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MONDO

Diario palestinese II – Migliaia di prigionieri politici nelle carceri, liberi tutti

Se la comunità internazionale si è interessata principalmente alla sorte degli ostaggi israeliani del 7 ottobre, non altrettanta attenzione è stata dedicata alle migliaia di prigionieri politici palestinesi che da anni soffrono nelle carceri dell’occupazione e dell’autorità nazionale. Un esempio lampante del doppio standard morale e giuridico applicato dal cosiddetto Occidente quando si parla di Israele e Palestina

Sono circa 10.000 le persone attualmente detenute tra gli abitanti della Cisgiordania, invece dei gazawi arrestati dopo il 7 ottobre non si hanno informazioni precise. Dei 10.000, 86 sono donne e 250 minori; più di 3400 quelli in detenzione amministrativa, uno strumento giuridico che permette l’arresto prolungato senza formulare un’accusa specifica. 

La gestione del sistema carcerario è nelle mani del ministro dichiaratamente suprematista Itamar Ben-Gvir che, subito dopo il 7 ottobre, ha affermato pubblicamente che avrebbe ridotto le condizioni dei prigionieri palestinesi al livello minimo permesso dalla legge come strumento di punizione collettiva. Più recentemente ha aggiunto che se potesse ordinerebbe di sparare loro direttamente in testa. Un ex detenuto ha riferito di essere stato torturato da Ben-Gvir in persona, altri di averlo visto assistere alle sevizie inferte sistematicamente nelle prigioni.

Da mesi, infatti, si accumulano testimonianze di abusi e torture. Le foto e i video dei detenuti rilasciati parlano da soli, mostrano persone inferme, così smunte da aver perso anche 35 chili in pochi mesi di detenzione, con profondi traumi psicologici. “L’obiettivo è umiliarci”, ci ha detto una volta uno dei tanti palestinesi che ripetutamente fatto esperienza della durezza del carcere. Inoltre, alle organizzazioni internazionali come la Croce Rossa che si occupano di monitorare le condizioni di vita nelle prigioni sono state proibite le visite.

La pubblicazione di pochi secondi dei filmati delle telecamere a circuito chiuso della prigione di Sde Teman ha confermato quanto in realtà già tutti sapevano. Nella struttura i detenuti sono sottoposti a condizioni disumane e sono oggetto di molteplici violenze tra cui lo stupro. Il tribunale militare ha aperto un procedimento penale e il 29 luglio 9 soldati coinvolti nell’episodio sono stati posti inizialmente in stato di fermo. Poche ore dopo, due basi militari sono state assaltate da una folla di coloni e nazionalisti supportati da diversi parlamentari per impedire l’arresto dei soldati responsabili dell’episodio.

Quasi sempre queste indagini finiscono in un nulla di fatto, ma stavolta l’intervento della magistratura si è rivelato necessario a causa dell’inchiesta in corso da parte della Corte Penale Internazionale il cui procuratore Karim Kahn ha chiesto di spiccare un mandato di arresto contro il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant per aver commesso crimini di guerra. I soldati indagati si sono difesi sostenendo di aver agito per auto-difesa e una parte di loro è già stata rilasciata. Un membro dell’unità incriminata è stato ospite di un canale televisivo israeliano dove ha difeso l’operato dei suoi colleghi tra gli applausi dei presenti in studio. L’altro ministro dichiaratamente suprematista Bezalel Smotrich ha chiesto di indagare non il fatto ma la fuga di notizie, mentre il parlamentare del Likud Hanoch Milwidsky ha dichiarato che qualsiasi azione è giustificata se diretta contro Hamas.

Questa, purtroppo, è solo la punta dell’iceberg. Due rapporti pubblicati nell’ultimo mese, uno da parte delle Nazioni Unite e l’altro della ONG B’tselem, hanno raccolto prove che dimostrano la sistematicità delle violenze perpetrate nel sistema carcerario israeliano.

