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Dialoghi contro la consunzione generalizzata
Esce per Ombre Corte il libro collettaneo “Psicoanalisi e rivoluzione. Psicologia critica per i movimenti di liberazione”, a cura di Ian Parker e David Pavón-Cuéllar con postfazione di Pietro Bianchi, in cui gli autori si propongono il compito di esaminare la difficile relazione tra psicoanalisi e politica
La rivoluzione, come pratica dell’inconscio viene qui intesa come controcanto del padrone e sovversione delle forze della rimozione, ma anche come sfida per pensare nuove forme di ecologia politica
Gli autori del manifesto Psicoanalisi e rivoluzione. Psicologia critica per i movimenti di liberazione si pongono lo scopo, notevole poiché complesso, di far parlare la psicoanalisi, e di farla parlare a favore dei movimenti di liberazione e contro ogni forma di oppressione e colonizzazione. Scopo complesso perché, come ben nota Pietro Bianchi nella sua postfazione al testo, la psicoanalisi, in quanto discorso, cioè in quanto pratica, è caratterizzata da un certo uso del silenzio. La psicoanalisi non parla, non ha nulla da dire su come va o come dovrebbe andare il mondo, non è una Weltanschauung, come faceva notare già Freud. Nel discorso psicoanalitico, per come è stato formalizzato da Lacan, chi parla è il soggetto dell’inconscio dell’analizzante, non lo psicoanalista, che invece è nella posizione non di soggetto parlante ma di oggetto che causa il dire, sembiante dell’oggetto che muove il desiderio dell’analizzante.
La psicoanalisi non è un sapere. È una postura, una pratica che consiste nel mettersi in ascolto di un sapere, un tipo particolare di sapere, che abita un soggetto e che quello stesso soggetto non sa di sapere. Questo sapere che non si sa di sapere, l’inconscio, lui, sì, parla, e c’è psicoanalisi laddove c’è qualcuno che si metta in ascolto di questo parlare e di questo dire, fatto di inciampi, lapsus, parole deformi, conversioni somatiche, insomma di sintomi. Presa dunque nella sua purezza, l’esperienza psicanalitica ci pone di fronte al limite di una singolarità assoluta, difficilmente articolabile come un sapere generalizzabile e trasmissibile a una comunità.
Gli autori si assumono dunque un rischio, quello di far virare la psicoanalisi verso il senso, sganciandola dal proprio specifico, cioè quella posizione di ascolto radicale che dicevamo, al di qua di ogni valore, al di qua di ogni morale, e domandandole di prendere una certa piega di senso: contro qualcosa, a favore di qualcos’altro. La psicoanalisi esce così da quella postura di ascolto radicale, per prendere invece una forma discorsiva diversa.
Credo che non solo sia possibile assumersi e correre questo rischio, ma che sia anche necessario farlo, e farlo nel senso indicato dagli autori. La soggettività di quest’epoca, con le urgenze che essa patisce, impone di riflettere sulle implicazioni politiche della pratica analitica e di frequentare un dialogo che possa arricchire chiunque guardi alla psicoanalisi in cerca di strumenti da utilizzare contro l’ordine del discorso corrente.
Secondo alcuni, ci troveremmo collocati storicamente nella fase terminale di un certo tipo di legame sociale che Lacan, in accordo con la gran parte degli studiosi, definiva “discorso del capitalista”. Tale discorso mostra oggi la corda, si fanno evidenti gli effetti di un certo logoramento. Il discorso del capitalista, dice Lacan, è «il discorso più astuto che si sia mai tenuto», perché lungi dall’avere nella crisi o nell’intoppo un momento di difficoltà o minaccia, vive e prolifica proprio innescando continuamente crisi e facendo della crisi il luogo della propria evoluzione, del proprio avanzamento, del proprio sviluppo. Il capitalismo deve distruggere e rivoluzionare continuamente i propri confini per poter costruire e continuare a sussistere. Per questo motivo, Lacan nel ‘72 diceva che è un discorso «destinato a scoppiare, perché insostenibile». Un discorso che fa della crisi il proprio punto d’origine «procede come su delle rotelle, non potrebbe correre meglio, ma appunto va così veloce da consumarsi, si consuma fino a consunzione».[1]
In quel destino esplosivo e in quella consumazione fino a consunzione si ritrovano le urgenze dell’oggi. Dal 1972 a oggi, gli effetti di questa consumazione fino a consunzione si fanno sempre più evidenti, o peggio, patenti. Riscaldamento globale e antropocene sono, ad esempio, due grandi nomi per dire questa consumazione fino a consunzione.
