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ITALIA

Dignità sottochiave. Una testimonianza dal CPR – seconda parte

Prosegue il racconto di L. all’interno del CPR. Lì, il tempo diventa un’arma sottile di logoramento, un vuoto senza orizzonte in cui la vita quotidiana è scandita da privazioni, regole arbitrarie e senso di abbandono

Dopo aver concluso la sua pena, a causa della mancanza di posti disponibili nel centro di Ponte Galeria, a Roma, L. viene trasferito in un CPR nel sud Italia. Qui trascorre quattordici giorni.

«Appena arrivato, mi hanno detto che presto ci sarebbe stata un’udienza per valutare la mia situazione», racconta, «ma poi, dopo appena 48 ore, mi hanno convalidato il fermo e preparato un biglietto aereo per il Togo». È un momento di profonda ansia: «Non avevo mai viaggiato, non ero mai stato all’estero… – dove mi mandavano? – mi chiedevo».

Un ambiente ostile e oppressivo

Le condizioni nel centro sono dure. L’isolamento sociale è l’elemento che pesa di più. «Non potevo vedere né mia madre né mia sorella, neanche la mia ragazza», continua. Perfino l’ora d’aria è una concessione limitata. «Potevi uscire solo se accettavi di giocare a calcio, e non sempre: erano le guardie a scegliere chi poteva partecipare, e chi restava in cella spesso non vedeva la luce del giorno». Le condizioni, racconta L., finiscono per logorare chi non ha modo di uscire. «Alcune persone stavano lì per giorni senza poter prendere aria. Li vedevo sfiniti, a pezzi».

L’esperienza nel CPR lascia in lui una sensazione di sradicamento, un distacco che va oltre la detenzione stessa. «Mi sono sentito privato di ogni connessione con la mia vita fuori, con il mondo che conosco», conclude. «E pensare che, per quanto difficile sia stato il mio passato di reclusione, qui il sistema sembrava volermi punire all’infinito»

L. racconta di come, al suo arrivo nel CPR, gli abbiano offerto farmaci che però ha rifiutato. «Mi dicevano che sarebbero serviti per stare tranquillo, ma io non li ho presi. In seguito ho cominciato ad avere dolori allo stomaco per il cibo che ci davano: pasti preconfezionati, cose immangiabili, riso scotto con sugo crudo.» Abituato a cucinare – L. è chef e ha completato corsi di alta cucina – soffre in modo particolare la qualità del cibo e la mancanza di attività fisica. «Nel carcere di Viterbo, almeno potevo cucinare, fare la spesa interna, preparare qualcosa con mezzi di fortuna», ricorda. «Nel CPR, non esisteva nemmeno il diritto di cucinare. Chiedevo se ci fosse la possibilità di avere una dieta più bilanciata o almeno degli integratori, ma la risposta era sempre la stessa: “prendi la terapia”».

Le condizioni igieniche e ambientali risultano quasi insostenibili, con celle sovraffollate e prive di ogni elemento di vivibilità. «Eravamo sei in una stanza angusta, con letti rigidi come marmo e un unico telefono condiviso per contattare le famiglie, dato che i nostri cellulari erano stati sequestrati». L. descrive un contesto in cui la privacy e la dignità sembravano inesistenti: «Eri scortato ovunque, persino per andare in infermeria, circondato da un gruppo di sette-otto agenti tra polizia, carabinieri e finanzieri».

Connessioni fragili, storie intrecciate

Durante quei giorni di detenzione, L. ha modo di ascoltare le storie drammatiche di chi condivideva la sua stessa condizione: prigionia, persecuzioni, traversate in mare disperate. «Ascoltare quei racconti mi ha fatto riflettere profondamente», confida. «Ho compreso che la situazione che viviamo qui è difficile, ma le loro esperienze sono di una durezza estrema».

All’interno del CPR, incontra Sherif, un giovane togolese con un passato di sacrifici. «Sherif mi raccontava della sua vita in Africa. Lavorava come autotrasportatore tra il Togo e il Burkina Faso, portando prodotti per l’industria», spiega L. «Cercava un cambiamento nella sua vita e decide di partire per l’Italia». Il viaggio, però, si è rivelato pieno di umiliazioni. «Mi ha raccontato di come, in Italia venisse trattato come un criminale. Gli hanno spezzato i denti, è stato maltrattato e umiliato».

Queste esperienze lasciano il segno, e il contesto del CPR inasprisce la situazione.

