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ITALIA
Dignità sottochiave. Una testimonianza dal CPR – prima parte
Tra ostacoli, detenzioni e un sistema inflessibile, un ragazzo partito dal Togo a soli cinque mesi, si ritrova minacciato di rimpatrio e intrappolato in un CPR, simbolo delle contraddizioni delle politiche migratorie italiane
Parlare dei centri di permanenza per il rimpatrio (CPR) non è solo necessario: è un atto di doverosa denuncia. Rivelarne il vero volto, oggi più che mai, diventa urgente, a fronte di una situazione che rischia di degenerare ulteriormente.
Ancora una volta, l’Italia sceglie la strada del “pugno duro”, della paura travestita da sicurezza, imboccando una deriva securitaria che punisce i più vulnerabili. A incarnare questa deriva è il Ddl sicurezza, recentemente approvato dalla Camera dei Deputati, che introduce misure destinate a intensificare la repressione del dissenso e a compromettere i diritti fondamentali.
In questo contesto, i CPR emergono come il punto più critico di un sistema già al collasso. Concepiti come strutture di transito per chi attende l’espulsione, si rivelano invece luoghi di privazione e disumanizzazione, denunciati da più parti per le condizioni degradanti e le continue violazioni dei diritti umani. L’esempio dell’estensione del reato di rivolta all’interno di un istituto penitenziario anche ai CPR, consolida l’equiparazione di queste due strutture, che appaiono quindi rispondere a una stessa matrice, quella di un regime punitivo, con pene sproporzionate che colpiscono anche chi osa manifestare pacificamente. Ancora una volta, si sceglie di criminalizzare chi si oppone e chi è più fragile, negando il diritto di reclamare dignità, protraendo l’umiliazione.
Ma non basta descrivere. È fondamentale ascoltare chi ha vissuto queste politiche sulla propria pelle, chi ha sperimentato cosa significhi essere privati di tutto. Per questo, a seguire, riportiamo la testimonianza di un ragazzo che ha trascorso un periodo in un CPR. Il suo racconto, intenso e diretto, illumina con forza le implicazioni concrete di queste politiche e ci ricorda l’urgenza di un cambiamento radicale che metta al centro la tutela della dignità di ogni persona.
Dove tutto ha inizio
Ci incontriamo in un locale tranquillo. L. è qui per raccontare la sua storia, deciso a rivelare ciò che ha vissuto durante la sua permanenza nel Centro di permanenza per il rimpatrio. Non cerca compassione, ma vuole offrire uno spaccato autentico delle sfide e delle contraddizioni di un sistema che giudica non solo gli errori di una persona, ma anche le percezioni che altri hanno costruito attorno alla sua identità.
L. siede dritto davanti a me, con un sorriso disteso e una calma composta. «Voglio che la gente sappia cosa succede realmente» – ha detto mentre mi guardava con attenzione. «Non solo ciò che si legge nei documenti ufficiali, ma cosa significa vivere, davvero vivere, in un CPR».
L. inizia a raccontare, ricordando la sua infanzia trascorsa in un piccolo paese del Lazio. «Non è stato facile crescere qui», confessa. Da neonato, arriva in Italia dal Togo e cresce senza la figura paterna; unico ragazzo di origine africana in una comunità dove la sua diversità era evidente. «Da bambino non pensavo a cosa significasse essere diverso» spiega. «Ma crescendo, ho compreso quanto pesasse lo sguardo degli altri e quanto fosse diverso da quello che vedevo io. Allora non c’erano molti stranieri nel mio paesino».
L. racconta di aver realizzato pienamente la sua identità di ragazzo figlio di immigrati intorno ai sette anni, quando ha iniziato la scuola primaria. «È a quell’età che i bambini cominciano a far emergere le differenze, ad abbracciare inconsapevolmente stereotipi» osserva. «Da piccoli, non percepiamo il concetto di diversità; è qualcosa che si impara, non che nasce con noi»
A scuola, le sue differenze non passavano inosservate e alcuni compagni lo facevano sentire escluso. Ricorda i momenti in cui i bambini prendevano in giro sua madre, lanciandole etichette offensive quando veniva a prenderlo a scuola. «Questo mi ha ferito molto– ammette – ma, allo stesso tempo, mi ha fatto sviluppare un senso di unicità, una consapevolezza particolare di me stesso».