L’oggetto di questi orrori non sono solo i corpi individuali dei detenuti, ma il corpo collettivo delle loro famiglie e del popolo palestinese. Non si possono capire a pieno l’estensione e la portata di questo fenomeno senza ascoltare le storie di chi quelle violenze le vive e le ha vissute. Non c’è una famiglia che non abbia uno o più parenti in carcere. Fa parte della condizione di vita dei palestinesi, si vive nella attesa e nell’incertezza rispetto a se e quando i propri fratelli o mariti torneranno a casa, se questo destino toccherà a se stessi prima o poi.

In pratica si può essere arrestati per qualsiasi motivo, non solo per aver partecipato alla resistenza armata – prevista dal diritto internazionale nel caso dei movimenti di liberazione, ma repressa sotto lo stigma del terrorismo –  o per l’apparenza a un partito politico, ma anche per il solo fatto di aver criticato a voce o sui social il regime di occupazione o l’Autorità Nazionale Palestinese. Perfino scendere in piazza per piangere i morti di Gaza e chiedere il cessate il fuoco può essere rischioso.

Il carattere esteso del regime carcerario non si sviluppa solo nella pressoché totale possibilità di detenzione, ma anche nell’impatto collettivo della punizione: mentre il destino del detenuto resta sospeso per mesi o anni, la famiglia fuori dal carcere può subire ripetuti arresti – soprattutto per costringere un ricercato a consegnarsi – o vedere distrutta la propria abitazione se l’arrestato è accusato di alcuni reati come l’omicidio.

Non è quindi difficile capire come mai in questo momento quasi tutti vivano in una condizione di timore costante e generalizzato, spesso costretti a introiettare il dolore e la rabbia senza poterli manifestare pubblicamente.

Dopo qualche giorno dal nostro arrivo in Palestina, ci siamo spostati da Gerusalemme a Betlemme e qui abbiamo chiesto subito informazioni sulla sorte di alcune persone che da tempo si trovano in carcere, chi a Ofer, chi a Megiddo. Nomi che si imparano per chiedere informazioni sui propri cari a chi viene rilasciato. Si nominano il settore e il numero di cella, sperando che ci sia qualche buona notizia.

Ci dicono che Ahmed è uscito da poco dopo essere stato incarcerato più di un anno. Nella sua famiglia, tutti i fratelli hanno subito la stessa sorte, alcuni di loro hanno perso il lavoro per questo motivo. Scopriamo che il padre è morto mentre tutti i figli erano dentro.

Ci incontriamo e inevitabilmente finiamo per parlare di questa esperienza. In realtà non è la prima volta che Ahmed si è trovato a varcare la soglia del carcere, ma capiamo subito che quest’ultima è stata profondamente diversa. Non che in passato la situazione fosse semplice, violenze e sopraffazioni ci sono sempre state, ma ci dice che almeno erano garantite una serie di condizioni ottenute negli anni tramite le lotte portate avanti dai detenuti. “Potevi incontrare la tua famiglia una volta al mese ma quel pensiero ti permetteva di restare vivo per il resto dei giorni”.

Ahmed era già dentro il 7 di ottobre, quella mattina ha saputo di quello che stava succedendo da un altro detenuto che gli ha detto “svegliati, oggi guadagniamo la nostra libertà”.  Poco dopo invece la situazione  è peggiorata drasticamente: le celle sono diventate sovraffollate, tutti i dispositivi elettronici e gli effetti personali sono stati sequestrati, sono state sospese le visite familiari, il cibo è stato razionato e negata la possibilità di lavarsi. La maggior parte del tempo si è confinati in cella, è concessa solo un’ora d’aria a turno e si esce due celle alla volta. Ci racconta che per giorni non hanno visto la luce del sole.

Delle violenze invece capiamo che non ne vuole parlare molto, ci dice però chiaramente che le guardie entrano a sorpresa nelle celle, di giorno e di notte, e picchiano i prigionieri. Ci accenna alle minacce ricevute rispetto alla sua famiglia e alle bugie che gli hanno raccontato per mettergli pressione.