L’attività umana, orientata da quel particolare e astuto discorso del capitalista, è stata insistentemente stimolata sul versante di ciò a cui il desiderio mira, l’oggetto di consumo, il gadget, il godimento padroneggiabile. Il desiderio, che di per sé è indistruttibile, cioè mai pienamente soddisfatto, sempre votato ad altro, nel discorso del capitalista è stato venerato come fonte di riproduzione potenzialmente infinita del circuito delle merci. Il problema inizia quando sulla scena dove si consumano i rapporti tra il desiderio e le sue mire emergono gli scarti di questo processo. Thimoty Morton[2]prende l’esempio del water, dove gli scarti umani vengono fatti sparire, attraverso un tubo a sifone che con la sua forma sembra suggerire l’accesso a un’altra dimensione, un fuori assoluto rispetto alla superficie pulita in cui viviamo. Oggi sappiamo che questo fuori non esiste, che gli scarti dell’attività umana ritornano, o meglio restano in superficie, sulla superficie del mare, della terra, dell’aria, e che noi conviviamo con essi. Ennesimo contrappunto alle psicologie del profondo, l’inconscio è in superficie.
Altro effetto terminale della consunzione del discorso del capitalista sarebbe la segregazione. Prima che tardivo, la segregazione è stata anche un effetto precoce del discorso del capitalista nei suoi momenti più salutari. Se il soggetto è spinto a giocarsi il rapporto al proprio desiderio sul piano della alienazione al consumo, «lasciando da parte le cose dell’amore», il godimento dell’oggetto-gadget si darà come rapporto alienato e chiuso rispetto a quell’Altro evanescente che il desiderio stesso suppone come luogo della propria realizzazione. Il discorso del capitalista fa dell’oggetto di consumo un partner, e questo ha effetti di segregazione. Non serve affidarsi ai tormenti e alle ricerche labirintiche delle cose dell’amore, se come partner ho l’oggetto già in tasca. Strana forma di “legame sociale”.
La forma ultima che prende oggi questa tendenza del discorso del capitalista alla segregazione si osserva in fenomeni sociali che Jacques-Alain Miller suggerisce di pensare come due assiomi: assioma di supremazia e assioma di separazione.[3] Supremazia e suprematismo del proprio modo di godimento (rapporto all’oggetto del desiderio/godimento), propinato come ideale – separazione del proprio modo di godimento da quello dell’Altro, ma anche salvaguardia del “proprio” rispetto alla consumazione per consunzione. Sono sempre più frequenti emersioni di forme di legame sociale che puntano a separare un “noi” da un Altro, ispirate all’antico discorso del Padrone, in cui si invoca l’intervento di Uno che argini gli effetti di devastazione del capitalismo, imputando peraltro questi effetti a un qualche Altro immaginario contro cui si sostiene la propria identità. Vecchi e nuovi fondamentalismi e fascismi pullulano come risposta, sul piano del potere, all’impotenza della politica di fronte alle logiche spietate dell’economia finanziaria.[4]
Rispetto a tutto ciò, il manifesto di Parker e Pavón-Cuéllar ci invita a sviluppare i punti di connessione tra la psicoanalisi e i movimenti di emancipazione. Cosa dirsi dunque?
Sulla rivoluzione, innanzitutto. Alla rivoluzione Lacan ha dedicato una critica di enorme utilità nel seminario sul rovescio della psicoanalisi, di cui ogni movimento di liberazione potrebbe servirsi. La rivoluzione per Lacan è il controcanto del discorso del padrone, il controcanto cioè di quel tipo di legame sociale che impone la parola d’ordine di un Uno rispetto a tutti. Secondo Lacan, tale controcanto non farebbe altro che aspirare a diventare canto. È invece il concetto di sovversione che in psicoanalisi dice meglio ciò a cui è votato il soggetto che desideri emanciparsi dalle imposizioni del discorso del padrone. Il discorso dell’analista, che si effettua in un’esperienza analitica, si configura come la sovversione del discorso del padrone, in cui in primo piano non c’è più l’enunciato di un io che padroneggia il proprio dire, ma l’enunciazione del soggetto dell’inconscio che sconvolge e sovverte quell’io. La psicoanalisi, in quanto luogo di produzione dell’inconscio, è sovversiva rispetto alle forze della rimozione.
