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Decolonizzare l’immaginario della crescita infinita

In occasione dell’uscita del volume “Decrescita. Vocabolario per una nuova era” a cura di D’Alisa, Demaria e Kallis, pubblichiamo l’introduzione al libro di Luciana Castellina.

Ma perché i sostenitori della decrescita hanno scelto un termine così disgraziato e impopolare, tale da prestarsi a così tanti equivoci e di apparire filosofia buona per chi ha già soddisfatto i propri bisogni essenziali, ma ignora i tantissimi che ancora reclamano maggiore produzione per sopravvivere? Non avrebbero potuto scegliere un’espressione più appropriata, positiva anziché negativa, come, per esempio, “altro modello di sviluppo”?

L’ostilità che incontra sempre la parola decrescita è a tutti nota. Ebbene, il primo merito di questo libro curato da D’Alisa, Demaria e Kallis (che raccoglie i contributi interdisciplinari di numerosissimi e autorevoli ricercatori) è proprio di aver difeso quella parola facendone capire il senso e lo scopo. Che vuole essere deliberatamente provocatorio, l’indicazione di una sovversione necessaria. Si tratta, infatti, di invertire una direzione secolare, di scontrarsi col senso comune, di “decolonizzare l’immaginario”, liberandolo dall’idea che l’umanità si è fatta del progresso. Un termine più malleabile non sarebbe bastato, occorreva proprio un pugno nello stomaco.

Debellare i miti è stato sempre difficile, e quello della crescita è uno dei più radicati. Convincere che l’abbondanza di beni non è di per sé progresso, che quanto occorre difendere non è la ricchezza ma la vita, è premessa per l’iniziazione alla decrescita.

A lungo gli ecologisti sono stati conquistati dalla parola d’ordine, che per un tempo è apparsa come un passo avanti: “lo sviluppo sostenibile”, espressione codificata già negli anni 80 quando la socialdemocratica ex primo ministro norvegese – Gro Harlem Brundtland – fu incaricata dall’ONU di redigere un rapporto: “Il nostro futuro comune”, che proprio quel concetto lanciò con grande successo. A tutti noi, in effetti, sembrò buona cosa. Capimmo solo più tardi che non era così. Ma a far comprendere che si trattava di un ossimoro in realtà non ci si è ancora riusciti. Tant’è vero che quell’espressione viene tranquillamente ripetuta in tutti i documenti ufficiali, anche di pur volenterose (e disarmate) conferenze sull’avvenire della Terra. Tutt’al più è possibile qualche finestra critica sul nostro opulento Occidente, che sì, si ammette talvolta, consuma troppo: ma nel sud del mondo, lì almeno, non si deve continuare a parlare di crescita?

No, non si deve. Perché sarebbe insensato spingere quelle regioni, già peraltro permeate dal mercato capitalista, a passare per un’esperienza storica quale noi abbiamo vissuto – la crescita – visto che ne abbiamo scoperto l’insensatezza, i guasti prodotti. Non è detto che la storia dell’umanità debba ripetersi tal quale, senza insegnare nulla a chi viene dopo. Il progresso non è affatto lineare e quello vero può, anzi spesso deve, saltare percorsi che paiono allettanti ma che alla lunga portano nel baratro. Serve dunque parlare di decrescita anche in quei territori per «liberare spazi concettuali» – scrivono i curatori – affinché i popoli che li abitano trovino «le loro traiettorie per definire quello che considerano una buona vita». E, con qualche ottimismo, citano l’esempio dei progetti “Buen vivir” in America latina, “Sumak Kawsai” in Ecuador, “Ubuntu” in Sud Africa, “Economia della Permanenza” in India.

Le grandi crisi sono spesso state nella storia l’occasione di una svolta: quando sono state accompagnate da una rivoluzione. In quella che stiamo vivendo dal 2008 non sembrano delinearsi né svolte né tantomeno rivoluzioni. È uno degli altri sintomi della pigrizia culturale di chi pure vorrebbe cambiare il mondo.

