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CULT
Dal crollo dell’overtourism a un’ecologia popolare
In un agile libretto Sarah Gainsforth (Oltre il turismo. Esiste un turismo sostenibile?, Eris, Torino 2020, pp. 64) narra la crisi per sovraccarico del settore del turismo in Italia e lo choc del suo blocco per Covid-19.
Il turismo lavora su effetti di nostalgia estraendone profitto. Io ho avuto la mia esperienza pseudo-autentica (la colazione combattendo con le api su un terrazzo nell’isola dentro un lago dentro un’isola – Mljet, dal nome greco originario Mélissa, ape; Mykonos con le case rischiarate ancora da lampade a petrolio, ecc.), mischiando paesaggi, altre stagioni, altre compagnie e naturalmente sono sedotto da video, foto, pieghevoli, spot che mi ripropongono illimitate esperienze “uniche”: un resort come viaggio iniziatico, una piramide maya nella giungla, una crociera se proprio mi prendono per stronzo. Il consumo turistico si nutre di ricordi alterati, oltre che di «daydreaming and anticipation». Nelle performance a uso turisti ma anche nel loro immaginario soggettivo va in scena sempre una staged authenticity. Rammemoro per esperienza autentica quanto oggi fa parte di un’offerta seriale “esperienziale”, pilastro di un’intera “economia delle esperienze” – non importa come fu davvero quell’evento, conta che oggi lo rievoco e lo racconto quale parte di un contesto programmato. Insomma, per dirla con J. Urry-J. Larsen (The Tourist Gaze 3.0, London 2011, p. 114), sono un perfetto post-turista che «knows he is a tourist and tourism is a series of games with multiple texts and no single, authentic tourist experience» [«sa bene di essere un turista e che il turismo è una serie di giochi a testo multiplo e non una singola autentica esperienza»].
Poi un giorno, di colpo, tutto il circuito turistico si dissolve, il cielo è sgombro di aerei, le navi da crociera servono da lazzaretto, contagio e quarantene forzate paralizzano la mobilità. Il turismo è diventato materia di rimpianto e tutto l’indotto che ci girava attorno sta alla fame. Fatevi una passeggiata nel Tridente a Roma e non vi dico neppure di avventurarvi nel centro di Firenze o fra le calli veneziane. Tanto meno nei paradisi tropicali o sugli spiaggioni tunisini.
Sarah Gainsforth divide quindi il suo libro fra questi due campi di indagine, diciamo su come si svagavano i dinosauri e cosa resta oggi dopo la caduta dell’asteroide.
Il Jurassic Park è esplorato nei primi cinque capitoli, che partono non a caso dai Paradisi perduti, ovvero da quei positional goods che l’overtourism del low cost e delle navi da crociera ha rapidamente trasformato in un inferno per gli abitanti e in una delusione per i visitatori – da Mljet, appunto, a Dubrovnik, Venezia, Barcellona. Almeno per quanto riguarda le città, l’invivibilità scatta quando il numero dei visitatori giornalieri supera quello dei residenti e a dare il colpo di grazia a questo squilibrio è la diffusione abnorme degli affitti brevi collegato alla diffusione virale degli Airbnb, che ha letteralmente “divorato” Londra e Firenze e suscitato energiche reazioni dalla nativa San Francisco a Barcellona e Parigi. Airbnb fa lievitare gli affitti nelle zone invase, ne espelle i residenti ed erode i tratti locali che le rendevano uniche, distruggendo il tessuto dei servizi che venivano prestati ai residenti e inventando una tipicità fasulla – la “pasta tricolore” che imperversa in tante vetrine dei centri storici italiani. Le città, già omologate dalla globalizzazione e dalla governance neoliberale, diventano, con il pretesto della “rigenerazione urbana” orientata al turismo, spazi gentrificati finalizzati a elevare la rendita fondiaria.