Il giorno del suo rilascio non ne sapeva nulla. Gli chiediamo com’è stato poter essere finalmente libero, gli scappa un sorriso e ci risponde di sentirsi fortunato perché ha avuto la possibilità di vivere una seconda vita. Ovviamente le ferite restano. In un altro momento la moglie ci racconta di come spesso la notte si svegli in preda all’ansia correndo a vedere alla finestra se c’è qualcuno. Per lui anche solo parlare di questa esperienza è rischioso, ma ci dice di farlo perché c’è bisogno che la gente sappia quello che stanno passando le altre persone ancora dentro. Per un palestinese, conclude, una di queste tre condizioni è certa: essere uccisi, essere feriti o essere imprigionati.

Eppure ci colpisce il fatto che non indugi mai su dettagli personali, il suo piuttosto è sempre un racconto collettivo. Ci spiega che il senso di tutta questa sofferenza sta nel lottare per un futuro per i propri figli nella propria terra. Gli chiediamo di cosa hanno bisogno maggiormente i detenuti, ci risponde “libertà”.

Quelle di Ahmed non sono parole isolate. Quando ci siamo spostati alla porte di Nablus siamo stati invitati da una famiglia locale ad andare a trovare con loro un ragazzo uscito di prigione il giorno prima. È tradizione in questi casi organizzare un momento di festa.

Appena arrivati ci accoglie lui, poche parole ma ci abbraccia e ci invita a sederci. Tutto attorno un cerchio di sedie sulle quali trovano posto la famiglia e alcuni abitanti del villaggio. Alla spicciolata continuano ad arrivare altre persone, tutti portano regali e dolci, ad ognuno è offerto un immancabile caffè di benvenuto.

Tra un tazza di caffè e un kanafeh si avvicina uno dei ragazzi che erano seduti di fronte a noi e ci mostra una foto sul cellulare in cui un ragazzo con un braccio ingessato, barba e capelli lunghissimi, viene abbracciato da due donne che piangono. Fatichiamo a riconoscerlo finché ci dice che è lui qualche mese fa, appena uscito di prigione dopo due anni.

Fouad ha solo 22 anni ma la sua vita è già segnata: non può più uscire dal villaggio, ogni volta che passa da un check-point i soldati lo fermano e lo picchiano.

“Sapete cosa sogniamo? Di svegliarci e muoverci liberamente per andare dove vogliamo, senza occupazioni. Quando ho incontrato uno degli ufficiali dell’esercito in prigione mi ha detto che tutti i palestinesi sarebbero morti, la terra sarebbe rimasta di proprietà di Israele e loro avrebbero vinto”. Gli piacerebbe visitare l’Italia, “quando la Palestina sarà libera potrò venire a trovarvi”.

Chiede di aggiungerci sui social, quando ci mostra il suo profilo notiamo che nella foto abbraccia un altro ragazzo: “L’esercito ha ucciso il mio migliore amico, chiamerò il mio primo figlio come lui”. Si è appena fidanzato e fra un anno si sposa. Il suo sogno è di aprire il suo negozio da barbiere. “Dove?”, chiediamo ingenuamente; “nel villaggio, non posso andare da nessun’altra parte”.

Ci racconta di come è stata la sua esperienza in prigione, durissima ovviamente. Oltre al braccio gli hanno rotto delle costole. Le guardie picchiavano sempre i detenuti, anche di notte. Ha visto uno dei prigionieri morire davanti a lui per le botte ricevute senza poter intervenire. “Dopo questo non ho più paura di nulla, neanche della morte”. Gli chiediamo come stia l’altro ragazzo appena rilasciato. “Fisicamente bene, dentro male”. Lo guardiamo con più attenzione, mentre gli altri chiacchierano e sorseggiano caffè i suoi occhi fissano il vuoto, sembra perso nei pensieri.

