EUROPA

DeStalke: un progetto per liberarci dalla violenza digitale di genere

Dal cyberstalking alla diffusione non consensuale di immagini intime: la violenza digitale è una delle tante sfaccettature della violenza di genere che, ogni giorno, donne e libere soggettività si trovano a combattere. Abbiamo intervistato il progetto DeStalke per saperne di più

«In Europa una donna su dieci ha già subito violenze informatiche all’età di 15 anni, sette donne su dieci sono state attaccate attraverso cyberstalking e hanno subìto almeno una forma di violenza fisica o sessuale da parte di un partner intimo. Il 71% degli autori di violenza domestica controlla il computer della partner e il 54% ne traccia i cellulari con software appositi». Questi e altri dati riguardanti la violenza digitale di genere tessono le fila di un fenomeno diffuso e sistemico che deve iniziare ad essere preso in considerazione in quanto, come la tecnologia, pervade ogni secondo delle nostre vite.

Dal cyberstalking alla diffusione non consensuale di immagini intime, la tecnologia oggi sembra un campo minato in cui sentirsi al sicuro risulta particolarmente difficile. Eppure, riappropriarsi degli strumenti e della consapevolezza necessari possono rendere il mondo digitale uno spazio di affermazione e di autodeterminazione.

Affermare il diritto di attraversare liberamente gli spazi online è una lotta per affermare la libertà di esprimerci in tutte le realtà.

Oggi viene inaugurata l’ultima tappa, quella della sensibilizzazione mediatica, del progetto europeo DeStalk, per il contrasto della violenza di genere online. Un progetto di cui la Regione del Veneto è partner insieme a Una Casa per l’Uomo di Treviso, European Network for the Work with Perpetrators of Domestic Violence, Fundación Blanquerna, Kaspersky.

Abbiamo intervistato Elena della cooperativa Una Casa per l’Uomo di Treviso rispetto al fenomeno della cyberviolenza di genere e del progetto che hanno svolto negli ultimi due anni.

I dati riguardo alla violenza digitale parlano di un fenomeno diffuso e sistemico. Come, da questa prima consapevolezza, avete dato vita al progetto di DeStalk e quali sono i vostri obiettivi? In che contesto vi siete mossi?

Il progetto è nato nel 2020, durante la pandemia, ed è iniziato fattivamente nel 2021. Siamo partiti dall’analisi di questi dati che emergevano e ci siamo resi conto con i partner che c’era necessità di impostare un lavoro di formazione, che tecnicamente si chiama capacity building. Quindi, un lavoro di aumento delle competenze degli operatori che lavorano tutti i giorni nell’ambito della violenza, fornendo sia una formazione specifica su questo tema, sia poi degli strumenti operativi da poter utilizzare nelle attività quotidiane. È stato, dunque, scelto di creare un consorzio con i partner con competenze diverse per poterle integrare tutte e per potere avere un approccio interdisciplinare a questo fenomeno.

Il tema della violenza digitale è un tema caldo, anche a livello europeo. Infatti, rispetto al 2021 in cui abbiamo iniziato, sono cambiati il contesto e il quadro normativo in cui ci muoviamo. Quando abbiamo iniziato non esisteva nemmeno una definizione comune e condivisa di violenza digitale. Poi l’anno scorso, proprio il 25 novembre, è stato pubblicato il primo documento di Grevio, che è un gruppo di esperte che valuta l’applicazione della Convenzione di Istanbul nei vari paesi della Comunità Europea, che ci dice chiaramente che la cyberviolenza è la dimensione digitale della violenza contro le donne. Quindi, il fenomeno viene definito in maniera molto chiara e questa definizione esplica che si tratta di una violenza di genere. Inoltre, ci dice anche che essa è inserita nella dimensione digitale: quindi, non è un fenomeno separato, ma è solo uno dei modi in cui si può manifestare la violenza, che può essere digitale o tradizionale.

Di seguito, l’8 marzo è stata pubblicata una proposta di direttiva del Parlamento Europeo sulla violenza contro le donne e qui, per la prima volta dal punto di vista normativo, la violenza digitale è stata inserita tra le forme di violenza che poi costituiscono reato e sono punibili. La proposta di direttiva ancora non è stata approvata perché il Parlamento Europeo sta lavorando per ottimizzarla, ma rimane un passo in avanti perché per la prima volta possiamo avere la violenza digitale inserita in un documento ufficiale e in una direttiva. Infatti, dal punto di vista legale, abbiamo delle normative che si occupano di cybercrimini ma non tengono conto della prospettiva di genere. Dall’altro lato, abbiamo tutta la legislazione sulla violenza di genere che, però, non tiene in considerazione tutti gli aspetti digitali. Quindi, è indispensabile combinare questi due aspetti per avere un’architettura normativa più efficace.

In cosa consiste nello specifico il vostro progetto?

