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Dieci anni dopo Marikana, la strage di minatori in sciopero in Sudafrica

Si trattò del caso più grave di violenza contro civili della polizia sudafricana dalla fine dell’apartheid nel 1994. Dieci anni dopo, una mostra sfida l’amnesia del passato e contribuisce alla memoria di quei tragici avvenimenti

Il 16 agosto del 2012 la polizia sudafricana SAPS apriva il fuoco su di un gruppo di minatori durante uno sciopero presso la Lonmin, una miniera di platino, a Marikana, Rustenburg, provincia nord-occidentale del Sud Africa. 34 uomini sono stati ammazzati dalla polizia. Rappresenta il caso più grave di violenza contro civili della polizia sudafricana dalla fine dell’apartheid nel 1994. Spesso viene paragonato al massacro di Sharpeville del marzo del 1960, quando la polizia sparò sui dimostranti riuniti per l’abolizione della legge sui passaporti che impediva ai neri di muoversi, se non attraverso la presentazione di passaporti, all’interno del loro stesso paese. Allora ci furono 69 morti e più di 180 feriti. Tra le vittime circa 50 donne e bambini.

Il massacro di Marikana ha rappresentato il tragico epilogo di una settimana di violenti scontri tra la polizia-SAPS, la sicurezza di Lonmin, i rappresentanti dell’Unione nazionale dei lavoratori minerari (NUM) da una parte, e i lavoratori in sciopero dall’altra.

I lavoratori esigevano uno stipendio degno. Secondo una intervista all’epoca, un perforatore di roccia guadagnava R4.000 al mese, (nel 2012 il cambio era circa 1:10). Ne volevano R12.500. Si tratta di uomini che lavorano con un trapano da 25 kg che vibra senza sosta nelle mani per otto ore a turno, a temperature di 40-45 gradi, in zone anguste, umide e poco ventilate. In caso di incidenti sono le prime vittime, se gli va bene perdono le dita, se no la vita. Western Deep, lavoro di Steve McQueen girato nel 2002, ne mostra le condizioni di lavoro. Mentre questi sono i salari dei minatori, Neal Froneman, amministratore di Sibanye-Stillwater, multinazionale mineraria di metalli preziosi che nel 2019 ha rilevato la miniera di Marikana, nell’anno finanziario 2021-22 ha dichiarato un pacchetto retributivo di 300 milioni di rand.

La richiesta era altissima e l’ambigua mediazione da parte del sindacato NUM, membro del grande e potente ombrello COSSATU, non ha facilitato, anzi. Gli stessi leader del sindacato furono ritenuti responsabili dell’uccisione di due minatori in protesta l’11 agosto. Per alcuni quello è stato l’inizio del crescere della tensione. La posizione assunta dall’allora direttore non esecutivo di Lonmin e vicepresidente dell’African National Congress ANC (ora presidente del paese) Cyril Ramaphosa, ha reso Marikana lo specchio del mantenersi della brutale diseguaglianza del Sudafrica. Il presidente, infatti, invece che facilitare l’incontro con i lavoratori aveva sostenuto l’intervento della polizia difendendo i propri interessi finanziari, come la commissione Farlam ha provato.

A dieci anni dal massacro, come spesso avviene in questi casi, ancora molte sono le domande che non trovano risposta.

Mentre il sindaco del comune in cui si trova la miniera, Cllr Matlakala Nondzaba, ha visitato il Marikana koppie per valutare il luogo in cui costruire il sito commemorativo dei minatori morti nel 2012, le famiglie, rappresentate dal Socio Economic Right Institute SERI presso la Marikana Commission of Inquiry (Farlam), non sono soddisfatte dei risultati del report finale presentato a giugno del 2015. Se 35 famiglie hanno ottenuto un risarcimento di circa 70 milioni di Rand, un gruppo di oltre 300 minatori sta ancora aspettando un risarcimento di 1 miliardo di Rand.

L’esecutivo, in particolare l’allora ministro della polizia Nathi Mthetwa e Susan Shabangu, all’epoca ministro delle risorse minerarie, sono stati assolti da ogni responsabilità, mentre sono state date indicazione affinché venga indagato il mancato rispetto da parte di Lonmin dei suoi piani sociali e lavorativi. Malgrado Marikana, i lavoratori della Platinum Belt nel nord-ovest continuano ad essere oggetto di sfruttamento, privazioni materiale, e strozzinaggio. In questo contesto, non esiste alcuna presa in carico del trauma emozionale e materiale delle famiglie e, secondo una ricerca condotta dal Human Sciences Research Council, la consapevolezza della tragedia è relativamente bassa tra il pubblico sudafricano. Il 16% ne ha sentito parlare, il 41% mostra una conoscenza limitata, il 40% non ne sa nulla.

Il capo fotografo di “Mail & Guardian” Paul Botes, e il giornalista freelance Niren Tolsi documentano dal 2012 le conseguenze del massacro sulle famiglie e le comunità colpite nel loro progetto di giornalismo lento, (slow journalism), come la situazione richiede, After Marikana, the ten-year.

Hanno inizialmente raccolto le testimonianze delle vedove, madri, sorelle, figlie, le donne di Marikana, in  The blame game: A Marikana special report pubblicato da “Mail&Guardian” nel 2017. Lo scorso mese, presso il National Art Festival di Grahamstown, è stata presentata la mostra Marikana, Ten Years On: What We Lost in the Shooting. La mostra riunisce una serie di disegni frutto dei laboratori di arte-terapia tenutosi con le famiglie, foto di Botes, e testi del progetto giornalistico. Il tutto incorniciato da una esposizione multimediale di prove forensi della Commissione Farlan.

Nell’accogliere il trauma personale di queste persone si vuole sfidare «l’amnesia collettiva del passato, mentre si confronta con un presente autoritario e in decomposizione». Si tratta di un viaggio intergenerazionale che analizza come il massacro di Marikana abbia toccato non solo le vite delle vittime, prima di tutto le famiglie, ma anche la politica di un paese la cui democrazia, già di per sé labile, sembra sempre più in crisi.

Un paese che negli ultimi due anni ha visto normative COVID marcate dalla corruzione dei governanti e la brutalità della polizia; l’insurrezione di luglio a seguito dell’incarcerazione dell’ex presidente Zuma; la tragedia di Life Esidimeni in cui 144 persone sono morte in strutture psichiatriche e in cui si vive in uno stato di regolari blackout. Tutti risultati di un governo disfunzionale e una politica di violenza.

E’ un invito a pensare, ad esempio, a come la mancata riforma della polizia in Sud Africa continui a portare alla morte persone innocenti durante le proteste, o a quali siano i valori di chi (non solo la persona ma un partito imbevuto di significati storici e simbolici) governa il paese: «Se ha potuto fare questo ai nostri padri, alle nostre madri e a noi, allora cosa sta facendo al nostro paese?» –  si chiede la figlia di una delle vittime in un dibattito promosso dal progetto.

Descritta dai suoi curatori come «un’esperienza coinvolgente che richiede al pubblico di chiedersi cosa hanno perso loro, i loro cari e il Sud Africa post-apartheid nell’ultimo decennio», la mostra verrà ripresa in Svezia a settembre al Gothenburg Bookfair, dove verrà presentato il libro che racconta l’intero progetto.

Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su Il Manifesto.

Immagine di copertina: corteo nel 2015 per ricordare il massacro di Marikama, foto a cura del sito Sahistory.org.za