Quando passa a raccontare il suo percorso verso la detenzione, il tono si fa più cupo e la sua voce assume un’ombra di ironia. «Avevo solo quattordici anni quando i guai sono iniziati – racconta– La prima accusa, un’estorsione, mi è caduta addosso come un fulmine a ciel sereno. Da lì in poi, è stato un susseguirsi di denunce e processi.» L. non nega le sue colpe, ma pone l’accento sulla rigidità del sistema giudiziario. «I giudici leggono i fascicoli, non vedono le persone» afferma amaramente. «Nel mio fascicolo, ci sono accuse per reati che non ho mai commesso, ma quando si accumulano, nessuno si ferma a distinguere».
La sua storia, dunque, lo ha portato in un CPR, tra errori ammessi e colpe mai dimostrate. «Il problema è che il mio profilo non racconta chi sono realmente», afferma. «Ogni giudizio, ogni decisione è stata influenzata da un’immagine distorta di me». L. parla con una calma determinata, palpabile. Vuole essere chiaro nel trasmettere le contraddizioni di un sistema che lo ha giudicato in base a un profilo costruito su documenti accumulati nel tempo, non su esperienze reali. «Da una parte – spiega – posso anche comprendere perché la mia situazione potrebbe sembrare compromessa. Ma, sinceramente, credo ci sia stato anche un certo pregiudizio nei miei confronti».
Tocca poi un aspetto complesso delle politiche migratorie: la sua identità di persona cresciuta in Italia, senza legami reali con il Togo, suo paese di nascita. «Non sono mai stato veramente in Africa», dice. «Sono nato lì, sì, ma sono arrivato in Italia a cinque mesi. Non parlo la lingua del Togo, non conosco quella realtà. Mia madre è venuta qui per un ricongiungimento familiare, con mia sorella che aveva sei anni e con me nato da poco. Questo in parte mi fa sentire anche un po’ in colpa perché tanti miei coetanei parlano la lingua del loro paese o hanno un legame conoscitivo più intenso, mentre io sono cresciuto totalmente calato nella cultura italiana. A casa, mia mamma mi parlava ogni tanto nella nostra lingua, motivo per il quale posso capire giusto qualche parola, ma non sono in grado di parlarla né di comprenderla veramente».
La complessa realtà del Togo
La frustrazione di L. non deriva solo dall’essere percepito come un outsider nel paese in cui è cresciuto, ma anche dalla situazione economica che affligge il Togo. «Nel nostro paese, il Togo, fortunatamente non c’è la guerra, ma non è una vita semplice», spiega. «È inaccettabile che nel 2024 un paese come il Togo sia ancora costretto a utilizzare una moneta imposta dalla Francia. È come se qualcuno venisse a casa vostra e decidesse il valore dei vostri soldi, rendendo impossibile vivere dignitosamente». Il Togo è infatti segnato da una situazione politica e socio-economica complessa che spinge molti cittadini a cercare opportunità altrove. Governato a lungo con metodi autoritari, il paese registra un basso punteggio nell’indice di democrazia mondiale, evidenziando una mancanza di libertà civili e di diritti politici. Questo contesto politico restrittivo si riflette su una popolazione che, oltre a dover affrontare la repressione dei diritti, vive in condizioni di povertà diffuse, in gran parte dovute alla dipendenza dall’agricoltura e alla scarsità di opportunità lavorative. A complicare ulteriormente il quadro si aggiungono le sfide ambientali: inondazioni e siccità, sempre più frequenti, devastano le coltivazioni locali, lasciando molte famiglie senza mezzi di sussistenza. Per questi motivi, lasciare il Togo diventa una scelta quasi obbligata per chi cerca una vita più stabile e sicura, lontano dalle instabilità che caratterizzano il paese.
