SPORT
Dentro e fuori La Bombonera, la Cappella Sistina del calcio
Una partita nel mitico stadio del Boca Juniors e uno sguardo sui suoi figli, sulle strade che lo circondano, sul Paese in cui si trova
San Pietro e il Golgota. La Mecca e Medina. La Bombonera e il Maracanà.
Per chi preferisce l’esperienza del rito collettivo alla messa pay per view. Per chi venera i miti che giocavano scalzi invece dei professionisti che pubblicizzano scarpe di marca. Per chi adora l’estro imprevedibile al posto della perfezione tattica. Per chi crede in un calcio molto sudamericano e poco inglese… per tutti quanti noi, i luoghi sacri che hanno alimentato le più devote fantasie si trovano sotto la linea dell’equatore, a Buenos Aires e Rio de Janeiro. Argentina e Brasile. Maradona e Pelè.
Domenica scorsa ne ho visitato uno.
Sorge nel cuore del quartiere La Boca: la bocca, lo sbocco del fiume Matanza-Riachuelo. Il corso d’acqua, che porta nel nome uno degli episodi del genocidio compiuto dagli europei, separa la Capital Federal dal Conurbano bonaerense. Almeno sulla carta. Perché qui tra centro e provincia non esiste soluzione di continuità edilizia, ma un’unica colata di cemento che avvolge le vite di 16 milioni di persone: oltre un terzo di tutti gli argentini.
Per lungo tempo, gli abitanti della Boca furono chiamati Xeneizes, spagnolizzazione di “zeneizi”, cioè genovesi. Era il barrio tano, il quartiere degli emigranti italiani che dalla fine del XIX secolo arrivavano in Argentina attraversando il mare. Costruivano case collettive di lamiera chiamate conventillos: ogni famiglia aveva la sua stanza e i servizi erano in comune. Le dipingevano con i resti delle vernici utilizzate per le navi: i colori non bastavano e i muri diventavano arcobaleni.
Nel 1882, durante un prolungato conflitto sindacale che aveva provocato vari scioperi, La Boca si dichiarò indipendente dall’Argentina, issando la bandiera genovese e inviando prontamente comunicazione al Re d’Italia Umberto I di Savoia. L’“indipendenza” durò meno di 24 ore: il giorno successivo il generale Alejo Julio Argentino Roca Paz marciò sul quartiere e strappò personalmente il vessillo con la croce rossa su sfondo bianco.
Oggi, La Boca è conosciuta in tutto il mondo per il suo Caminito, una strada pedonale punteggiata da costruzioni colorate che ospitano locali di tango e bar, ristoranti e negozi. Una riserva turistica riprodotta su tutte le guide che parlano della capitale argentina insieme all’avvertenza a non avventurarsi più in là. La patina della gentrification, infatti, non ha eliminato il rischio di furti e rapine prodotto dalla disuguaglianza economica. Locale e globale.
Le strade sono macchiate di giallo e di blu: i colori sociali del Boca Juniors. Il club, fondato il 3 aprile 1905 da sei giovani figli di italiani, avrebbe dovuto indossare una divisa tutta celeste, ma quella tinta era già utilizzata dal Nottingham Almagro. La disputa venne risolta all’antica, con una sfida calcistica: chi vince prende il colore del cielo. Il Boca perse e decise di far scegliere al mare, adottando i colori della prima nave che sarebbe entrata nel porto. Batteva bandiera svedese.
La casa della più famosa squadra argentina è la Bombonera. Un nome pieno di mito, in cui risuonano le gesta del giovane Maradona e quelle di una delle tifoserie più calde della terra. L’impianto fu costruito tra il 1938 e il 1940. L’équipe di architetti e ingegneri che ci lavorò aveva un mandato preciso: realizzare uno stadio vero e proprio, per uno dei club più importanti del campionato, lì dove c’era un campo modesto, con gli spalti ancora in legno.
La costruzione non poteva estendersi in orizzontale, perché i proprietari delle case adiacenti rifiutavano di trasferirsi o chiedevano cifre troppo alte per vendere. Per questo, il progetto puntò in un’altra direzione: le nuvole. Gli spalti vennero incollati al campo da gioco e impennati verso l’alto. Successe che l’architetto Viktor Sulčič appoggiò accanto al disegno una scatola di confetti e si accorse dell’incredibile somiglianza: lo stadio che aveva ideato era una Bombonera gialla e blu. Con forma di D.
Da un lato la tribuna, dritta e verticale come il busto di una nave, ospita in basso alcune file di posti a sedere e al centro e in alto i palchetti delle autorità. Tra questi, solo uno è di proprietà: regalo del club al pibe de oro. In mezzo alla tribuna, un grande orologio luminoso scandisce il passare del tempo. Segna 113 anni e poi mesi, giorni, ore, minuti e secondi. È il periodo che il Boca ha trascorso nella massima serie: in pratica, dal giorno della sua fondazione, unica tra le grandi argentine a non essere mai retrocessa.