Il progetto è già in fase conclusiva perché, purtroppo, finiremo a fine anno. Durante lo svolgimento del progetto ci siamo concentrati su tre aspetti principali. Il primo è quello della formazione, per cui, grazie al lavoro di Kaspersky, abbiamo realizzato una piattaforma online su e-learning, che è un corso diviso in quattro moduli, dei percorsi dedicati per le operatrici dei centri di antiviolenza, per gli operatori dei centri per gli uomini, ma anche per gli operatori dei servizi pubblici come servizi sociali e consultori familiari. Oltre a questa piattaforma su e-learning, che è ancora aperta e ci si può ancora iscrivere, abbiamo realizzato degli strumenti operativi che permettono agli operatori e alle operatrici di affrontare questo problema da un lato con le donne che subiscono e dall’altro lato gli uomini che agiscono la violenza digitale. Gli strumenti includono delle guide pratiche per capire come rilevare il fenomeno, ma anche come poi agire in ottica sia di prevenzione che di messa in sicurezza delle donne.

Lavorando, poi, abbiamo aumentato sempre più il numero di prodotti realizzati, creando anche delle guide per le donne su come navigare protette, in cui diamo delle indicazioni di base su cos’è la violenza digitale, su come riconoscerla, come proteggersi e come poi chiedere aiuto sia ai centri antiviolenza che alla polizia postale.

Parallelamente a questa attività che abbiamo sviluppato nella cooperativa “Una Casa Per L’Uomo”, abbiamo realizzato anche dei workshop di formazione molto intensivi per gli operatori e per le operatrici. Sono formazioni in cui vengono trattati tutti i temi che riguardano la violenza digitale: oltre a uno scorcio su tutte le forme (perché purtroppo è un fenomeno che si manifesta in molteplici modalità), abbiamo lavorato sugli aspetti legali e quelli psicologici, oltre che quelli sulla sicurezza digitale.

L’ultima attività che stiamo svolgendo proprio in questo momento è quella della realizzazione di una campagna di sensibilizzazione riguardo al pubblico in generale, la quale inizierà a partire dal 25 novembre. Abbiamo fatto dei video che pubblicheremo quel giorno su questi temi rivolti sia agli uomini che sulle donne, che verranno pubblicati sui nostri social media.

A partire dalla vostra esperienza sul campo, quali credete che sono le forme di cyberviolenza più diffuse?

Noi abbiamo osservato in maniera trasversale tutte le forme di violenza digitale. Ci sono quelle che sono più immediate, quelle più riconoscibili e, di conseguenza, più facilmente rilevabili. E ci sono quelle che rimangono più nascoste, che sono più subdole. Ti faccio un esempio: una delle forme che abbiamo voluto includere negli elenchi è la limitazione o privazione dell’accesso al digitale. Nessuno la riconosce come tale, ma è una forma di violenza che è motivato dalla volontà di controllo coercitivo da parte dell’uomo e ha lo scopo di isolare la donna rispetto al contesto e alla sua rete di conoscenze, oltre che privarla di mezzi e di risorse.

Si tratta di limitare la vita nel mondo in cui viviamo oggi, a fine del 2022; un mondo in cui gran parte della nostra vita si svolge online e facciamo molte attività attraverso l’utilizzo di app. Non avere accesso a internet, non avere un dispositivo oppure non potere usare delle app è una grossa forma di privazione. Non avere la possibilità di accedere all’applicazione di home banking significa, per esempio, non avere autonomia nella gestione delle proprie risorse economiche. Non avere accesso alle applicazioni delle aziende sanitarie per la gestione degli appuntamenti relativi alla salute significa non potersi autodeterminare rispetto al proprio benessere. Non poter prendere visione, da parte di una madre, al registro dei propri figli, significa non poter svolgere le proprie funzioni familiari.

Chiaramente è una grossa privazione della libertà personale e noi la identifichiamo in quanto una delle forme più diffuse di violenza digitale. Spesso, passa inosservata e non viene presa come tale, ma è chiaramente molto rilevante nella vita quotidiana delle persone.

Allo stesso modo, le donne che arrivano nei centri antiviolenza hanno la percezione che stanno subendo una qualche forma di violenza; poi ovviamente non è semplice per loro dare un nome e classificare ciò che sta loro accadendo e per questo noi tecnici del settore abbiamo una specifica nomenclatura per questi fenomeni. Le forme di violenza sono tante e ciascuna ha caratteristiche diverse, portando con sé uno specifico livello di rischio che influirà poi sull’impatto e sulle conseguenze psicologiche e fisiche di chi la subisce. Sia che si tratti di molestie online, che di diffusione non consensuale di immagini intime, ma anche di cyber-stalking.

Credi, dunque, che ci sia continuità tra la violenza di genere online e quella offline?

Noi diciamo sempre che la violenza online è un continuum della violenza offline: vanno di pari passo. C’è un dato molto significativo a riguardo, che è quello del numero verde della Gran Bretagna riguardo allo stalking. Secondo i dati relativi al 2021, infatti, nel 100% dei casi di stalking c’è almeno un elemento di stalking digitale. Questo ci fa capire quanto le due dimensioni siano fortemente interconnesse. Allo stesso modo, un’altra statistica, questa volta a livello europeo, ci dice che il 70% delle donne che subiscono violenza digitale subiscono anche una forma di violenza fisica o sessuale.

