approfondimenti
CULT
Dialettica hegeliana e fenomenologia del corpo in Judith Butler
I passi hegeliani sulla dialettica servo-padrone e la “coscienza infelice” non solo vengono da Butler analizzati a più riprese in diversi scritti, ma diventano, mediante l’idea che un “Io” possa essere corpo per l’altro, il fondamento per pensare l’interdipendenza etica e politica che fa da sfondo alla vulnerabilità
Il primo incontro di Judith Butler con la filosofia hegeliana avviene durante i suoi studi dottorali e poi con la pubblicazione nel 1985-1986 di Soggetti di desiderio. In questo primo lavoro di ricerca confluiscono gli studi della filosofa su Hegel e sull’idealismo tedesco con gli interessi per quella che venne poi battezzata in ambito statunitense come “French Theory”. Nonostante Soggetti di desiderio venga considerato dalla stessa Butler come un lavoro prematuro ed embrionale, perché «non […] esaustivo nel presentare il panorama dell’hegelismo francese, né un’opera di storia delle idee» (“Prefazione alla seconda edizione”, Soggetti di desiderio, [1987] 2009, xiv), tutto il suo lavoro «resta all’interno dell’orbita definita da un preciso insieme di domande hegeliane: qual è la relazione tra desiderio e riconoscimento? E com’è che la costituzione del soggetto comporta una radicale e costitutiva relazione con l’alterità?» (ibid., xxiii). Il centro dell’interesse per Hegel, quindi, sta nell’estratto sulla signoria e la servitù della Fenomenologia dello Spirito, quando si sostiene che «l’autocoscienza» diviene «in sé e per sé» quando viene riconosciuta come tale da «un’altra autocoscienza». L’ek-stasis dell’autocoscienza, la sua fuoriuscita, mette in moto un processo dialettico di duplicazione e riconoscimento reciproco, in cui l’una per l’altra transita dallo stato di mero oggetto a vera e propria esperienza autocoscienziale. Questo processo, che esibisce al contempo una filosofia del desiderio e del lavoro, si dà «mediante la morte», vale a dire tramite la mediazione di una «negazione assoluta» in cui l’essere singolare si scopre come «autocoscienza autonoma» attraverso la lotta con l’altro.
Per Butler, allora, diventa decisivo pensare il nesso tra il desiderio «in quanto immediato, arbitrario, immotivato e animale» (ibid. 3) nel suo rapporto con il massimo dell’astrazione e dell’oggettività del pensiero filosofico: da una parte come la filosofia ha pensato, negato, assorbito il desiderio e dall’altra il modo in cui è emersa (e poi è stata criticata) la questione metafisica del soggetto. L’idea di ripercorrere le correnti hegeliane e non (direttamente né necessariamente) hegeliane francesi del ‘900 prova ad inseguire le evoluzioni della dialettica tra corpo e astrazione, e del soggetto preso tra totalità e frammenti. Dalla parte di Kojève ed Hyppolite, Butler insiste sulla dimensione della negazione e della morte hegeliane come produttrici di una differenza non ricomponibile nel processo di “toglimento” dialettico (dal momento che si nega per mettere in crisi più che superare). L’idea della “sostanza” che diviene “soggetto” prende così le sembianze di un infaticabile percorso o “viaggio” di trasformazione, che non si riesce mai a totalizzare, chiudendosi, ma si riproduce in una sequenza di scarti in cui l’io si mostra come mai identico a se stesso. In questa cornice, oltre ai due profeti francesi di Hegel, Butler rilegge Sartre in funzione diametralmente opposta a una concezione mobile del desiderio e come filosofo che ristabilisce la centralità del soggetto e la diade Lacan-Deleuze come tentativi che non riescono fino in fondo ad uscire dalla logica del desiderio, rimanendo irretiti nel “sogno hegeliano” (ibid. 24). Da una parte la jouissance dall’altra la molteplicità mettono al centro l’idea che il desiderio sia un assoluto e un pieno, la base ontologica e metafisica di costituzione del soggetto. Se il pensiero post-hegeliano francese non riesce fino in fondo, secondo Butler, a fare a meno di Hegel, neanche Foucault, che pure era stato allievo all’École Normale Supérieure di Hyppolite, fa eccezione, dal momento che per lui il desiderio non si esprime mai fuori da discorsi e pratiche di potere che sono storicamente e corporalmente incarnati, esibiti, performati – e che apriranno al problema della «sovversione dell’identità», tramite il «gender trouble» (Gender Trouble, 1990).
