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MONDO

Deportazione 2.0: dall’American First al Cloud First

Le recenti pubblicazioni di alcuni report indipendenti negli Stati Uniti mostrano l’esistenza di uno stretto sistema di appalti e relazioni tra multinazionali dell’hi-tech, governo americano e amministrazione “dell’immigrazione clandestina”. Per milioni di dollari e dati

All’alba del suo mandato, Donald Trump aveva contro di sé gran parte degli imprenditori della Silicon Valley. La valle del silicio californiana voleva candidare la propria visione liberal e democratica come alternativa politica al sistema valoriale incarnato dal nuovo presidente, in particolare in opposizione alla retorica anti migranti. Erano i tempi lontani dei discorsi di Zuckerberg contro l’hate speech e delle prese di posizioni contro le deportazioni e i visti negati da parte dei CEO di Apple e Netflix. Erano anche i tempi in cui il fondatore di Uber, Travis Kalanick, veniva isolato dal “giro” per una sua dichiarazione, subito ritrattata, vagamente simile ad un “lasciamolo lavorare” verso l’inquilino della Casa Bianca.

Da allora però sono passati tre anni. Molto è cambiato nei rapporti tra le aziende di Palo Alto e San Francisco, le multimiliardarie imprese dell’hi-tech, dei data, dell’e-commerce, e il governo statunitense. Le più importanti tra queste imprese ora hanno addirittura un ruolo chiave nel complesso carcerario di massa statunitense e nelle politiche di detenzione e deportazione dei migranti volute da Donald Trump. Molte compagnie della Valley, senza troppa pubblicità, negli scorsi anni, hanno chiuso accordi a nove zeri per collaborare con agenzie federali e dipartimenti governativi e questo sembra aver polverizzato la loro velleità di promuovere una visione di mondo alternativa alla destra sovranista.

“Pecunia non olet” dirà il cinico di turno; se non fosse che gli strumenti e le tecnologie che alcune compagnie stanno mettendo a disposizione del governo gettano inquietanti ombre sul futuro di privacy, libertà e diritti di tutti i cittadini negli Stati Uniti.

Poche settimane fa la rete di attivisti, ONG e movimenti abolizionisti Worth Rises è riuscita a pubblicare il prezioso report: “The Prison Industrial Complex: Mapping Private Sector Players”. Il report è la più completa fotografia del legame tra l’economia statunitense e le politiche di incarcerazione e deportazione di massa. Dopo decenni di ricerca finalmente si comprende la portata di quello che Angela Davis chiama industrial prison complex. Il report spiega come sulla pelle di 2 milioni e mezzo di carcerati (il 25 % della popolazione carceraria mondiale) si regge un’economia di decine e decine di miliardi di dollari. Un’economia che coinvolge aziende di servizi, dell’edilizia, società finanziarie, ditte di comunicazioni, di forniture, compagnie assicurative, industrie farmaceutiche, colossi del management e agenzie di lavoro interinale oltre, ovviamente, le multinazionali hi-tech.

 

 

Su tutte Microsoft, Amazon e Palantir negli ultimi anni hanno visto aumentare i propri profitti direttamente grazie alle politiche securitarie di Donald Trump. Questo perché dal 2017 in poi proprio queste corporation hanno iniziato a fornire servizi per la schedatura, la detenzione e la deportazione dei migranti e, tra le tante voci del DHS (Dipartimento di Sicurezza Interna, il nostro Ministero degli Interni), proprio la gestione dei migranti irregolari è la voce di spesa che più è lievitata sotto la presidenza attuale.

Bisogna però fare dei distinguo. La Microsoft del “filantropo” e secondo uomo più ricco al mondo Bill Gates, per esempio, agisce a livello statale e non federale; infatti offre, per 228 milioni di dollari annui, allo Stato della California servizi cloud ma soprattutto strumenti di intelligenza artificiale utili alle politiche di “valutazione del rischio”. Cosa si intende per “valutazione del rischio”? Dall’agosto 2018 per essere rilasciati sotto cauzione nel laboratorio distopico del golden state si è sottoposti a un’analisi che valuta il livello di pericolosità sociale, sulla base dei precedenti penali, ma anche delle abitudini di vita, dei luoghi di provenienza… che decide sulla base di questo l’eventuale rilascio su cauzione.

E tuttavia, gli aspetti più inquietanti delle relazioni tra politiche di Trump e corporation riguardano le disumane politiche migratorie sul livello federale. Da gennaio 2018, il presidente ha annunciato la politica di “tolleranza zero” contro l’immigrazione irregolare negli Stati Uniti. A questo annuncio è seguita una ridefinizione dei sistemi di controllo sui migranti che ha aperto le porte a business miliardari.