Due torri sorvegliano i lati della tribuna. Ma è di fronte che bisogna rivolgere lo sguardo per vedere il capolavoro. L’arco che cirumnaviga il bastoncino della D è costituito da tre anelli di gradinate affacciati sul campo di gioco, in una pendenza vertiginosa. I settori più caldi sono le popular, le curve. Decorate ovunque con striscioni orizzontali e percorse perpendicolarmente dalle bande di stoffa gialloblù a cui sono appesi gli ultras, la barra brava.
Vedere una partita alla Bombonera è un’impresa. Lo stadio registra il tutto esaurito praticamente sempre. La società polisportiva del Boca Juniors, come le altre squadre argentine, è di proprietà dei suoi soci. Circa 200mila persone che hanno diritto a entrare alla cancha. I posti disponibili, però, sono solo 49mila. Di fatto, la vendita dei biglietti ai non soci è chiusa per la Liga ed esiste solo teoricamente per la Coppa Libertadores: i tagliandi finiscono prima che sia possibile comprarli.
In questa situazione, rimangono soltanto due strade per affacciarsi sul mito: supplicare un conoscente che ti presti la tessera, almeno per una domenica; cercare nei bar del quartiere un bagarino che ti venda l’entrata plastificata. Quando il campionato volge al termine e la squadra è in testa, però, entrambe queste possibilità si complicano parecchio: l’amicizia non basta più e le cifre richieste si moltiplicano esponenzialmente.
Proprio nel momento in cui l’impresa sembrava impossibile, una fortunata catena di eventi mi ha permesso di sbloccare la situazione.
Boca Juniors contro Newell’s Old Boy, ventiquattresima giornata di campionato. Domenica 22 aprile 2018. Ore 20. Nel buio della sera e di un cielo gravido di pioggia, la Bombonera emana una luce gialla e blu. Mi avvicino con in tasca un accredito stampa che ho avuto presentandomi come un giornalista sportivo italiano in visita a Buenos Aires. Il pass appeso al collo apre tutte le porte e i tornelli. Entro dal settore vip e mi tocca un seggiolino sopra i commentatori della radio. Parlano fitto nei microfoni che nascondono tra le mani, davanti ai fogli su cui hanno disegnato le formazioni in campo.
Alla mia sinistra, a pochi metri, c’è la doce, la curva del tifo organizzato. Nello stomaco di quel settore, per uno scherzo architettonico, si trova lo spogliatoio della squadra ospite. I tifosi si danno appuntamento ore prima dell’inizio della partita per dichiarare lo stato d’assedio ai calciatori rivali. Si dice che in quello spogliatoio sia impossibile comunicare a causa del rumore che viene dall’alto. Sulle gradinate, infatti, migliaia di corpi cantano, saltano, suonano i tamburi, muovono ritmicamente le braccia. La popular è un formicaio che non rimane fermo un secondo. Lo stadio è un corpo vivo che sussulta, si agita, ruggisce.
Quando partono i cori, il cemento armato trema. Quando il pubblico inizia a saltare, l’impianto oscilla. Quando il Boca segna, si ha l’impressione che stia per crollare tutto quanto. In curva uno tsunami umano si abbatte contro le recinzioni che si trovano a pochi centimetri dalla linea di fondo campo. Chi può si precipita a toccarle, chi già ci è vicino si arrampica verso la vetta. Nel resto dello stadio il boato è impressionante. Succede anche quando segnano gli avversari: i cori ripartono più forti, le mani sbattono più intensamente e muovono l’aria, spingendo la squadra.
Al terzo goal dei giocatori di casa, la Bombonera è una bolgia selvaggia: i tifosi sono in piedi in tutti i settori, festeggiano la pioggia e danzano completamente bagnati. Intorno, i fulmini colorano il cielo e i tuoni provano a fare rumore. Ma da qua non si sente.
Dei miti, si sa, si possono fare diversi usi. Sognarli in un campo di tufo o annusarli dentro uno stadio che ha il gusto di leggenda. Intrecciarli con le gesta rapide di un campione recente o con i movimenti lenti e tecnici di giocatori di un calcio che non c’è più. Oppure, si possono utilizzare per costruire carriere politiche e accumulare milioni. Nel Boca Juniors giocò Diego Armando Maradona, ma il club, più che al Napoli, assomiglia oggi alla Juventus o al Milan di Berlusconi, in un mix di potere sportivo e politico che arriva molto più in là del rettangolo verde.
Mauricio Macri è il Presidente della Nazione Argentina, capo di un governo in cui i manager delle principali società del Paese sono ministri o rivestono cariche altissime, responsabile di una macelleria sociale a colpi di tagli alla spesa pubblica e repressione militare. È nella società del Boca Juniors che inizia la sua carriera politica. Riveste il ruolo di Presidente, vincendo tre elezioni consecutive, dal 1995 al 2007. Colleziona accuse e denunce da calciatori, dirigenti e politici per reati di diverso tipo: corruzione, tangenti personali sugli affari del club, connessioni con i settori organizzati del tifo ultrà, irregolarità sportive. Sono gli anni di Carlos Bianchi, Juan Román Riquelme e Martín Palermo. Il Boca vince tutto, portando a casa sei tornei nazionali e dieci coppe continentali. Si aggiudica quattro edizioni della Coppa Libertadores – nel 2000, 2001, 2003 e 2007 – dopo un’astinenza durata 32 anni. In precedenza, aveva vinto il titolo solo nel 1977 e nel 1978.
