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Dentro e contro l’Antropocene. Sfide per il post-operaismo
Sul rapporto tra pensiero post-operaista ed ecologia politica. Quali tendenze nell’arcipelago post-operaista offrono strumenti per orientarsi dentro e contro l’Antropocene? Come ripensare il lavoro vivo al tempo della messa al lavoro di forme di vita umane e non umane?
Nel romanzo New York 2140, lo scrittore di “climate fiction” Kim Stanley Robinson descrive una metropoli semi-sommersa, tagliata da canali e connessa da ponti sospesi tra grattacieli. Le inondazioni hanno diviso la città: la terra ferma all’estremo nord di Manhattan è occupata dalle élite; la parte di mezzo, trasformata in area litoranea, è in corso di ri-gentrificazione; downtown, in balia delle maree, è zona di rovine e povertà ma anche intensa sperimentazione eco-sociale. Il capitale finanziario, più aggressivo che mai, trasforma la fluttuazione delle acque in opportunità speculative. Eppure, il cambiamento climatico non segna la fine della storia ma l’inizio di un progetto politico che Robinson chiama “the comedy of the commons” (la commedia del comune). Che cosa significa inventare il comune nell’epoca che molti chiamano Antropocene (dall’impatto dell’antropos, la specie umana, sul sistema-Terra) e alcuni Capitalocene?
Lo stesso interrogativo agita l’ultimo numero di South Atlantic Quarterly, rivista diretta da Michael Hardt. Curato dai geografi Bruce Braun e Sara Nelson, il numero speciale di SAQ è dedicato al tema “Autonomia nell’Antropocene”. Tra i contributi troviamo nomi vicini all’arcipelago post-operaista, ad esempio Matteo Pasquinelli e l’americano Jason Read, e voci dissonanti come Isabelle Stengers ed Elizabeth Povinelli. La premessa è la seguente: la disseminazione di concetti post-operaisti (autonomia, lavoro vivo, moltitudine, comune) ha prodotto scambi e contaminazioni importanti a livello transnazionale, dalla Francia all’America Latina passando per gli Stati Uniti. Scambi e contaminazioni, tuttavia, generano anche sfide e spiazzamenti. Secondo Nelson e Braun il post-operaismo “è stato sorprendentemente lento nell’affrontare cambiamenti planetari e politica ambientale. Molti pensatori autonomisti si concentrano sul capitalismo cognitivo ma sottovalutano o ignorano del tutto le dimensioni ecologiche del post-fordismo” (Nelson e Braun 2017, p.224). Certo, ci sono alcune controtendenze. Si potrebbe rinviare alla critica che Maurizio Lazzarato volge al marxismo che pensa la costituzione del mondo come produzione (Lazzarato 2004). O, ancora, al recente lavoro di Veronica Gago e Sandro Mezzadra sull’estrattivismo espanso in America Latina (Gago e Mezzadra 2015). Ma si tratta di anomalie o ipotesi di lavoro. Il cambiamento climatico, le catastrofi ecologiche, i movimenti ecologisti sono spesso relegati nelle note di chiusura dei testi post-operaisti. Eppure, continuano Nelson e Braun, le prospettive post-operaiste potrebbero avere molto da offrire all’analisi di processi di valorizzazione che emergono da relazioni socio-ecologiche. Dovranno però fare i conti – e qui la sfida proposta – con ciò che finora è rimasto impensato: la rilevanza di processi geo-biologici nel lavoro contemporaneo, l’impossibilità di separare la specie umana da un milieugeologico ed ecologico che ne costituisce le condizioni di esistenza.
Questo breve testo interroga il post-operaismo a partire dalla lettura di alcuni articoli di SAQ. Si tratta di una lettura situata in genealogie femministe e post-coloniali, che mette a fuoco temi e questioni forse utili per proseguire la discussione in corso nella sezione Ecologia Politica di Effimera. Partiamo da alcune domande sollevate da SAQ. Quali tendenze nell’arcipelago post-operaista offrono strumenti per orientarsi dentro e contro l’Antropocene? Come ripensare il lavoro vivo al tempo della messa al lavoro di forme di vita umane e non umane? Come cambiano concetti e pratiche dell’autonomia nelle geografie tossiche delle economie estrattive?
Diversi saggi di SAQ riprendono le critiche femministe delle distinzioni gerarchiche tra società e natura, produzione e riproduzione. Nell’arcipelago post-operaista, le riflessioni di Silvia Federici e Maria Rosa Dalla Costa rimangono punti di riferimento importanti. Negli anni Settanta, queste studiose attiviste dimostravano la centralità del lavoro domestico e riproduttivo, reso invisibile e confinato nella sfera del privato, nel processo di accumulazione capitalista. Successivamente, la loro analisi si è espansa alla riproduzione socio-ecologica. Dalla Costa, in dialogo con le eco-femministe Maria Mies e Vandana Shiva, ha scritto di ecosistemi marini, del movimento dei pescatori e del collasso ecologico provocato dallo sfruttamento neoliberista di terre e mari (Dalla Costa 2005). Federici ha accennato al tema della dipendenza delle reti del lavoro cognitivo sulle ecologie non viventi che formano la base dei combustibili fossili (Federici 2012). In senso ampio, l’analisi femminista della riproduzione sociale offre fertili spunti di ricerca per pensare le dimensioni ecologiche del post-fordismo.
