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CULT
Dire il vero di sé è disfarsi del mondo
Ai poli opposti della sua parabola intellettuale, nell’introduzione a “Sogno ed esistenza” di Ludwig Binswanger del 1954 recentemente ripubblicato da SE, e nel ciclo di conferenze del 1982 “Dir vero su se stessi“ appena uscito per Orthotes emerge ancora una volta come sia il discorso del soggetto la linea di forza che ha da sempre percorso il “campo Foucault”
Bisogna rovesciare le prospettive familiari
Michel Foucault, Introduzione a Sogno ed esistenza di Binswanger
– Avremo libertà di parola?
– Sì, avrete liberà di parola
Michel Foucault, Dir vero su se stessi
Gran parte del pensiero di Foucault è riconducibile a un’intensa opera di scavo archeologico e di ricostruzione genealogica delle tecnologie della soggettività, alla constatazione che la soggettività è indissociabile dai dispositivi di sapere e potere che si estendono dalle istituzioni al rapporto di sé con se stessi. Da questa prospettiva – e il filosofo francese non si stanca di ripeterlo –, le sue ricognizioni dentro le sfere delle scienze dell’uomo, della follia, della clinica, delle prigioni e della sessualità sono accomunate dalla ricerca dei meccanismi di retroazione bidirezionale tra processi di soggettivazione e dispositivi sociali delegati ad amministrare la relazione tra individuo e mondo. Due pubblicazioni, una posta all’inizio e l’altra alla fine della parabola di pensiero di Foucault, quando accostate da imprevedibili eventi editoriali, confermano che il discorso del soggetto è una linea di forza, se non addirittura la linea di forza che percorre sagittalmente il “campo Foucault”. Stiamo parlando dell’Introduzione (I) – scritta nel 1954 – a Sogno ed esistenza (SeE) di Ludwig Binswanger, volume recentemente reso di nuovo disponibile da SE, e di Dir vero su se stessi (DVSSS), ciclo di conferenze e seminari tenuto da Foucault all’Università Victoria di Toronto dal 31 maggio al 26 giugno 1982, la cui edizione italiana, curata da Filippo Domenicali, è apparsa per i tipi di Orthotes nel novembre dello scorso anno.
Ciò che lega l’enfasi foucaultiana sulla rilevanza dell’analisi antropologica del sogno in Binswanger e la ricerca intorno alla cultura del sé, che ossessiona l’intellettuale francese negli ultimi anni della sua vita e che lo spinge a leggere tutta una serie di testi di gran lunga antecedenti al periodo che, in precedenza, è stato al centro dei suoi interessi, risiede nella dicotomia verità/realtà, che mai ha raggiunto il grado di incandescenza che caratterizza le conferenze canadesi del 1982. Conferenze che, tra l’altro, contribuiscono ad aprire la strada a quello che potremmo chiamare il superamento non-dialettico di questa dicotomia: la riflessione sulla parresia che costituisce il tema centrale dei corsi del 1982/1983 e del 1984 al Collège de France. In questi anni, al netto delle differenti declinazioni che il tema assume nei vari scritti e interventi del periodo (brillantemente riassunti nell’introduzione e nella postfazione a Dir vero su se stessi), “dire la verità su se stessi” diventa il cuore pulsante della riflessione foucaultiana, un cuore che, come tutti i muscoli cardiaci, si espande nel coraggio di dire la verità del/al potere e si contrae nelle pieghe delle varie forme di controllo pastorale.
Per Foucault, la soggettivizzazione in Occidente è indissolubilmente stretta nel nodo tra conoscenza di sé e cura di sé, pur nella variabile preminenza che questi due aspetti assumono nelle varie epoche, come è il caso delle due che affronta in Dir vero su se stessi: quella greco-romana del I e II secolo e, meno estesamente, nonostante le intenzioni iniziali, quella del cristianesimo primitivo del IV e V secolo. L’Alcibiade di Platone è il punto di partenza delle conferenze e dei seminari di Toronto. In questo dialogo Foucault rintraccia una prima modalità attraverso cui si produce la soggettività: la cura di sé ha lo scopo di educare i giovani aristocratici a un corretto governo della polis e può essere messa in atto solo per mezzo della conoscenza di sé ottenuta grazie alla rammemorazione di ciò che già da sempre è presente nell’anima. Tenendo questa visione sullo sfondo, Foucault mostra le trasformazioni della tecnologia del sé in età imperiale, quando la cura di sé va a occupare il ruolo centrale che in precedenza era riservato alla conoscenza di sé. In questo periodo storico la cura di sé è un vero e proprio addestramento atletico che, sviluppandosi «in un’interferenza costante con tutto un campo di molteplici relazioni sociali» (DVSSS, p. 53), deve accompagnare l’individuo dalla giovinezza alla vecchiaia fino a configurarsi come «forma di vita» (p. 49); forma di vita che permetta di farsi trovare sempre preparati alle vicissitudini dell’esistenza. In questa fase, «la cultura di sé» non è quindi sinonimo di «acquisire una formazione, bensì di sbarazzarsi di tutta la cattiva formazione che si è ricevuta in precedenza, di tutte le cattive abitudini, derivate dalla folla, dai cattivi maestri, ma anche dalla famiglia, dall’entourage, dai parenti» (p. 74). Si viene così a delineare un’ascesi – da intendersi come «una tecnica regolata e costosa di trasformazione di sé» (p. 103) – che è un costante «disapprendere» (p. 75), un lavoro di disfacimento del mondo per «armare il soggetto di una verità che non conosceva, e che non risiedeva in lui», facendo «di questa verità appresa, memorizzata, progressivamente messa in atto, un quasi-soggetto» (p. 85), che trasforma il «soggetto nel suo modo di essere» (p. 105). Questo dirsi della verità del soggetto, questa ascesi truth-oriented (p. 95) ed ethopoietica (p. 105), verrà poi sostituita da quella reality-oriented e metanoietica (p. 105) del cristianesimo primitivo. «L’ascesi cristiana, infatti, «è un “rito di passaggio” da una realtà all’altra, dalla morte alla vita» (p. 95), in cui ciò che conta è il «cambiamento nello statuto dell’anima» (p. 104). Anche l’ascesi cristiana consiste, dunque, in un disfacimento del mondo, ma con tutt’altro vettore di senso rispetto a quello dell’ascesi greco-romana.