Dal 2017 le due agenzie federali che si occupano di immigrazione – la CBP (Customs and Borders Protection), cioè la Polizia di Frontiera, e la ICE (Immigration and Customs Enforcement) – hanno visto un aumento del loro budget complessivo circa del 33%. L’ICE è la vera scommessa della presidenza che ne ha aumentato esponenzialmente i fondi, prima piuttosto risibili, fino alla cifra record di 3,3 miliardi di dollari l’anno. L’ICE è l’agenzia che si occupa di “dare la caccia” ai migranti irregolari, non nelle zone di confine dove opera la polizia di frontiera, ma su tutto il territorio americano. L’ICE si occupa di schedare i migranti, rinchiuderli nei centri di detenzione e quindi deportarli. I fondi destinati alla sempre più potente ICE finiscono per il 71% dei casi (e il 98 % dei casi in cui il migrante è un minore) nelle tasche di imprese private.

Tra queste spiccano innanzitutto il gruppo Geo (proprietà di JP Morgan e BNP Paribas) e Core Civic per i servizi, le forniture, i trasporti dei migranti e la gestione dei centri di detenzione. I due gruppi hanno finanziato cospicuamente le recenti campagne elettorali dei candidati repubblicani che abbracciano la linea anti-immigrazione del presidente. Dal 2016 a oggi, a Wall Street questi due gruppi, i cui profitti provengono per il 41% da contratti con il governo federale, hanno visto lievitare il valore delle proprie azioni. Il tutto grazie alle politiche che hanno prodotto, solo nel 2018, 44.000 bambini separati dai propri genitori e detenuti nei centri familiari gestiti proprio da queste due società.

Le corporation che hanno vinto gli appalti più remunerativi, dopo Geo e Core Civic, sono Amazon e Palantir. La società di Seattle e quella di Palo Alto detengono quasi il monopolio per i servizi di schedatura, riconoscimento facciale e biometrico e gestione dati dell’ICE su tutto il territorio statunitense: un business miliardario e in rapida crescita.

 

 

Un altro report indipendente dell’autunno 2018 “Who is beyond ICE?”, chiarisce come il settore del digitale stia diventando sempre più importante per l’ICE e per Trump, e lascia intravedere come le tecnologie utilizzate possano mettere in pericolo la libertà di tutti i cittadini una volta implementate e potenziate sui migranti.

Nel report si legge: «Le comunità di immigrati si trovano ora ad affrontare livelli di sorveglianza senza precedenti, di detenzione ed espulsione per volontà del presidente Trump, del procuratore generale Jeff Sessions, del DHS (Dipartimento di Sicurezza Interna), e della sua sub-agenzia ICE. L’innovazione e le nuove infrastrutture tecnologiche rendono possibile tutto questo, consentendo l’applicazione di leggi sempre più severe sull’immigrazione; si affidano alla polizia enormi banche dati, programmi informatici, consulenze tecniche, analisi di una grande mole di dati e storage basati su cloud. (…). L’obiettivo del governo è quello di trovare, deportare o detenere gli immigrati. L’applicazione della legge sull’immigrazione e la detenzione è ora un grande affare per la Silicon Valley; ICE, DHS e molte altre istituzioni spendono miliardi di dollari dei contribuenti per procurarsi e mantenere questi nuovi sistemi. Attualmente, circa il 10% del budget di 44 miliardi di dollari del DHS è dedicato alla gestione dei dati. Una manciata di grandi aziende, come Amazon Web Services e Palantir, hanno costruito una “sistema di porte girevoli” per sviluppare e consolidare il ruolo della Silicon Valley nel processo di incarcerazione di massa e nel regime di espulsione. Senza controllo, queste aziende tecnologiche continueranno ad aumentare l’offerta del governo per lo sviluppo di sistemi che mirano e puniscono in massa coloro che ritengono “indesiderabili”».

Il rapporto, quindi, definisce di circa 4,5 miliardi di dollari questo giro di affari, una cifra simile a quella che Trump chiedeva al Congresso per completare il muro di confine con il Messico, per il quel si è prodotto lo shut down delle attività federali. L’impressione è che, mentre il mondo osservava il balletto tra le istituzioni americane, una soluzione più sofisticata del muro riceveva supporto economico mettendo d’accordo Presidente e Congresso.

Andando nel dettaglio il rapporto studia le due aziende che fanno profitti su incarcerazione e deportazioni di migranti. La prima, Palantir, è una società di servizi digitali fondata nel 2004 dal valore di 20 miliardi di dollari. Nel suo board figurano consiglieri d’amministrazione di Facebook, Paypal, Tesla e persino il capo redattore dell’Economist, e il fermo oppositore di Trump, Alex Karp. La società nasce proprio per fornire piattaforme digitali alla pubblica amministrazione e si avvale di consulenze di collaboratori delle precedenti amministrazioni. La società sta sviluppando il software di gestione dei casi di immigrazione irregolare con una tecnologia che consente agli agenti di setacciare database regionali, locali, statali e federali in tutto il paese, scandagliare profili dei migranti, dei loro amici e familiari sulla base di informazioni private e pubbliche, utilizzare tali profili per sorvegliare, tracciare e infine deportare i migranti.