Un primo input riguarda l’attenzione a forme collettive della riproduzione (Federici 2012) che portano con sè una riorganizzazione radicale delle relazioni socio-naturali. In SAQ, questa è la strada battuta, almeno in parte, da Marco Armiero e Massimo De Angelis. Il punto di partenza, condiviso in ambito femminista e post-coloniale, è la critica all’universalismo dell’Antropocene, ovvero all’idea che la generica specie umana abbia determinato la catastrofe ecologica. Tale narrativa oscura relazioni di potere che, nell’arco della modernità, si sono articolate attraverso linee di classe, genere e razza, hanno creato stratificazioni interne all’umano e lasciato tracce profonde nei corpi di “soggetti subalterni” (Armiero e De Angelis, p. 347. A partire da questi corpi, che si incontrano in lotte situate, è possibile costruire relazioni socio-naturali alternative al capitalismo. Armiero e De Angelis indicano nella Rete Commons della Terra dei Fuochi, in Campania, un progetto che, attraverso la convergenza di corpi potenzialmente contaminati, ha trasformato l’opposizione a discariche e rifiuti tossici nell’invenzione di commons contaminanti che incorporano elementi di gestione collettiva della salute di corpi e territori.
Una seconda linea di ricerca estende l’analisi femminista dall’appropriazione del lavoro domestico non retribuito all’appropriazione capitalista della biosfera e di relazioni che coinvolgono attori umani e non umani. Questa è l’intuizione sviluppata da Jason Moore, autore molto citato in SAQ, secondo cui il capitalismo va colto come processo di sfruttamento del lavoro e, insieme, appropriazione di forze e risorse naturali (Moore 2015). Il contributo di Elizabeth Johnson assume questa prospettiva per interrogare il lavoro vivo al tempo della bio-economia (ambito indagato anche da Melinda Cooper e Catherine Waldby nel recente Biolavoro globale, 2015). Come è noto, Marx pensava il lavoro vivo come forza primaria attraverso cui gli esseri umani trasformano se stessi e il mondo.
Nella lettura operaista, il lavoro vivo è potenza della cooperazione che continuamente eccede le macchine di cattura del capitalismo. Se il post-operaismo guarda al lavoro vivo, pur riconoscendone gli elementi eterogenei, come essenzialmente umano, Johnson considera entità non umane (animali, piante e microorganismi) che, non da oggi, agiscono sul mondo, lo modificano e vengono messi al lavoro nei circuiti della produzione. In particolare, mostra come nella bio-economia (dalla bio-mimetica alla biologia sintetica, fino alla recente ricerca sui bio-sensori) l’estrazione di valore sia un processo che combina capitale cognitivo, innovazione tecnologica e capacità generative ed evolutive di esseri non umani.
Johnson propone di ridefinire il capitale cognitivo e la sua circolazione non solo a partire dal lavoro umano e le sue protesi tecnologiche ma attraverso “una maggiore attenzione ai modi in cui i processi generativi (e distruttivi) degli esseri viventi costituiscono la vita sociale” (Johnson 2017, p. 289).
Verso una riconfigurazione di ciò che conta come lavoro va anche Matteo Pasquinelli. La tecnosfera dell’Antropocene, sostiene, andrebbe indagata attraverso l’analisi integrata di energia e informazione, le due teste di una chimera bicefala che una volta animavano la fabbrica fordista e oggi innervano i circuiti della computazione planetaria. L’obiettivo è colmare un vuoto nel pensiero critico marxista, ovvero l’assenza di analisi delle imbricazioni tra capitalismo fossile, basato sullo sfruttamento intensivo di risorse energetiche e lavoro manuale, e il capitalismo cognitivo che estrae valore da codici, relazioni, e dati. Mutuando un classico concetto operaista, Pasquinelli afferma che “una nuova composizione politica di energia e informazione deve essere elaborata contro la composizione tecnica che le ha biforcate fin dall’era industriale” (Pasquinelli 2017, p. 318). Questo passaggio renderebbe possibile creare connessioni tra lotte centrate sull’energia (pensiamo al movimento per il disinvestimento da combustibili fossili e, più in generale, alle lotte per la giustizia climatica) e quelle centrate sull’informazione (dall’hacktivism al precariato digitale).