Nonostante tutto, L. ricorda alcuni episodi di umanità. «C’era un inserviente che spesso si fermava la sera per farmi ascoltare un po’ di musica dal suo telefono», dice. «Erano momenti preziosi, perché in quel contesto bastava poco per sentirsi di nuovo un essere umano». Tuttavia, questi incontri positivi sono rari. Con alcuni carabinieri, invece, il clima era completamente diverso. «Ridevano, scherzavano tra loro, a volte prendevano in giro gli altri detenuti», racconta. «Un giorno, uno di loro si è messo a ridere perché mi ha sentito parlare italiano. «Senti come parla questo, è pure italiano», rideva. A quel punto ho perso la pazienza e gli ho risposto che ero più italiano di lui. Mi hanno preso in giro, ma poi hanno iniziato a trattarmi in modo più rispettoso. Tuttavia, vedevo che quello stesso rispetto spariva appena si rivolgevano ad altri».

L. osserva come molte persone fossero trattenute solo per problemi burocratici. «Uno era rimasto lì due mesi perché non riusciva a farsi inviare i documenti dalla madre». La mancanza di contatti e la totale assenza di prospettive rendevano l’attesa insostenibile. «In carcere, per quanto difficile, potevi lavorare sulla buona condotta, avere contatti con la famiglia. Qui, senza documenti, ti tolgono anche quello»

Aggiunge che la situazione nel centro è talmente esasperante che alcuni prigionieri danno fuoco ai secchi dell’immondizia per attirare l’attenzione. «Vogliono farsi sentire, cercano di ottenere un’ora d’aria, un contatto con la famiglia, anche solo di vedere qualcuno. Posso capire perché lo facciano» – ammette. A quel punto, L. racconta delle proteste alle quali ha assistito durante la detenzione. «Erano piccoli incendi, atti di protesta», spiega. «La maggior parte delle volte le forze dell’ordine aspettavano che le fiamme si esaurissero, poi arrivavano in tenuta antisommossa e intimavano alle persone di rientrare». Le proteste avvenivano spesso davanti alle inferiate, con materassi e altri oggetti dati alle fiamme. «Tutto quel fumo rimaneva bloccato, ristagnava lì», continua. «Le guardie spegnevano le fiamme e se qualcuno continuava a protestare, lo pestavano con i manganelli, spesso usando guanti rinforzati». L. aggiunge che, in situazioni di forte stress, alcuni detenuti arrivavano a gesti di autolesionismo per attirare l’attenzione. «Vedevo persone che si tagliavano le braccia o lo stomaco davanti alle grate», spiega. «Facevano di tutto per farsi sentire, e quando si rendevano conto di non essere ascoltati, le loro reazioni diventavano ancora più forti».

Parlando della gestione delle persone vulnerabili, L. scuote la testa con aria rassegnata. «Alcune persone passavano le giornate a letto, malate o fisicamente fragili», racconta. «Venivano chiamate in infermeria di tanto in tanto, ma non vedevo una cura reale. Ricordo un ragazzo con una caviglia gonfia e viola: ha dovuto aspettare giorni prima di essere portato in ospedale. Nel frattempo, lo accompagnavano ogni sera in infermeria, dove gli facevano un massaggio e applicavano una crema, per poi riportarlo in cella».

Quanto all’uso di farmaci tra i detenuti, L. non sembra avere dubbi. «Sì, lo notavi dal loro comportamento,» afferma deciso. «Sembravano distaccati dalla realtà, come se vivessero in un automatismo. Si alzavano solo per prendere il cibo quando veniva distribuito, quasi rispondessero a un richiamo addestrato. Ritiravano il pasto e tornavano immediatamente a letto».

Carcere e CPR: controllare e punire

Ripercorrendo la sua esperienza, L. evidenzia le analogie tra il carcere di Viterbo e il CPR, entrambe caratterizzate da un approccio che privilegia la punizione rispetto al reinserimento o alla tutela dei diritti delle persone trattenute. «In carcere», ricorda, «le persone vengono spesso collocate senza alcun criterio, e anche di fronte a evidenti incompatibilità, le segnalazioni vengono ignorate, con conseguenze potenzialmente molto pericolose». Questa mancanza di logica e trasparenza si amplifica nei CPR, dove, a differenza della prigione, non si conoscono né le ragioni precise della detenzione né cosa aspettarsi dal futuro. «In prigione, per quanto dura, sai perché sei lì. Sai a cosa andrai incontro. Ma nei CPR c’è solo terrore. Non sai perché ti portano lì né cosa aspettarti».