Foucault, insomma, delinea tre “momenti” in cui differenti modalità di soggettività si susseguono in parallelo ai cambiamenti sociali – che, però, nelle conferenze di Toronto sono solo rapidamente accennati. Il primo e l’ultimo “momento” sono, tuttavia, in qualche modo assimilabili in quanto entrambi prevedono l’esistenza di un sé reale e immediato che va semplicemente scoperto e portato alla luce – poco importa se tramite reminescenza (in Platone) o tramite decifrazione (nel cristianesimo). Questa forma di soggettivazione fondata su un presunto sé reale ha dominato per lungo tempo e regola tuttora il rapporto di noi con noi stessi: dalla confessione alla psicoanalisi, dal cogito cartesiano a certe espressioni della fenomenologia, dalla psichiatria forense ai reality show, si tratta sempre di un dire di sé che deve svelare un sé nascosto – o che si nasconde –, ma che è già lì pienamente preformato. La seconda forma di soggettivazione, invece, pensa e pratica un soggetto che non smette mai di soggettivizzarsi, ponendoci davanti agli occhi i processi performativi (sociali, tecnici, politici, culturali, economici…) che fanno il soggetto: «Non c’è soltanto uno sfondo storico, ma una struttura storica della nostra soggettività» (p. 137). Che, poi, è un modo per riassumere l’intero insegnamento di Foucault e di molt* altr* filosof* e attivist* contemporane*: «Quello che crediamo di vedere così chiaramente in noi stessi, e con grande trasparenza, di fatto ci è dato attraverso tecniche di decifrazione laboriosamente costruite attraverso la storia». Il soggetto è mediato o, in altri termini, situato e incarnato.
È noto come l’ultimo Foucault sia impegnato a riattivare un’etica e una politica che attingano da una cura di sé orientata alla verità. Per questa ragione – e, forse, un po’ ingenerosamente – uno dei bersagli polemici dei due testi in esame è, come spesso accade in Foucault, la psicanalisi freudiana: la Traumdeutung (l’interpretazione dei sogni) potrebbe, infatti, essere letta come una trasposizione psicologica del principio metafisico socratico: dal far dire all’anima la realtà del sé al far dire all’inconscio la realtà dell’Io. Per questo Freud – perché, come ebbe a dire lo stesso Foucault in Storia della follia bisogna «essere giusti con Freud» e di Freud, oggi lo sappiamo, ce n’è più d’uno –, la decifrazione della dimensione «semantica» del vissuto onirico è il modo per restituire il “malato” alla pienezza biografica. Per Binswanger e per il Foucault del 1954, il sogno è invece la scena «morfologica e sintattica» (I, p. 22) che rilancia la verità del proprio farsi soggetto. «Il punto essenziale del sogno non è tanto ciò che esso resuscita del passato, quanto ciò che annuncia dell’avvenire»; «il sogno è già questo avvenire che si fa», «la scossa ancora segreta di un’esistenza che rientra in possesso di se stessa nell’insieme del suo divenire» (p. 59). Il sogno è pre/visione che annuncia la liberazione dalla biografia, che così si emancipa in storia del mondo. «Il soggetto del sogno non è tanto il personaggio che dice “io”», ma «il sogno stesso»: «nel sogno, tutto dice “io”, anche gli oggetti e le bestie, anche lo spazio vuoto, anche le cose lontane e strane, che ne popolano la fantasmagoria. […] Il sogno è il mondo all’alba della sua prima esplosione, quando esso è ancora l’esistenza stessa e non è ancora l’universo dell’oggettività» (p. 60).