Dopo una rapida sintesi della storia e delle ideologie sul turismo – da Adorno e Debord al più recente G. Salerno passando per i classici Urry & Larsen, D’Eramo e McCannel, con la loro critica dell’«industria della nostalgia» – l’autrice analizza la metamorfosi mono-funzionale di alcune città e le strategie che le loro amministrazioni suicide adottano per promuovere l’afflusso di visitatori: dai “grandi eventi” (con conseguenti devastanti interventi edilizi e urbanistici) alla minuta organizzazione del marketing territoriale che mandano in fallimento le casse comunali, consumano suolo e desertificano gli stessi centri urbani che pretenderebbero di valorizzare.
Il turismo, infatti, «non è un settore a sé stante ma la somma di attività attinenti a diversi settori e comparti economici: servizi, trasporti, ristorazione, cultura, alloggio e via dicendo» e la “risorsa” o (per usare una nefasta espressione) il “giacimento culturale” «sono le città, i territori, i beni culturali, i monumenti, i musei, i siti archeologici e naturali, il patrimonio pubblico», da cui vengono ricavati i profitti: «L’economia del turismo è un’economia estrattiva, che estrae valore dalla risorsa» (Oltre il turismo, pp. 30-31). E i profitti vanno ai privati, non solo per le attività commerciali ma anche per le concessioni balneari o gli incassi dei musei.
Funziona il celebrato trickle-down di questa ricchezza privatizzata? Per nulla: abbiamo già detto dei deficit comunali, non compensati da imposte di soggiorno per lo più eluse, aggiungiamo che solo metà degli addetti al settore turistico è contrattualizzato e un quarto è formato da figure precarie (prestazioni occasionali, a chiamata, pseudo-partite Iva, “volontari”, ausiliari in nero) e anche la distribuzione territoriale è fortemente squilibrata, concentrandosi il 70% dei visitatori in sole quattro province. L’aumento dei costi rende negativo il bilancio: già nel 1997 Venezia, Firenze e Roma non ne traggono più alcun beneficio e le cose in seguito sono andate anche peggio. Senza considerare che, anche negli anni migliori, l’occupazione in quel settore era sostitutiva del declino di altri comparti a più alto valore aggiunto e con maggiori retribuzioni e che, peraltro, lo stesso valore aggiunto del turismo fra il 2010 e il 2015 era calato del 7,8%. In compenso restano al pubblico i costi ambientali e sociali, imputabili alla distruzione di ecosistemi naturali e allo stravolgimento di quelli urbani.
Tutto ciò fino alla caduta dell’asteroide, cioè all’esplosione della pandemia Covid-19 che ha paralizzato la mobilità estera e interna, azzerando i flussi turistici. Evento talmente imprevedibile che, nel capitolo conclusivo (pp. 234-235) della seconda edizione aggiornata al 2011 del citato The Tourist Gaze, gli autori avevano ipotizzato tre esiti: la prosecuzione del boom turistico con tutte le sue mostruosità, esemplificate dalle costruzioni energivore di Dubai, una crisi endogena in nome della sostenibilità locale e del ritorno a una scala di prossimità comunitaria, nutrizione a km zero, accorciamento delle catene di consumo e viaggio, infine uno scenario alla Mad Max 2 di collasso ecologico, esaurimento energetico e terrorismo diffuso – un nuovo medioevo barbarico che pone fine alla globalizzazione. Ebbene, le cose sono andate nel peggiore dei modi, ma in modo più fulmineo e meno fiammeggiante.