Rievoca poi l’assurdità di alcune situazioni vissute. «Quando mi portarono al CPR, un poliziotto mi disse: “Tranquillo, starai solo 2-3 giorni e ti daranno pure 20 euro al giorno”. Risposi che avevo un lavoro a tempo indeterminato e guadagnavo molto di più. Ma una volta arrivato, parlando con gli agenti del posto, scoprii che quella cifra era pura fantasia. Mi dissero che il pocket money era di appena 2,50 euro al giorno».

Quella somma esigua bastava a malapena per coprire necessità basilari. «Con quei 2,50 euro potevi comprare solo un po’ di bagnoschiuma, del tabacco o qualche sigaretta», spiega.

L. parla di una realtà che sembra quasi surreale, fatta di restrizioni inutili e regole rigide. «Qui sei ridotto a niente. La tua dignità viene calpestata ogni giorno. E poi c’è questo senso di incertezza continua: in prigione sai quando finirà la tua pena, qui no. Il tempo sembra allungarsi all’infinito, senza logica, senza spiegazioni»

Nel CPR, anche i gesti più semplici venivano ostacolati. «Un giorno chiesi una penna per scrivere, perché mi piace annotare i miei pensieri. Mi fu rifiutata: “Potrebbe essere usata come arma”, mi dissero. È stato allora che ho realizzato fino a che punto ti spogliano di tutto, persino della possibilità di esprimerti attraverso la scrittura».

Parlando della sua uscita dal CPR, L. mostra gratitudine ma anche incredulità per il modo in cui le cose si sono risolte. «Sono riuscito a uscire grazie a un’avvocata del posto. Il mio avvocato non aveva accesso al CPR, così mi è stata assegnata lei. Si è battuta con determinazione, sostenendo che non potevo continuare a restare lì. La mia liberazione non è stata automatica: è stata una conquista che lei ha ottenuto con grande fatica».

L. si esprime con fermezza su ciò che vorrebbe che le persone sapessero riguardo ai CPR. «Vorrei che si conoscesse la realtà di questi luoghi, senza le narrazioni edulcorate che spesso si sentono. Non è vero che chi è trattenuto lì riceve un trattamento umano, né che i famosi soldi destinati ai detenuti siano adeguati. Si tratta di sopravvivenza, di resistere alla privazione, e nulla più».

La sua riflessione si allarga poi al bisogno di controllo e catalogazione che sembra permeare l’intero meccanismo detentivo. «Abbiamo questa arroganza di etichettare, di controllare ogni cosa. Ma nei CPR non resta niente. Quando esci, sei svuotato, carico di una paura che non si dissolve. Ti sembra che chiunque possa farti del male, senza ragione». Questa paura, confessa, non lo ha mai abbandonato. «Ogni volta che vedo una pattuglia, mi sento sopraffatto dall’ansia. Penso al fatto che ho un’espulsione in atto e non so cosa potrebbe accadere. Per questo evito di uscire da solo e cerco sempre di essere accompagnato dalla mia ragazza o da qualcuno che mi conosce: così mi sento più al sicuro». L’allenamento fisico è diventato il suo rifugio, una forma di autodifesa contro il senso di vulnerabilità che lo segue costantemente. «La mia esperienza in comunità, in carcere e nel CPR mi ha insegnato una cosa: devi essere sempre pronto. È come se mi avessero imposto questa necessità di prepararmi a non subire, a non farmi mettere i piedi in testa».

L. riflette con lucidità sul peso della sua esperienza. «Quello che ho vissuto mi ha fatto sentire estraneo, fuori posto, come se non appartenessi a nessun luogo. È una sensazione che non ti abbandona, ti segue ovunque». Prosegue, guardando al futuro: «Vorrei che questi luoghi venissero chiusi. Non hanno motivo di esistere. Non avere un permesso di soggiorno non è un crimine, eppure veniamo trattati come fossimo criminali. È una punizione ingiusta, una privazione della dignità che non risolve nulla»

Parlando poi del sistema carcerario, amplia la riflessione alla sua esperienza nelle prigioni ufficiali. «Le carceri non hanno un vero scopo riabilitativo. Non offrono reali opportunità di riscatto. Dovrebbero essere un luogo in cui puoi imparare, migliorarti, ricostruirti. Invece, troppo spesso, ti lasciano peggio di come sei entrato».

L. conclude con un messaggio chiaro. «È fondamentale che le persone sappiano cosa accade nei CPR. Non possiamo ignorarli o accettare che vadano bene così. Conoscere questa realtà è il primo passo per evitare che la dignità di una persona continui a essere oggetto di negoziazione».

Immagine di copertina di Shamballah da Openverse

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