Se si guarda alla polemica sulle politiche di austerità imposte dalla Troika ci si rende conto che sia chi le applica, sia chi le contesta, resta sostanzialmente chiuso nello stesso schema: i sostenitori, i Bocconi Boys, le hanno imbellite con la dizione di “deflazioni espansive”; e gli oppositori le hanno ironicamente ribattezzate “castrazioni fecondative”. Tutti alludendo alla necessità della crescita, persino senza nemmeno aggiungere aggettivi. Hanno ragione i ricercatori che hanno scritto questo libro a sostenere che anche chi ha tentato di combattere l’austerità con il vecchio e pur, a suo tempo, glorioso keynesismo, come Krugman e molti altri economisti americani ed europei, ha predicato medicine del tutto inadeguate a curare gli attuali mali del mondo. «Ambedue – scrivono – non sono le soluzioni, sono il problema». Perché l’obiettivo che sia austerità sia deficit spending si propongono resta la ripresa della crescita. E invece, per difficile che sia, la sola alternativa reale è la decrescita.

Di sviluppo, come è noto, si è iniziato a parlare molto nell’immediato secondo dopoguerra quando si è messo mano all’ormai indifendibile colonialismo. Creandone uno di nuovo tipo, il neocolonialismo, di cui il mito dello sviluppo, l’ossessione della crescita – bandiera delle nuove istituzioni internazionali – sono state l’anima. Le colonie sono così diventate “paesi sottosviluppati” (una dizione che i funzionari della Banca Mondiale, più politically correct, hanno corretto in “paesi in via di sviluppo”, per eliminare il termine precedente che poteva anche dare l’impressione di un giudizio razziale).

Il senso dell’operazione è stato presto chiaro: imporre, attraverso una suasiva penetrazione, il sistema capitalista a regioni che avrebbero potuto scegliere altre vie per uscire dalla miseria nella quale il capitalismo stesso l’aveva lasciate. L’operazione fu chiamata “aggiustamento”: naturalmente del sud al nord e non, come avrebbe dovuto essere, del nord alle esigenze del sud. L’indebitamento, indotto attraverso operazioni simili a quelle dei pusher, è stato l’arma che li ha inchiodati alla subordinazione: vi prestiamo i soldi affinché possiate procurarvi i beni che abbiamo noi e che sono ciò che rende felici. Che vi renderà moderni. E noi avremo le chiavi del vostro futuro.

Pochi hanno cercato di resistere: i nuovi ceti compratori si sono incaricati di facilitare l’operazione, gli altri, la maggioranza, hanno dovuto frettolosamente abbandonare le loro tradizionali economie basate sull’autoconsumo, abituarsi a consumi che non rispondevano a bisogni primari ma solo a una conquista di status nella nuova gerarchia mercantile, mentre insoddisfatta restava la domanda di beni e servizi essenziali. Il problema non era che scegliessero la decrescita (non c’era molto da ridurre dopo secoli di sfruttamento coloniale), ma che non fossero obbligati a far coincidere “buen vivir” con spreco.

La decrescita non è, infatti, solo legata al drammatico esaurimento delle risorse naturali e ai catastrofici disastri climatici prodotti dall’abuso. Basterebbe questo a renderla indispensabile. Ma è necessaria anche per altre ragioni, ed è un pregio di questo libro avere reso esplicito che la crescita è anche socialmente insostenibile e non solo ecologicamente. Perché imprigiona la vita nel lavoro alienato, nega il rapporto con l’altro, inaridisce l’umano nella meschinità dell’individualismo e della competizione. Rende poveri. Nella sostanza.

Cosa è infatti se non condizione di povertà quella che patisce chi, pur sommerso dai mille inutili gadget e dalle merendine di cui sono stracolmi i supermarket, ha però la vita rovinata dal fatto che non sa come accudire il nonno che non è più autosufficiente, o un figlio malato, o è ferito dal dolore per non poter studiare, o è oppresso dall’affanno quotidiano che producono trasporti impossibili e un ambiente urbano altrettanto impossibile? E tutto questo perché la crescita comanda produzione continua e sempre maggiore di beni di consumo individuali giacché l’utilità viene misurata solo sul metro del profitto dell’impresa, che proprio questi beni alimentano.