L’attenzione all’intesa inconscia tra rivoluzionario e padrone è quanto ritroviamo anche in un testo del collettivo di scrittori e attivisti anonimi Comitato invisibile. «Per un’insurrezione, la questione è di rendersi irreversibile. L’irreversibilità si raggiunge sconfiggendo non solo le autorità ma anche il bisogno di autorità, non solo la proprietà ma anche il gusto dell’appropriazione, non solo ogni egemonia ma anche il desiderio d’egemonia. È per questo che il processo insurrezionale contiene in sé la forma della sua stessa vittoria o quella del suo stesso fallimento. In fatto di irreversibilità, la distruzione da sola non è mai stata sufficiente. Tutto sta nei modi. Ci sono modi di distruggere che provocano immancabilmente il ritorno di quanto era stato annientato. Accanirsi sul cadavere di un ordine significa suscitare la vocazione a vendicarlo».[5]
Un certo tipo di rivendicazione, un certo gusto per la lamentazione nei confronti di un Altro causa di ogni disagio, non fa che partecipare all’alimentazione di quello stesso Altro. Quando si vuol dire o fare qualcosa contro «il discorso più astuto che si sia mai tenuto», è necessaria un’astuzia maggiore.
Altro luogo in cui la psicoanalisi ha avuto grande parte, in senso sia clinico sia politico, è l’approccio al soggetto psicotico. Ci troviamo qui nel pieno del conflitto tra oppressione e liberazione. Il soggetto psicotico è colui che si ritrova invaso da un Altro persecutore, notoriamente in forma di voci allucinate, ma non solo. Per tentare di far qualcosa contro questa invasione, per liberarsene, il soggetto mette in atto comportamenti ritenuti bizzarri dalla società, immediatamente rubricati in quel grande e ancora attuale scarico ideologico che è la follia, con le conseguenze che sappiamo. Qui la psicoanalisi ha potuto dialogare con la psichiatria, per mettere in luce il valore autoterapeutico di un delirio, la logica che soggiace ad alcuni passaggi all’atto, e soprattutto la decostruzione di ogni normalità che l’ascolto attento delle testimonianze dei soggetti psicotici induce a praticare. Rispetto a un approccio clinico grossolanamente patologizzante nei confronti dell’esperienza psicotica, che con il ricorso automatico e incondizionato al farmaco spesso reprime in blocco sia l’Altro che parla, invade e disturba il soggetto, sia il soggetto stesso, la psicoanalisi ha avuto modo di dire qualcosa in direzione di una clinica più attenta al dettaglio e soprattutto alla salvaguardia del soggetto. Su questo punto, gli interessi della psicoanalisi incrociano quelli dei movimenti per le neurodiversità, l’interesse per il sapere che emana dall’esperienza soggettiva, dal vissuto soggettivo. Non c’è teoria psicoanalitica delle psicosi senza riferimento diretto all’esperienza di Schreber, Wolfson, Artaud, Joyce.
Un altro punto in cui possono darsi incontri fecondi è il trattamento riservato allo scarto, che accomuna la psicoanalisi e il grande movimento della ecologia politica. In psicoanalisi si pratica una frequentazione dello scarto che fa eco col titolo di un testo di Donna Haraway importante nell’ambito dell’ecologia politica: Staying with the trouble.[6] Della frequentazione dello scarto l’esperienza analitica fa il suo maggior motore, ma al di là dell’analogia, psicoanalisi ed ecologia politica hanno molto da dirsi su cosa significhi davvero convivere con il problema, con il disturbo, in un tempo in cui si rende così evidente che la liquidazione del problema o del disturbo semplicemente non funziona.
Psicoanalisi e movimenti hanno insomma parecchie cose da dirsi. Non si tratta di un dialogo facile, esistono importanti differenze strutturali, tuttavia è un dialogo che si rende necessario. Esplosione e consumazione per consunzione sono il nostro orizzonte.
L’immagine di copertina è un estratto della copertina del libro
[1] J. Lacan, Del discorso psicoanalitico (1972), in Lacan in Italia. 1953-1978, a cura di G. B. Contri, La Salamandra, 1976.
[2] T. Morton, Iperoggetti, Nero, Roma 2018, p. 48.
[3] J.-A. Miller, Docile al trans, http://uqbarwapol.com/wp-content/uploads/2021/04/JAM-DOCILE-AU-TRANS-IT.pdf.
[4] Tutto il lavoro degli ultimi anni di Franco Berardi ‘Bifo’ sviluppa bene questo punto. Si veda ad esempio F. Berardi ‘Bifo’, Futurabilità, Nero, Roma 2018.
[5] Comitato Invisibile, L’insurrezione che viene, in Comitato Invisibile, Nero, Roma 2019, p. 96.
[6] In italiano D. Haraway, Chtulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2019.