Macri torna alla presidenza del Boca nel 2008, dopo che una sentenza della magistratura annulla l’elezione precedente. Questa scelta solleva critiche pesanti, perché nel frattempo il ricchissimo imprenditore è diventato sindaco di Buenos Aires. Carica che riveste per due mandati consecutivi vincendo le elezioni comunali nel 2007 e poi nel 2011. Il passo successivo nella scalata ai vertici del Paese è del 2015: a novembre viene eletto Presidente della Nazione, battendo il candidato Daniel Scioli e mettendo fine al kirchnerismo. Il voto inserisce l’Argentina nel ciclo politico reazionario che cancella i principali governi progressisti dell’America Latina e impone al Paese una gestione rigidamente neoliberale.
Oltre al caso più eclatante, anche altri pezzi della macchina e del mito del Boca Juniors concorrono ad affermare e consolidare il potere politico di Macri. Come Carlos Tevez, calciatore villero, nato nella provincia di Buenos Aires, in un quartiere poverissimo chiamato Barrio Ejército de los Andes, ma soprannominato Fuerte Apache. Tevez si solleva dalla sua condizione sociale giocando al fútbol, facendo incetta di coppe e campionati in Sud America e in Europa e incassando così milioni di dollari. Forse poco interessato a chi nella difficoltà economica c’è rimasto, però, il capitano del Boca difende in varie occasioni «el presidente más ganador de la historia del club». L’ultima a febbraio di quest’anno, proprio mentre la popolarità di Macri viene sfidata con un motivetto che dalle curve degli stadi invade strade, piazze, luoghi di ritrovo, mezzi di trasporto e pagine dei giornali, diventando una delle hit dell’estate dell’emisfero meridionale: MMLPQTP.
Un ruolo più esecutivo nella macchina di potere di Macri lo esercita Gustavo Arribas, avvocato transitato dal Boca agli apparati interni della macchina statale. Come descritto da Roberto Parrottino e Franco Ciancaglini nell’ultimo numero della rivista MU, le funzioni svolte dall’uomo all’interno della società sono rimaste sempre poco chiare, perfino per gli altri dirigenti. Tutti, però, lo chiamavano “cellulare”, dal prefisso degli apparecchi mobili della capitale argentina: 15, come la percentuale che Arribas pare intascasse sui trasferimenti dei calciatori. Tra club fantasma utilizzati come intermediari in questi movimenti e cessioni illustri che hanno attirato l’attenzione della magistratura – su tutte quella di Tevez al Corinthians – la carriera politico-sportiva di Arribas va avanti. Nel dicembre 2015, Mauricio Macri, vecchio amico con cui condivide una menzione speciale nei Panama Papers, lo nomina al vertice dell’AFI, l’Agenzia Federale di Intelligence. Arribas diventa il capo delle spie. Ad oggi, è l’uomo più ricco del governo.
Era molto povero, invece, Pablo Kucok. Povero e giovane. L’8 dicembre scorso aveva appena 18 anni. Quattro giorni dopo se n’è andato per sempre, dopo una lenta agonia in ospedale. Era stato colpito dalle pallottole di Luis Oscar Chocobar, poliziotto fuori servizio che lo ha inseguito e sparato alle spalle in seguito a una rapina con coltellate a un turista americano, tra via General José Garibaldi e via Olivarrìa. A due isolati dalla Bombonera.
Due mesi più tardi, Mauricio Macri ha incontrato quel poliziotto, abbracciandolo, ringraziandolo pubblicamente e garantendogli copertura legale. Veniva ufficializzata così la “dottrina Chocobar”: mano libera e sostegno alla polizia. In ogni caso. Meno di trenta giorni dopo, quella dottrina nata tra le strade di una Boca incolpevole ha provocato un’altra morte assurda, molti chilometri più a nord: Facundo Ferreira, 11 anni, sparato in testa dalla polizia durante un inseguimento in moto nella città di San Miguel de Tucumán.
Alcune volte per continuare a sognare bisogna chiudere gli occhi, altre occorre tenerli incollati dentro uno stadio, sulle gradinate e sul terreno di gioco. Perché da una scatola di confetti può venir fuori di tutto.
Ps: La partita è finita 3 a 1 per i padroni di casa, che sono andati a segno con Ramón Abila al 26′ e al 37′ e con Cristian Pavón al 58′. Per gli ospiti ha fatto goal Héctor Fertoli al 38′. Il Boca ha dominato l’incontro, realizzando dieci tiri, di cui cinque nello specchio della porta, contro i sette totali del Newell’s, che però ha avuto un maggior possesso di palla (56% contro 44%). Tre ammoniti tra i gialloblù e cinque tra i rossoneri. Grazie a questa vittoria, il Boca Juniors ha allungato sulla seconda in classifica, il Godoy Cruz di Mendoza, ipotecando lo scudetto: sei punti di vantaggio con tre partite ancora da giocare. Ma questa è un’altra storia…