L. ricorda un episodio emblematico della sua esperienza. «Un giorno, volevo partire per l’Inghilterra, prima della Brexit, quando sembrava tutto più accessibile», racconta. «Molti amici si trasferivano lì, e anch’io sognavo nuove opportunità, magari un nuovo inizio.» Tuttavia, il piano si è infranto. «Alla dogana, mi hanno lasciato passare senza problemi, ma poco prima di salire sull’aereo, mi hanno bloccato, spiegandomi che con il passaporto togolese avrei avuto bisogno di un visto lavorativo, che costava 1100 sterline. Non potevo permettermelo in quel momento».
Non c’è dramma nelle sue parole, solo la disillusione di un sogno infranto. L. vuole far luce sulle difficoltà concrete di chi vive in una condizione di doppia estraneità: un cittadino straniero nato in un paese che non conosce, eppure costretto a portarne ancora addosso le conseguenze. È una storia di radici intrecciate, di desideri semplici che incontrano barriere inaspettate.
L. prosegue, tornando al capitolo dei reati e delle accuse che hanno segnato la sua adolescenza. «So che non sono tenuto a raccontare tutto, ma per me questa è una sorta di rivalsa», spiega. «Non ho nulla da nascondere: quello che ho fatto, lo ammetto, lo pago, ma non possono attribuirmi cose che non ho commesso. Ho pagato per i miei errori, persino per quelli che non erano miei».
Dalla comunità al carcere. Un vortice senza fine
Racconta di come, già a 14 anni, fosse stato coinvolto in un sistema che non lasciava spazio a sfumature. «Sono stato in comunità, poi anche nel carcere di Viterbo», ricorda. Più volte gli avvocati gli avevano consigliato di patteggiare su alcune accuse, ma lui ha sempre rifiutato: «Perché avrei dovuto dichiararmi colpevole per cose che non avevo fatto?».
Le difficoltà continuano: una serie di arresti, accuse di detenzione di stupefacenti e denunce, tra cui una per ingiuria avanzata dai genitori di una sua compagna in occasione di una semplice discussione fra ragazzini pre-adolescenti. «Mi sono trovato in un vortice», ammette. «Era come se tutto quello che facevo fosse giudicato attraverso un filtro distorto». Racconta di come, persino nelle sue amicizie, si trovava emarginato. «Frequentavo un amico, andavo a casa sua, giocavamo insieme. Ma un giorno -avevo quattordici anni – i genitori mi presero da parte e mi dissero che, vista la mia reputazione, preferivano che non frequentassi più la loro casa. È stato doloroso, perché sapevo di non aver fatto nulla di male».
A 15 anni, un altro episodio segnò la sua vita: un arresto per spaccio. «A quel punto sono finito in comunità», racconta. «Ci rimasi per cinque mesi e venti giorni».
L’esperienza in comunità lo segna profondamente. «È stata una scuola del crimine», sbotta ed esplode in una risata. «Questi ambienti o ti schiacciano o ti formano. È un periodo in cui si forgia il carattere: o impari a non farti calpestare, o sei costretto a difenderti continuamente». Racconta di come cercasse di mantenersi in disparte, ma di non essersi mai tirato indietro quando veniva affrontato
Prima di entrare in comunità, frequentava una scuola alberghiera, da cui era stato espulso. «Mi avevano sospeso perché un giorno un mio compagno di classe autistico era stato preso di mira da alcuni bulli», racconta « e siccome il professore non aveva fatto nulla, ho reagito e l’ho insultato. Alla fine, sono stato sospeso per 50 giorni e poi espulso definitivamente».
Nonostante tutto, L. non ha mai rinunciato allo studio. «In comunità mi sono portato i libri e ho studiato da autodidatta», ricorda. «Non era facile, ma ho avuto la fortuna di partecipare a un corso di cucina finanziato dalla regione. Era un’opportunità per me».
