classici del pensiero (filosofico-politico) e della letteratura, e con gli intellettuali tedeschi più raffinati (ma Andreozzi entra anche nel dibattito internazionale scatenato da Diritto e violenza, discutendo a fondo alcune letture).
Diritto e violenza è libro di straordinaria intelligenza e complessità. È un eccellente reading di quel «che di marcio nel diritto» di cui parla Benjamin nel suo saggio sulla violenza. Si può suggerire che indaghi il paradosso del diritto come Emilio Garroni quasi quarant’anni fa indagò il paradosso del senso a partire dall’istanza trascendentale e sempre immanente della critica (in Senso e paradosso). Per dire che dal senso, dal suo paradosso, non si esce, sia esso consenso, dissenso, controsenso, nonsense – che è estetica con l’anestetica. Menke va in questa stessa direzione, brandendo una nozione di critica quanto mai feconda per non arrestarsi al dato elementare messo in luce da Benjamin – che il diritto è violenza, cosa arcinota –, ma prospettandone il futuro anteriore.
Se il piano di Menke è lucido e scintillante nei suoi esempi – c’è Benjamin, e quella teoria della tragedia come agone giuridico sviluppata nel libro sul dramma barocco, che tanto deve a Florens Christian Rang, ma ci sono Eschilo e Hegel, Kelsen con Adorno e i Grimm –, se lo si può seguire fino in fondo nel tentativo di insegnare il diritto come materia filosofica, è salutare il ritorno argomentativo alla vita sociale del diritto, per il tramite degli esempi letterari. È qui che si rende conto del paradosso dell’estrema prossimità della norma a chiunque come abitudine e regolarità (siamo abitudinari, non ci giudicate, siete come noi – così il poeta), e dell’estrema distanza ogni volta che si guardi al diritto sul piano dei suoi vettori sociologicamente intesi (il giurista, il notaio, l’avvocato – altrettanti nemici sociali di chiunque non sia parte del ceto che il diritto lo pratica e lo afferma). Vettori che, afferma Menke (p. 76), sostengono «il diritto del diritto di imporsi contro il non diritto». Alla percezione del non-diritto da parte di chi il diritto lo studia e lo dice, si affianca e si contrappone dunque quella che Max Weber chiama, nel suo saggio su e contro Rudolf Stammler del 1907, «l’idea ipotetica di una crescita “graduale” di “rappresentazioni di norme” […]: anche il cane, infatti, “ha un senso del dovere”».
Ma se questa – quella del giurisperito e del suo cane – è la dicotomia inevitabile alla percezione sociale della norma giuridica, dei suoi titolari e ricettori, della sua forza d’imposizione, molto più perturbante è la conclusione che ne trae Menke: se l’ideologia del diritto impone che il diritto realizzi anche il diritto di ciò che diritto non è (ossia la violenza, ciò che si fa stando fuori finché possibile dal diritto ma venendone sempre ricatturati), Menke, correndo dalla tragedia greca (Edipo) fino alla Brocca rotta di Kleist, acutamente, ferocemente riletta – propone ciò che chiama “autoriflessione del diritto”: un diritto che sa che il diritto del non-diritto si realizza solo attraverso la sua lesione.
Tutto il diritto, secondo Menke, deve essere attraversato da questa consapevolezza, senza sprofondare in quella che Mancuso in prefazione chiama «malìa per l’antigiuridismo» (p. 12). Conoscere il paradosso non solo serve solo a criticare l’ideologia del diritto, ma a ‘destituire’ il diritto. Destituire: nel senso autentico inteso da Benjamin con l’Entsetzung, termine già messo in rilievo da Agamben ai tempi di Stato d’eccezione, e qui inteso non tanto come ‘deposizione’ ma, come sottolinea Andreozzi nel suo saggio finale, come processo che spezza «la costrizione della sua applicazione» (p. 126). Il che implica la ‘politicizzazione’ della sua applicazione violenta.
Ma se la pars destruens di Menke è chiara, se l’obiettivo è accantonare la mitologia giuridica liberale di una rimozione (già fatta o a tendere) di ogni violenza grazie al diritto, puntellare la pars construens è impresa ardua. Sin dalla domanda (tragica – il riferimento sono le Eumenidi eschilee, come dominio di un diritto ‘cratico’ – e poi benjaminiana) sulla giustizia puntiforme, una giustizia che non sia vendetta: “la domanda che la vendetta pone e che lascia senza risposta è: c’è un’azione della giustizia che non si perpetui all’infinito e che, dunque, non sia violenza?» (p. 24).