Il tema della trasversalità delle lotte emerge con forza anche nel testo di Isabelle Stengers, filosofa della scienza e della cosmopolitica. Stengers prende le distanze da diverse tendenze post-operaiste. Quella, ad esempio, che vede nell’intensificazione dell’attuale regime di produzione, caratterizzato dalla tendenza egemonica del lavoro cognitivo, semi potenziali di autonomia dal comando capitalista. O, ancora, la visione di Paolo Virno del comune come insieme delle facoltà comunicative e linguistiche che distinguono la specie umana dal resto dei viventi. Stengers, come Donna Haraway, si sottrae alla narrativa dell’Antropocene che vede in Homo sapiens (nozione su cui, peraltro, si inscrivono stratificazioni di genere e razziali) la causa e, simultaneamente, il rimedio alla catastrofe ecologica. Al discorso dell’Antropocene oppone l’immagine di Gaia, un assemblaggio di forze che compongono un sistema-Terra lontano dallo stato di equilibrio. L’intrusione di Gaia, entità impersonale e indifferente ai destini umani, pone un problema politico urgente: come vivere altrimenti? Come creare alternative alle relazioni di potere coloniali e capitaliste che hanno gettato le basi per l’Antropocene? Stengers non condivide l’idea, sostenuta tra gli altri da Toni Negri, che la crisi climatica è questione “subordinata alle politiche industriali, e affrontabile solo sulla base della critica ad esse” (Negri 2014). La sfida, invece, è articolare ecologia politica e critica dell’economia politica. Sulla scia di Felix Guattari, Stengers promuove politiche trasversali capace di connettere istanze ecologiste e anti-capitaliste. La filosofa belga cita i movimenti europei che hanno contestato il business dell’agricoltura geneticamente modificata come esempi efficaci di attivazione di reti di conoscenza e pratiche di resistenza dal basso. Ma, aggiungiamo, un altro esempio di politica trasversale sono le recenti proteste di Standing Rock contro la costruzione del Dakota Access Pipeline in territorio nativo-americano. Qui, la difesa indigena di un territorio vissuto come terra-corpo piuttosto che risorsa da appropriare, si è connessa alle lotte al livello delle infrastrutture e delle reti logistiche che organizzano la circolazione di materie prime, merci e persone.
Come cambia, chiede Stengers, il significato di autonomia, nelle rovine dell’Antropocene? Che cosa accade, aggiunge Elizabeth Povinelli, quando devastazione ecologica e tardo-liberismo rilasciano una “lenta violenza” [slow violence] (Nixon 2011) su modi di esistenza non definiti dall’immaginario dell’autonomia? Povinelli, antropologa e attivista del collettivo Karrabing Film Collective, comunità indigena del nord dell’Australia, “provincializza” autonomia e antagonismo a partire dal “modo di esistenza” di Karrabing. Costituito attraverso relazioni con corsi d’acqua, rocce, formazioni minerarie e fossili, il modo di esistenza indigeno è eroso dal perdurare dell’appropriazione coloniale, dallo sfruttamento minerario, e dalle tossicità che essi producono nel tempo. A partire dagli anni Settanta, la governance delle comunità indigene nel nord dell’Australia si è riconfigurata attraverso una politica del riconoscimento culturale che la lasciato intatti rapporti di sfruttamento ma ha permesso allo stato australiano di ripulire un’immagine nazionale macchiata dalla violenza coloniale. In anni recenti, tuttavia, i governi hanno trovato modo di riacquistare controllo (e aprire all’esplorazione mineraria) territori indigeni peraltro già usati come depositi di rifiuti tossici e siti di esperimenti atomici. Scrive Povinelli, “in questi spazi di assoluto saccheggio coloniale emerge una nuova forma di sovranità, una nuova forma di pura autonomia dallo stato e dal capitale, una autonomia tossica” (Povinelli 2017, p. 307). Nelle aree che stato e mercato hanno depredato e ora si lasciano alle spalle perché altamente tossiche, le comunità indigene sperimentano forme di “survivance”. Non di mera sopravvivenza ma di persistenza, “attivo senso di presenza”.
Provincializzare l’autonomia non implica certo rinunciare a ripensarne le forme. Investire nell’autonomia dentro e contro l’Antropocene significa, per tornare a Stengers, inventare modi di vita, commons, non associati “all’epifania dell’eccezionalismo umano” (Stengers 2017, p. 398). In questo senso, un dono del pensiero operaista (e post-operaista) rimane prezioso: l’insistenza a imparare dalle e nelle lotte.
Bibliografia
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Cooper M. e C. Waldby, 2015, Biolavoro globale, DeriveApprodi, Roma.
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Federici S. 2012, Il femminismo e la politica dei beni comuni, in DEP, 20.
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Lazzarato M., La politica dell’evento, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli.
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Pasquinelli M., 2017, The Automaton of the Anthropocene: on Carbosilicon Machines and Cyberfossil Capital, in “The South Atlantic Quarterly”, 116: 2, pp. 311-326.
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Stengers I., 2017, Autonomy and the Intrusion of Gaia, in “The South Atlantic Quarterly”, 116: 2, pp. 381-400.
Pubblicato su effimera