Il mercato, superato il livello dei bisogni primari, non è più il rilevatore di bisogni reali e sempre più, invece, di quelli indotti dalla produzione stessa che esercita una vera dittatura sulla società, nella pretesa di essere lo strumento migliore a decidere cosa ci vuole per essere felici. Mentre, invece, determina infelicità infinita persino nei privilegiati: perché massacra i tempi di vita, altera i rapporti umani cui viene imposta una sfrenata competitività, perché logora il tessuto sociale e fa smarrire persino il senso dei valori collettivi per cui vale la pena di campare. Perché ha ridotto i cittadini a consumatori, le persone giudicate in base a quanto e cosa consumano. Perché recinta entro i protetti confini della proprietà privata ogni cosa che esiste al mondo e che alle origini era in comune.

Sento già dire: «Ma è il capitalismo, stupido!». Appunto. La decrescita – questo libro lo dice chiaramente – è contro il capitalismo. Perché il suo motore è la sempre crescente produzione di beni-merci, e, anzi, la mercificazione di ogni cosa. Per questo è del tutto illusorio pensare che si possa puntare sulla decrescita senza mettere in discussione questo sistema. Un green capitalism non può esistere.

Una posizione così radicale, come sappiamo, non è accettata da tutti i sostenitori della decrescita e fanno bene gli autori di uno degli scritti pubblicati – Andreucci e Mc Donough – a riconoscerlo. Aggiungendo però che «questo resta il compito intellettuale e di politica economica cruciale che gli studiosi e i militanti della decrescita non potranno eludere».

Così come, di converso, la sinistra anticapitalista non potrà eludere l’obiettivo della decrescita. Tema scomodo, che stenta a trovare consenso, e perciò viene evitato.

A lungo, in effetti, anche il movimento operaio è stato conquistato dall’arrogante ipotesi di una capacità illimitata dell’uomo di assoggettare la natura al proprio dominio, dal prometeismo della borghesia nascente convinta delle «magnifiche e progressive sorti» dell’industrialismo e perciò rimasto vittima di un miope economicismo. Ma non bisogna confondere il marxismo con il marxismo volgare e la sua pratica storica. Non voglio dire che Marx possa esser definito un “verde” ante litteram. E però vorrei si ricordassero molti passaggi dei Grundrisse e il suo sarcasmo nell’uso della parola “progresso” nei suoi riferimenti a Liebig nel I e nel III volume del Capitale («Ogni progresso nell’aumentare la fertilità della terra significa allo stesso tempo un passo in avanti nella distruzione delle risorse durevoli di questa fertilità»). Terra e lavoratore sono per lui «merci problematiche», che il capitale non può produrre: «È la natura la sorgente del valore d’uso (e in questo consiste la ricchezza effettiva)» – scrive. Così come «il lavoro che, a sua volta, è solo la manifestazione di una forza naturale, la forza umana del lavoro».

Lo stesso Marx ha dimostrato del resto di essere sensibile persino a un tema che i curatori indicano nelle loro conclusioni: non si deve sopprimere il piacere, anzi il lusso, come molti tristi burocrati del socialismo reale hanno finito per fare. Si tratta di cambiar segno alla spesa per il piacere, spostandola dalla fruizione di beni individuali a quelli comuni. Questa spesa collettiva a favore della collettività la chiamano “dépense”. L’obiettivo, in fondo, non è proprio quello indicato da Marx nell'”Ideologia tedesca”: creare un individuo totale, libero di dedicarsi alle attività più diverse, il «regno della libertà», che comincia «là dove finisce il lavoro determinato dalla necessità»? Giustamente Marcuse commentò proprio un passaggio dell'”Ideologia tedesca” – laddove Marx scrive «che quando cesserà l’equazione fra lavoro e lavoro salariato sarà possibile a ciascuno crescere i propri bambini, decorare la propria casa, far musica e ricevere amici» – dicendo, nel suo saggio sulla Liberazione, che «la dinamica della società contemporanea priva l’utopia del suo tradizionale contenuto irrealistico. Quello che chiamiamo utopico non è più qualcosa che non può accadere nell’universo storico, ma qualcosa che non può accader perché impedito dalle forze dominanti della nostra società». (Anche per questo nel ’68 fra le 3 M che venivano invocate nei cortei, oltre Mao c’erano Marx e Marcuse. Ma allora si era capito che la libertà vera ha le sue radici nei rapporti sociali di produzione e che per conquistarla sono questi a dover esser cambiati, non basta invocare diritti individuali).