Il corso si conclude con successo, ottenendo un punteggio di 97 su 100. «È stato un momento importante», asserisce. «Dopo l’espulsione dalla scuola, il corso mi ha dato una seconda possibilità. Da lì, ho iniziato a lavorare».
L. racconta anche la condanna per tentata rapina, un altro capitolo già archiviato e scontato. «Anche questo l’ho pagato. Ho passato lunghi mesi in carcere oltre ai cinque mesi e venti giorni in comunità. Insomma, avevo scontato tutto. Da quel momento ho cercato di fare il bravo, di starmene per conto mio».
Ma nel 2019, un altro incidente cambia il corso della sua vita. «Avevo iniziato a frequentare una persona che avrei dovuto capire subito non essere affidabile. Un giorno mi accompagna a Cassino; nel portabagagli aveva della marijuana, non proprio cime, ma rimasugli: rametti, semi, insomma scarti. Non ero al corrente di cosa ci fosse nel bagagliaio. A un certo punto, veniamo fermati. Io ero tranquillo, non sapevo cosa ci fosse nel bagagliaio. Ma avevo precedenti, così come il ragazzo che era con noi in macchina. Risultato: finiscono per arrestarmi e, tra domiciliari e altre misure, passo in carcere un altro anno». È durante questo periodo che le conseguenze dei suoi precedenti iniziano a farsi sentire in un modo nuovo e imprevisto. «Una volta entrato dentro, il sistema ha iniziato a setacciare i casi di pregiudicati per avviare procedimenti di rimpatrio, senza fare distinzioni sui tipi di reati commessi.» L. è quindi stato soggetto alle procedure di espulsione, che puntano ad accelerare il rimpatrio di cittadini stranieri con precedenti, soprattutto di coloro considerati una minaccia per la sicurezza. «Alcuni stati hanno accordi con l’Europa per i rimpatri, per cui le persone con origini da quello stato vengono trasferite rapidamente. Ma per il Togo, non esistendo tali accordi. Dunque non ero immediatamente rimpatriabile.»
Il finale inaspettato e il trasferimento al CPR
La situazione si complica ulteriormente quando, durante la sua permanenza in carcere, riceve un avviso relativo al permesso di soggiorno. «Alla fine della pena, mi consegnano un documento: entro 14 giorni, mi sarei dovuto presentare in questura. Non mi spiegano molto, ma al mio arrivo in questura mi chiudono la porta alle spalle e mi comunicano che ero in stato di fermo, con un provvedimento di rimpatrio imminente».
L. descrive il senso di smarrimento e di frustrazione. «Mi hanno detto che sarei stato rimpatriato, ma era insensato. Io sono cresciuto in Italia, la mia vita è qui. Ho cercato di spiegare la situazione, di far capire che non aveva senso allontanarmi da quello che è a tutti gli effetti il mio paese». Di fronte alle sue spiegazioni, gli agenti sembrano comprendere, ma gli comunicano che, nell’attesa, sarebbe stato trasferito in un CPR
Conclude questo capitolo con un tono fermo, ma anche carico di amarezza. Per L., non si tratta solo di una questione legale, ma di una battaglia per riconoscere una vita costruita in Italia, un paese che sente come suo, nonostante gli ostacoli e le incomprensioni di un sistema così rigido e inflessibile. Dopo aver scontato un lungo periodo di detenzione, L. si trova intrappolato in una burocrazia che rischia di mandarlo in un paese che non conosce, lontano dall’Italia, che sente come la sua vera casa.
«Nessuno dovrebbe essere sradicato dal luogo in cui è cresciuto per essere inviato in un posto dove non ha legami reali». La vicenda di L. mostra i limiti di un sistema che, invece di facilitare il reinserimento, classifica e isola. Finito poi in un CPR, ci racconta un’altra storia, un’altra prigione.
L’immagine di copertina è di Robert Crow
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