L’esperienza del carcere accomuna generazioni diverse. Wissam ha il doppio degli anni di Ahmed e probabilmente il triplo di Fouad. Lo incontriamo a Nablus e tra una chiacchiera e l’ennesimo caffè viene fuori che non è mai uscito dalla Cisgiordania. “Sono sulla lista nera” dice indicandoci tutte le ferite infertegli dall’esercito israeliano negli anni. Ci racconta che gli piacerebbe vedere il mare, un desiderio che spesso ritorna nei racconti dei palestinesi che non possono viaggiare perché sono stati in carcere o semplicemente segnalati. Eppure il Mediterraneo è a pochissimi chilometri. “Ogni volta che un amico va al mare scrive il mio nome sulla sabbia e mi invia una foto per far sì che anche io sia stato lì”.

Wissam è stato dentro 6 volte, sa bene quanto sia duro il carcere. Ti incatenano e ti appendono al soffitto. Ti lasciano al freddo nelle celle. Ti picchiano. “Stavolta è molto peggio però, non so se riuscirei a farcela”. Dopo il 7 di ottobre ha ricevuto diverse telefonate dai servizi segreti israeliani in cui gli hanno intimato di stare buono e non creare problemi. Nonostante le intimidazioni, nelle sue parole c’è ancora speranza, “presto la Palestina sarà libera e potrò andare a trovare tutti i miei amici in giro per il mondo”.

Queste tre storie non sono semplicemente tre esperienze individuali ma testimonianze di una condizione comune a un popolo intero la cui stessa presenza su questa terra chiamata Palestina è paragonata ad un crimine.

Questo sistema di detenzione di massa – dentro e fuori dal carcere – è parte integrante del regime di occupazione. Non si tratta di un deragliamento occasionale rispetto al normale funzionamento di quella che retoricamente viene presentata come l’unica democrazia del Medio-oriente, piuttosto di uno dei suoi dispositivi più intimi che serve a tracciare una linea di separazione netta tra chi ha diritti e chi no; di più, tra chi è umano e chi non lo è.

Tutti i palestinesi sono in qualche modo rinchiusi, chi nei pochi chilometri quadrati della Striscia, chi nel proprio villaggio in Cisgiordania, chi nel proprio dolore, chi nella propria cella.

Questa condizione di carcerazione di massa impatta inevitabilmente sulle forme di organizzazione e protesta. Quali possibilità restano quando anche una canzone tradizionale può essere considerata pericolosa? L’obiettivo non è solo quello di contenere le forme di dissenso e resistenza, ma di spezzare alla radice i legami sociali e il desiderio di vivere nella propria terra.

La violenza di questo apparato si è fatta ancora più palese e brutale dopo il 7 di ottobre, rimarcandone fortemente quel carattere di punizione collettiva già presente in precedenza. Si massacrano i gazawi per l’attacco di Hamas, si imprigionato i palestinesi della Cisgiordania per far sì che non ci siano altri a sfidare l’occupazione.

I racconti e le immagini delle violenze perpetrate nelle carceri israeliane assomigliano terribilmente a quelle avvenute nei primi anni 2000 a Guantanamo e Abu Ghraib. A differenza di allora, però, non è stato necessario trafugare informazioni da archivi segreti, nella società ipermediale in cui viviamo sono spesso gli stessi carnefici a pubblicare i loro orrori sui social media. Non negano la verità dei crimini commessi, se ne vantano. A differenza di allora non c’è nessuna voce di protesta internazionale che chieda l’immediata chiusura di questi centri di tortura. Che valore ha ancora quel diritto internazionale costruito sulle macerie della seconda guerra mondiale con l’aspirazione di garantire, ad esempio, ad ogni detenuto un trattamento umano?

Una volta conosciute storie come quelle di Ahmed, Fouad e Wissam, si capisce immediatamente il duplice valore politico che, all’interno dei negoziati sul cessate il fuoco a Gaza, avrebbe in questo momento il rilascio di un numero consistente di prigionieri palestinesi. Si tratta innanzitutto di alleviare le sofferenze diffuse e condivise di un popolo che vive molteplici forme di carcerazione. Inoltre, un risultato del genere avrebbe anche un valore simbolico importante rispetto alla forza della lotta per la liberazione dal regime di occupazione.

Immagini nell’articolo a cura degli autori

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