Al day after è dedicata la seconda parte del libro, che inizia con il sottotitolo deleuziano del paragrafo 5: Cosa può un virus. All’improvviso le città storiche hanno mostrato quanto si erano svuotate di abitanti e quanto fosse ridondante la proliferazione di negozi, abbeveratoi e mangiatoie per turisti stranieri e nazionali: Covid-19 ha fatto tornare il silenzio a Firenze e l’acqua limpida nei canali di Venezia, ha diminuito ovunque le emissioni di CO2, ma ha messo in luce tutte le diseguaglianze e le inefficienze prima occultate dal boom del turismo seriale. Gli abitanti dei luoghi, finito il maligno sortilegio che li aveva spinti ad abbandonare le attività produttive, si sono scoperti poveri. I lavoratori del settore in senso lato (dalle guide agli addetti a ristorazione, commercio e alberghi) sono state le prime vittime, licenziati in massa e spesso, per il carattere informale del loro rapporto di lavoro, senza compensazioni di quarantena. Poi è toccato al personale delle linee aeree e delle agenzie. La crisi economica generalizzata non incoraggerà una conversione green della produzione, certo non in Italia. C’è insomma il rischio che il “dopo” overtourism sia peggio del “prima”.
A riformularlo in termini positivi, il tema diventa quello di un turismo sostenibile alla luce di una pandemia che ha brutalmente fatto toccare con mano (magari senza essere percepiti dal cervello di amministratori e imprenditori del ramo) i limiti di un modello di crescita fragile, esterocentrato, diseguale e a volte autodistruttivo. Il punto non è come ”ricuperare” turisti o “spostarli” dai grandi centri artistici ai mitici “borghi” appenninici, come allentare ulteriormente i vincoli concedendo dehors e fioriere ai ristoranti (alla vigilia del lockdown della “seconda ondata”!) o Student Hotel a introvabili invasioni erasmiane e dottorali. È assurdo rilanciare questi obiettivi senza toccare un modello economico che ha distrutto il territorio della provincia e dequalificato il sistema accademico nazionale, è ridicolo un “soluzionismo” che non metta in discussione uno sviluppo tutto piegato sul consumo e sul taglio degli investimenti e del Welfare piuttosto che sulla produzione e l’incremento di sanità e servizi. Adesso si pretende che il borgo, irraggiungibile da servizi ospedalieri e ferrovie soppressi, svuotato di botteghe, negozi e abitanti diventi una Disneyland diffusa per turisti alla ricerca del giusto distanziamento e ventilazione oltre che del colore locale…Il petrolio del Mezzogiorno…
Per quanto emergano buoni propositi di privilegiare il “motore interno” rispetto ai vecchi difetti, non dimentichiamo di cosa sia lastricata la via per l’inferno. Un turismo “sostenibile” – una volta risolti i problemi non transitori che la pandemia ha suscitato su base mondiale – dovrebbe riorganizzarsi riducendo drasticamente, d’intesa con i tour operator, la concentrazione in poche città e in poche aree urbane di una stessa città, distribuendo il flusso turistico in base alla “capacità di carico” di città ormai saturate, che non reggono il traffico o lo smaltimento dei rifiuti, regolando gli affitti brevi che scacciano gli abitanti e le attività commerciali di cui fruiscono. Tanto per fare un esempio: limitare l’invadenza degli Airbnb è molto più efficiente che non piazzare tornelli all’ingresso di Venezia o Firenze.
Per affermare un’ecologia popolare – si conclude – è indispensabile ripensare tutta l’economia in chiave sostenibile. Non serve invece spostare la logica finora distruttiva delle città fuori dalle loro mura, invocare una ripresa bucolica della vita in campagna e nei paesi, realizzando così nient’altro che una gentrificazione a sprawl, la moltiplicazione degli spot sul Mulino Bianco e sulle filiere alimentari controllate che già imperversano in TV a consolazione degli ostaggi del lockdown urbano.
Un discorso realistico sulla sostenibilità non può che partire da una prospettiva di giustizia sociale e ambientale, da una prospettiva dove, per paradosso, non fa problema tanto il turismo quanto tutto il resto che non c’è. E ora dobbiamo far valere quel “sognare a occhi aperti” e quella capacità di “anticipazione” che un tempo, come accennavamo all’inizio, contrassegnava l’ingenuo sguardo turistico prima della pandemia.