Non a caso, allora, in Dir vero su se stessi Foucault accenna all’onirocritica di Artemidoro, andando a chiudere un cerchio che aveva aperto quasi 30 anni prima. Se per Foucault l’aspetto centrale di Sogno ed esistenza è la problematizzazione del sogno che da mera esperienza individuale diventa processo di trasformazione del sé preso in una relazione epifanica con il mondo, lo stesso vale per Artemidoro: la sua interpretazione si concentra sulla dimensione relazionale e politica del sogno. «Artemidoro non dà mai, o quasi mai, […] ai sogni, un’interpretazione sessuale», mentre presenta «decine e decine di sogni sessuali a cui dà sempre un’interpretazione sociale, professionale, economica» (DVSSS, p. 229). Per Artemidoro e per la sua epoca «la verità del comportamento sessuale è una verità sociale. Per noi è esattamente l’opposto: la verità, la realtà profonda, nascosta nelle nostre relazioni sociali, è la sessualità» (p. 229). Ancora una volta, la questione della verità rivela tutta la sua inadeguatezza se affrontata esclusivamente con gli strumenti diagnostici dell’individualizzazione biografica. Piuttosto che cercare la realtà nascosta nei sogni bisognerebbe prendere seriamente in considerazione l’aspetto esperienziale di incertezza e di imprevedibilità che il sogno rende evidente («Sognare significa: non so cosa mi succede né come mi succede», SeE, p. 121), trasformando la realtà della vita individuale nella verità dell’esistere-con. «Il senso della vita è sempre qualcosa di sovra-soggettivo» e di «impersonale» (p. 104).
Per concludere, torniamo alla parresia, che «è al contempo una libertà e un obbligo» (DVSSS, p. 189), «non è solo libertà o l’obbligo di dire qualcosa, ma è anche la libertà e l’obbligo di dire la verità» (p. 190). In breve, la parresia è non tanto libertà di dire ciò che si pensa, quanto piuttosto obbligo di dire la libertà. Le considerazioni di Foucault sul diritto/dovere di dire la verità implicano, quindi, una dimensione etica e politica che oggi le democrazie neoliberali sembrano avere completamente dimenticato a favore delle “realtà” scoperte dalle scienze. Quando una “verità” scientifica si sostituisce completamente a una verità politica, invece di contribuire a costituirla, significa che non si è più in grado di com/promettersi nel «gioco pericoloso del dir vero in campo politico ed etico» (p. 190), vuol dire che si è deciso di limitarsi ad amministrare lo stato di cose esistente, come in questo momento di crisi sanitaria mondiale è più chiaro che mai. «Una verità scientifica», infatti, «non ha bisogno di essere veicolata dalla parresia», mentre «in molti casi importanti la verità etica e politica [ne] ha bisogno» (DVSSS, p. 190). E il gioco governamentale della verità, ci dice ancora Foucault, si è ulteriormente atrofizzato andando a inibire proprio quegli interrogativi che non hanno mai smesso di rilanciare il pensiero foucaultiano in generale e il suo insegnamento a Toronto in particolare: «Perché vogliamo conoscere la verità? Perché preferiamo la verità all’errore? Perché siamo obbligati a dire la verità? Qual è la natura di questo obbligo?». E, soprattutto, chi può «dire la verità a proposito della verità stessa» (p. 113)? Come rispettare il patto parresiastico che deve governare qualsiasi «nozione di governo» (p. 199), i rapporti tra governanti e governati? Questione non da poco se «governare se stessi, governare gli altri, governare la condotta di qualcuno, governare il mondo, governare l’umanità, […] costituisce un campo continuo» (p. 199).
Se in Foucault, come giustamente sottolinea Deleuze, la soggettivazione è un processo che prevede l’irruzione del Fuori e se il sogno è il Fuori che fa l’esistenza, la rivoluzione è la verità che, fuori dalle mura di ciò che di volta in volta prende il nome di polis, dice il vero di sé per disfarsi del mondo e in tal modo cominciare a sognarne-pre/vederne un altro. Ecco il motto di ogni rivoluzione: «Rinunciare a questa realtà attraverso l’acquisizione della verità e la costituzione di sé come soggetto che conosce la verità» (p. 97). Per questo, «la rivoluzione non è consistita solo in movimenti sociali o in movimenti politici. L’attrazione della rivoluzione sulle persone è legata al fatto che, per la cura di se stessi, per il loro stesso statuto, per il loro stesso cambiamento, per la askesis, la rivoluzione è stata qualcosa di veramente importante» (p. 238). Per questo è necessario smarcarsi da due movimenti apparentemente opposti ma ugualmente reazionari: «accettare la situazione presente perché è meglio della precedente» (p. 232) e opporre «l’orribile situazione presente a un paradiso perduto» (p. 233). E sempre per questo, continua Foucault, «dopo aver studiato il problema storico della soggettività attraverso il problema della follia, del crimine, del sesso, vorrei studiare il problema della soggettività rivoluzionaria» (p. 97). Non dimenticandosi, però, di aggiungere che «il combattimento politico non deve attendere la soluzione della questione filosofica» (p. 238). Oppure, con le parole del 1954, «ogni immaginazione, per essere autentica, deve riapprendere a sognare» (I, p. 83).