La vita psichica del potere del 1997 ricuce la teoria della performatività di genere e lo studio delle forme di internalizzazione del potere, tra Foucault e Freud, sullo sfondo delle lotte omosessuali e queer degli anni ’80 che avevano costruito intorno alla coscienza del lutto l’affermazione di una comunità possibile (cf. Zappino, “Il potere della melanconia”, 2013). È ne La vita psichica del potere che Butler ritorna su Hegel nell’ottica di ripensare lo schema del riconoscimento a partire dalla “cattiva coscienza”. La dialettica in questo caso descrive il processo di co-implicazione reciproca della subjectivation foucaultiana come dispositivo che è allo stesso tempo di soggettivazione e di assoggettamento e, althusserianamente, come meccanismo di interpellazione a cui il soggetto viene ricondotto. La “cattiva coscienza” è un “attaccamento appassionato” alla propria schiavitù – una sorta di servitù volontaria intesa come risvolto “psichico” necessario della vita del potere, nonché il momento fondativo della costituzione dell’inconscio come “forclusione”. L’aspetto innovativo, in cui questo Hegel letto a specchio con il Nietzsche di Genealogia della morale, è l’enfasi che Butler pone sul corpo, che nell’auto-assoggettamento del rapporto del servo con il padrone è «qualcosa da negare, da mortificare, o addirittura da subordinare a un’istanza etica» (ibid.) La formulazione della sentenza del padrone verso il servo: «Che tu sia il mio corpo per me, ma non farmi sapere che il corpo che tu sei è il mio» (ibid.) chiarisce lo statuto di un distacco soggettivo che si dà solo sulla base dell’attaccamento, al punto che l’interdipendenza viene persino prima dell’emersione di un “Io”. La stessa forma del corpo si dà sulla base della differenziazione con altri: «Perché un corpo sia un corpo, esso deve essere legato a un altro corpo» (Butler & Malabou, Che tu sia il mio corpo. Una lettura contemporanea della signoria e della servitù in Hegel ([2010], 2017). La sezione Coscienza infelice si presenta dunque come una fenomenologia del corpo sconfessato nella colpa e nel masochismo che il soggetto in quanto servo e lavoratore si auto-attribuisce nel momento in cui tenta di svincolarsi. Ma se lo schema è quello del Disagio della civiltà – e del double bind tra repressione e libido – quali sono – in termini di nuovo foucaultiani – i margini per una soggettivazione liberata o per l’affermazione di forme di resistenza?
Che la vita psichica e sociale del soggetto sia segnata da forme di vulnerabilità ed ambivalenza strutturali, è anche il problema che dà forma all’intera riflessione etico-politica butleriana – che in questo senso viene filtrata dalla dialettica hegeliana di morte e vita, individuale e universale, autocoscienza e alterità. La vulnerabilità non costituisce una carenza strutturale di un soggetto formato, ma l’effetto dello stare in relazione con altri all’interno della società: siamo vulnerabili perché ci sono gli altri (psicoanaliticamente, il loro desiderio). Ma se vulnerabilità e interdipendenza sono legate a doppio filo, ciò non significa che la seconda risolva la prima e che la socialità ripari la vulnerabilità. La dipendenza, infatti, può essere anche espressione di sfruttamento e violenza. L’interdipendenza come “eguaglianza” prevede il riconoscimento dei rischi e delle potenzialità contenute nell’”alleanza dei corpi” e nella loro possibile coalizione in piattaforme infrastrutturali e programmatiche, senza risolversi in un’astratta etica e politica della cura, che espunga fuori di sé il negativo. (L’alleanza dei corpi, 2015; La forza della non violenza, 2020).
Immagine di copertina: Ernst Ludwig Kirchner, Nude Women with a Child in the Forest, 1925