Correttamente Menke si situa, seguendo il dramma di Kleist, alla fonte della questione posta nel moderno: ovvero la nascita di un diritto soggettivo come possibilità di tirarsi fuori, di non partecipare giocoforza all’ordine totale. Attraverso la Brocca rotta e poi Il principe di Homburg, Menke pone il problema del destino di chi sarà “incapace di diritto” eppure ancora dentro la comunità: come può configurarsi questa vita «senza autonomia giuridica ma nella libertà» (p. 69)? Non ha senso intenderlo nella forma del diritto soggettivo (nel “lavoro fine a sé stesso”), come fa storicamente il jus publicum moderno, affermando il dualismo tra società e Stato. Non è, non può essere questo il punto di Menke, che riconosce «l’impulso liberatorio del liberalismo» (71), ma, seguendo una lettura luminosa di Weber, ne coglie la trasformazione in mera protezione giuridica della libertà contrattuale, ovvero ancora sfruttamento di chi questa libertà non ce l’ha.
Fuoriuscendo dalla teoria dei diritti soggettivi moderni, Menke propone di riprendere l’explicit del saggio di Benjamin diversamente: la politicità del diritto come governo (schalten und walten) della violenza conduce a un’unità, una totalità del diritto, un’aderenza alla realtà che la pervade e la assume tutta. Non esiste altra realtà che non sia il diritto che si autocritica, potrebbe suggerirsi. Ma questa, semplicemente, è un’ipotesi che non “ha diritto”, perché il diritto è sempre ‘esteriorità’. La vera ipotesi costruttiva è quella, ancora kantiana e poi marxiana che il diritto non sia altro che critica («per Marx, la vera critica è genealogia», p. 97). Il problema è come rendere la critica, ovvero una domanda sulla «produzione e funzionamento di una determinata forma espositiva» (p. 99), un’operazione che non sia solo intellettuale, che non sia solo la “lettura” di cui parla Menke (p. 100). Essendo ‘esteriorità’ (ovvero realtà e non solo tecnica sociale – è «pratiche, atteggiamenti e soggettività», p. 103) il diritto è sia la soluzione sia il problema. È normativo e fattuale: «lotta contro sé stesso» (p. 105). La risposta di Menke non è nella risoluzione del paradosso, né nel suo autodafé liberale. È nella decisione di riconoscerlo: e di padroneggiarlo ‘giocandolo’.
Eppure la Beherrschung giocosa della ‘tecnica’ di cui parlava Benjamin in Strada a senso unico (cui Menke rinvia) era ancora una volta politica. Implicava una relazione a suo modo violenta con il resto. E quel momento drammatico cui rinvia anche lo Heiner Müller più brechtiano, un altro dei numi tutelari del percorso ostico di Menke, nella sua Wolokolamsker Chaussee: soldati russi che disertano di fronte all’avanzata nazista, il comandante che deve punire i traditori per tenere unita la truppa sovietica, ma soprattutto il diritto. E la domanda “ne abbiamo diritto?” (di fucilare i disertori secondo la legge marziale) che in Müller viene a esalarsi come l’utopia realistica di una «grazia» possibile quale esito altrettanto giuridico: non uccidere, l’«altra forma di sovranità, assente nella teoria di Schmitt» (p. 82, nota 53).
Ecco, è proprio in questi richiami a una politica del diritto che non sia solo sospensione ‘riproduttiva’ di diritto e di sovranità che può intravedersi una forma di autoriflessione non soltanto intellettuale – che non si esaurisca, in letture, indagini, in critica della critica. Ma che vada invece a «liberare le forze non giuridiche della “dispersione”, ossia dimenticanza, rifiuto e incapacità» (p. 79), trasformando, contrariamente a certo liberalismo – il «modo in cui il diritto giudica» (p. 74). Che sfugga cioè alla coazione a ripetere dell’autoincriminazione: all’istanza ad autocondannarsi propria dell’istituzione della democrazia in occidente, che in Grecia sorge con Edipo e che l’Eva della Brocca rotta ripudia: «Io non posso rivelare, qui, chi ha rotto la brocca». O come fa ancora l’eterno Shylock: «Io non vi rispondo, e vi dirò che così mi garba». L’Eva di Kleist e lo Shylock di Shakespeare vanno a dirlo in tribunale, in faccia agli ufficiali del diritto, ai giuristi e agli avvocati – perché con la violenza del diniego intendano.
Nel promuovere la fuga di ciò che è esterno al diritto in uno spazio altro dal diritto, nel dire un non-diritto eppure potente (Gewalt sive potentia) fuori dal diritto, per Menke si dà l’inizio della «guerra all’interno del diritto», per un diritto «depotenziato e liberato» (p. 85), liberato anche dalla sua pretesa di totalità, e dall’istanza sempre giuridica di ogni critica. Questa lotta, questo conflitto, è forse il senso del paradosso giuridico. L’unico modo per intendere quell’ossimoro che un giorno Benjamin, forse, ha chiamato “giusto diritto”.