Ho parlato di Marx perché all’inizio degli anni ’80, quando il movimento ecologista cominciò a muovere i suoi primi passi in Europa, quasi ovunque nascendo dalle fila della nuova sinistra, il senso anticapitalista di quella che per noi era una nuova problematica ci fu comunque chiaro. Coniammo per questo lo slogan: «Il verde è una componente indispensabile del rosso», così come il «rosso è una componente indispensabile del verde». Già prima, del resto, nei dibattiti sulle tendenze del neocapitalismo che impegnarono la sinistra in confronti anche aspri nel corso degli anni ’60, si era cominciato ad affermare che il progresso entro l’orizzonte capitalista si sarebbe rovesciato nel suo contrario. E il consumismo, la “società opulenta”, l’industrialismo furono al centro della riflessione che poi fu all’origine della contestazione sessantottina, o, almeno, della sua parte più avveduta. Che ha attaccato i due pilastri del sistema – la produzione destinata al profitto e all’accumulazione e la mercificazione dei rapporti sociali.

Poi, è vero, la ricchezza dell’elaborazione della sinistra, è andata impoverendosi e lo stesso ecologismo si è appiattito. Anche per questo il tema della decrescita ha faticato in questi anni ad imporsi, se non per frammenti. Questo libro aiuterà certamente a recuperare un pensiero e una pratica più complessivi, fornendo ai movimenti dati e riflessioni necessari ad un salto di qualità. In queste pagine si trova del resto una ricca documentazione su quanto già stanno facendo i movimenti nel campo dei beni comuni, delle attività di cura, dell’economia femminista, delle nuove pratiche di condivisione che si sono sviluppate soprattutto in rete a partire dalle intuizioni di Richard Stallman, di chi ha introdotto i creative commons e sperimentato l’economia del dono. (Anche se trovo un po’ ambigue le tesi di Yochai Benkler che ritiene possibile un capitalismo senza proprietà privata. Meglio i due famosi Stefen [Merten e Meretz], informatici tedeschi, animatori del gruppo Oekonux impegnato nella riflessione sulle implicazioni teoriche del software libero dal punto di vista delle scienze sociali. La loro ipotesi è che il software rappresenti una contraddizione in seno al capitalismo, un’anomalia. Che però avrebbe la capacità di germinare, attraverso una contaminazione virale, un diverso sistema: non dunque grazie al modello rivoluzionario leninista né al compromesso riformista).

In un tempo in cui la stessa definizione di “sinistra” appare sempre più controversa, la tematica di questo libro è davvero d’aiuto. Perché contribuisce a render chiaro che nel nostro tempo la sinistra deve definirsi per il fatto che essa non cerca modi nuovi per produrre con maggiore efficacia le stesse cose e per distribuirle con maggiore equità organizzando la produzione e il consumo allo stesso modo, ma cerca – al contrario – di utilizzare le nuove tecnologie per produrre cose diverse in modo diverso e, in primo luogo, un modo diverso di vivere.

Ce la faremo? Ghandi diceva – e questa frase ricordo che la ripeteva sempre Hermann Scheer, presidente di Eurosolar, grande combattente per le energie rinnovabili – «Prima ci ignorano, poi ridono di noi, poi ci combattono, alla fine vinciamo».

 

Articolo pubblicato in contemporanea sui siti DINAMOpress, Effimera e Global Project in vista del dibattito organizzato dal Ponte della Ghisolfa il 15 dicembre al Leoncavallo di Milano