Secondo il rapporto, i loro servizi tecnici hanno portato ad un’accelerazione pericolosa della tecnologia di sorveglianza da parte della polizia e dei pubblici ministeri attraverso un’infrastruttura che alimenta anche pratiche discriminatorie che prendono di mira le persone di colore. Palantir ha permesso un aumento del data mining e dell’accumulo di dati da una miriade di fonti, tra cui bollette, servizi bancari, dati aziendali e di proprietà, informazioni sui fornitori di servizi sanitari, registrazioni di telefoni cellulari in diretta, database biometrici e account di social media.

Oltre a Palantir però a lucrare sulle politiche razziste del governo statunitense c’è soprattutto

Amazon. La società di Seattle è passata da piattaforma leader dello shopping online al più grande broker di spazio di archiviazione cloud del pianeta, attraverso Amazon Web Services. AWS è lo spazio cloud principale in cui vivono questi sistemi di condivisione dei dati utili alle polizie e ai governi. AWS è l’appaltatore chiave nelle politiche del Dipartimento di Sicurezza Interna (compresa l’FBI) e complessivamente gestisce un portafoglio di tecnologia informatica (IT) pari 6,8 miliardi di dollari in servizi cloud (recentemente ha vinto anche l’appalto per i servizi cloud del Pentagono).

 

Amazon, ora la compagnia più ricca del pianeta, ha più autorizzazioni federali rispetto a qualsiasi altra società tecnologica: 204 autorizzazioni, rispetto a 150 di Microsoft, 31 di Salesforce e 27 di Google. Ha inoltre fatto largo uso di queste autorizzazioni, fornendo informazioni come database per il DHS (Department of Homeland Security) con i sistemi di gestione dell’immigrazione, con i dati biometrici per 230 milioni di identità uniche – per lo più impronte digitali, oltre a 36,5 milioni di firme e 2,8 milioni di scanner delle iridi. Il cloud Amazon svolge un ruolo fondamentale nel sistema di controllo dell’immigrazione del DHS. Ma il passaggio centrale del governo federale verso i servizi cloud è stato il risultato del cosiddetto cloud industrial complex: un partenariato pubblico-privato tra lobbisti dell’industria, dirigenti tecnologici, legislatori federali chiave e dirigenti tecnologici trasformati in funzionari governativi.

La DHS è emersa come un potenziale scrigno per i fornitori di cloud della Silicon Valley già alla fine del 2010, quando l’allora alto funzionario federale Vivek Kundra lanciò la politica Cloud First. Questa ha incoraggiato la contrattazione privata di 20 miliardi di dollari in servizi cloud attraverso il governo federale e ha proiettato il DHS, la sicurezza interna in particolare quindi, come il più grande cliente per l’acquisizione di servizi, con oltre $ 2,4 miliardi iniziali. La politica Cloud First del governo federale è stata un passo importante nella costruzione di quella che è diventato un “sistema di porte girevoli” per i fornitori di servizi cloud ai più alti livelli di governo. I membri del Congresso coinvolti nel partenariato pubblico-privato che hanno contribuito a codificare l’investimento federale nell’acquisizione dei servizi IT hanno ricevuto a testa oltre 250.000 dollari di contributi da Amazon e altre società tecnologiche che hanno poi ottenuto questi contratti di cloud computing. Si legge, sempre nel prezioso report, che entro i prossimi due anni, l’intero portafoglio IT di DHS, ricco di dati identificativi personali, vivrà nel cloud di Amazon. Il DHS ha inoltre già concesso contratti cloud multimilionari ad Adobe, Amazon, IBM, Oracle, Salesforce, Zoom e altre società della Silicon Valley. Probabilmente però la società di Bezos continuerà ad essere il principale fornitore, il che significa che sarà custode finale dei dati che consentiranno ulteriori detenzioni e deportazioni.

Così se dal report di Worth Rises si comprende la vastità dell’economia del controllo sociale, in questo secondo dossier, focalizzandosi sulle politiche contro i migranti, diventa evidente l’intreccio tra tecnologie invasive di controllo, potere finanziario e interessi politici tra tutti i principali attori del mercato digitale e il governo statunitense. Il timore condiviso dagli attivisti che hanno redatto entrambi gli studi però non si limita alla fotografia del presente. Più volte si ribadisce la preoccupazione che lo sviluppo di queste connessioni tra corporation hi-tech e governo oggi avvenga sulla popolazione migrante, dietro la retorica American First di Donald Trump, e un domani possa allargarsi a quelle comunità da decenni rinchiuse nelle carceri statunitensi. In altre parole l’impressione è che l’infrastruttura tecnologica possa diventare una tecnica di controllo dei poveri, delle marginalità, delle minoranze, e delle comunità storicamente discriminate. Viene da chiedersi se l’orizzonte a cui si tenda anche nel “paese delle libertà” non sia simile al Social Ranking System cinese spesso descritto come l’incarnazione contemporanea del Grande Fratello orwelliano. Se questo rimane per ora solo un futuro incubo distopico, il presente disvela pienamente sia l’ipocrisia dei liberal californiani, degli innovatori social, dei profeti della sharing economy, sia le retoriche xenofobe di Trump, così lontane a parole ma a braccetto nel fare profitti su detenzione, repressione e deportazione.