La tecnologia, purtroppo, nonostante tutte le possibilità che ha, non fa altro che amplificare la portata e la pericolosità di tutte le forme di violenza che tradizionalmente sono in atto. Per esempio, nel caso dello stalking, la forma tradizionale implica un pedinamento fisico della persona e richiede anche uno sforzo fisico e un rischio nel seguire la vittima. In realtà, lo stalking digitale fatto attraverso le app di stalkerware o, semplicemente, tramite l’accesso fraudolento agli account dei social media permette di fare tutte queste attività di stalking stando comodamente seduti sul proprio divano o mentre si è al lavoro. Quindi, la tecnologia aumenta la portata del fenomeno e dà molte più possibilità nel modo in cui si agisce violenza. Poi, se pensiamo che come dicevo prima la tecnologia è una parte fondamentale e imprescindibile della nostra vita, allo stesso modo ormai la violenza digitale è inscindibile dalla violenza offline. 

Prima accennavi alla difficoltà che le persone che subiscono questo tipo di violenza hanno nel riconoscimento di ciò che sta loro accadendo. In questo senso, quanto è importante saper chiamare le cose con il loro nome?

L’importanza di avere un glossario è enorme per poter facilitare la comunicazione e la comprensione quando si lavora con altre realtà. Noi crediamo che il lavoro, sia per quanto riguarda specificatamente la violenza digitale, sia per la violenza di genere più generalmente intesa, richiede un grande lavoro di rete. Una collaborazione tra enti ed agenzie è fondamentale: dunque, quando si deve parlare con un altro ente è importante capirsi e partire dalla stessa base terminologica. Infatti, il glossario è l’unica parte in comune che c’è tra gli strumenti dei centri antiviolenza e per gli operatori che lavorano con gli uomini attori di violenza perché è importante che dalle due prospettive la terminologia sia la stessa.

Ti faccio l’esempio del termine revenge porn, che forse è una delle forme di violenza digitale più conosciute ai media visto che se n’è parlato ampiamente e perché c’è una normativa specifica a riguardo. Revenge porn è un termine scorretto. Noi lo chiamiamo “diffusione non consensuale di immagini esplicite” perché innanzitutto non si tratta di pornografia, ma di immagini intime. Poi, il termine revenge induce la percezione che l’autore, la persona che pubblica queste immagini in maniera non consensuale, agisca nell’ottica di vendicarsi perché ha subito qualcosa. Ciò implica, dunque, una colpevolizzazione inconscia della vittima. Anche la scelta delle parole è importante nell’identificazione di tutto il lavoro di prospettiva di genere che facciamo e di tutela delle persone che hanno subito la violenza.

Un mondo così vasto e spesso gestito male può spaventare. Ma esiste una prospettiva in cui la tecnologia ci diventa amica nel percorso di autodeterminazione?

Certamente il tema della violenza digitale spaventa e ha spaventato anche me quando ho iniziato a lavorarci. Tuttavia, noi cerchiamo di lavorare in un’ottica di empowerment. Da un lato, sicuramente, vogliamo mettere l’accento su quelli che sono i pericoli del mondo digitale; dall’altro, però, vogliamo fornire degli strumenti alle donne e alle soggettività – non solo potenziali vittime di violenza – che possano proteggerci e tutelarci quando siamo online.

Spesso affrontiamo il mondo digitale con superficialità non prestando attenzione, per esempio, alle impostazioni di privacy o alla condivisione di password. Come gruppo, invece, vogliamo lavorare in un’ottica positiva: dunque, fornire informazioni utili per la propria tutela per far sì che si possa continuare a utilizzare gli strumenti digitali al meglio per poter esprimere sé stessi. Di sicuro, per esempio, quando lavoriamo con le donne nell’ottica dei piani di sicurezza, l’obiettivo non è quello di limitare.

Per fermare la violenza non possiamo smettere di usare la tecnologia, ma dobbiamo imparare a usarla in un modo consapevole per continuare a fare tutte le attività che facciamo online in modo sicuro. Al di là degli strumenti con un’utilità pratica come l’home banking, anche l’utilizzo libero e sicuro dei social media è un diritto. Poterli usare in sicurezza vuol dire dare la possibilità alle donne di continuare a esprimersi e mantenere la rete di relazioni e contatto che hanno.

Per queste ragioni, crediamo che sia fondamentale il lavoro con i giovani e con i loro genitori per arrivare a un uso più consapevole dei dispositivi, ma anche a una condivisione più responsabile di immagini e di contenuti. Per come sono strutturati i social media più popolari, oggi ci siamo abituati sempre più a condividere qualunque cosa senza riflettere molto sulle conseguenze.

Abbiamo iniziato a inserire questi temi nelle formazioni che facciamo nelle scuole, però credo che sia importante lavorare affinché queste tematiche diventino non occasionali e che vengano incorporate in maniera più stabile nelle attività didattiche.

Immagini di DeStalke