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MONDO
Da sud a nord, altri orizzonti di lotta per la giustizia climatica
Cinque attivist3 in viaggio verso il Congresso Mondiale per la Giustizia Climatica di Milano hanno raccontato la loro lotta ecologista, intersezionale alle lotte indigene, anticoloniali, antirazziste, transfemministe che caratterizzano il continente americano
Domenica 8 ottobre è transitata per Roma la carovana “Da Sud a Nord – Voci per la giustizia climatica”, che accompagna cinque attivist3 american3 prima della loro partecipazione al World Congress for Climate Justice di Milano dal 12 al 15 ottobre. Quando parliamo di attivismo ecologista, nel nostro immaginario di persone che vivono in Europa nel 2023, pensiamo forse a Greta Thunberg, o ai ponti di Londra occupati da Extinction Rebellion. Eppure in altre parti di mondo queste forme di attivismo, esplose negli ultimi 5 anni, non sono diventate di massa e a volte non hanno per nulla attecchito.
Il continente americano, pur nelle pur molteplici diversità economiche, sociali e culturali che lo caratterizzano, è sicuramente tra queste zone di mondo. Una delle ragioni è l’intreccio tra quelle che definiamo lotte ecologiste con lotte indigene, lotte per la liberazione nera, anticoloniali, antirazziste e antipoliziesche. Questa storia ha da sempre caratterizzato il continente in risposta alla conquista, allo sterminio e al perpetuo sfruttamento delle popolazioni native, allo schiavismo e alla razzializzazione, allo sfruttamento indiscriminato di territori ricchissimi di risorse ma anche di comunità profondamente radicate.
Alcuni di questi tratti del continente americano sono sicuramente emersi nei racconti e nelle testimonianze che l3 attivist3 hanno condiviso con le persone presenti in una domenica pomeriggio ancora assolata e calda, al lago Bullicante dell’Ex Snia. Tra i tanti fili conduttori delle loro storie vi è il legame con la difesa del territorio, con genealogie di resistenze indigene, ma pure la connessione profonda con le lotte per la difesa dei propri corpi e della loro autodeterminazione, contro ogni forma di violenza patriarcale ed estrattivista.
L., attivista dall’Honduras, si presenta così: «Sono una persona afroindigena, trans, non binaria. Vengo dal popolo Lenca, che è sempre stato dimenticato e disprezzato dallo stato coloniale e che ha alzato la testa grazie alla compagna Berta Cáceres. Dal 2009 al 2021 abbiamo vissuto dodici anni di crisi politica profonda determinata dalla dittatura dell’estrema destra di Juan Orlando Hernández, ora in carcere per narcotraffico negli Stati Uniti. In quegli anni sono statə criminalizzatə, costrettə ad abbandonare la mia terra, e ho dovuto resistere. L’Honduras è tra i paesi più pericolosi dell’America Latina per chi difende la terra e i diritti umani. La violenza è aumentata esponenzialmente durante i due anni di pandemia. La repressione poliziesca ci impediva anche di svolgere attività di mutualismo per le persone che erano in difficoltà. La polizia utilizzava il discorso della lotta alla droga per perseguire persone giovani attiviste, afroindigene, o povere.
La mia organizzazione si chiama “de Pueblos y Barrio”. Fin dall’inizio abbiamo alzato la voce mettendo in discussione il movimento sociale in quanto patriarcale machista ed eteronormativo. Il movimento è pronto a mettere le persone giovani in prima linea negli scontri in piazza però poi le tiene al margine delle assemblee. Noi invece siamo donne, persone della diversità sessuale, dissidenti del genere, afroindigene, e siamo tutto questo assieme perché la nostra resistenza si compone di attività molteplici di difesa del corpo e del territorio. Rifiutiamo la narrativa per cui la nostra diversità sia motivo di inferiorità o qualcosa che ci divide. All’interno di questa visione della lotta abbiamo una posizione di zero tolleranza nei confronti della violenza. Non condividiamo la narrazione per cui bisogna evitare di parlare di violenza di genere perché divide il movimento. Non salveremo noi il mondo tenendo il movimento unito, faremo invece la parte che ci corrisponde e vogliamo che sia una lotta vitale».
Cosa caratterizza la vostra lotta ecologista?
«Lavoriamo in 4 comunità indigene per proteggere una foresta originaria. Lottiamo soprattutto contro la monocoltura del caffè, che fa grande utilizzo di acqua, utilizza pesticidi chimici e consuma le foreste circostanti. Stiamo ripristinando modalità di coltivazione tradizionale, con concimi naturali. Attraverso di reti solidali e di processi di filiera corta cerchiamo di vendere i prodotti direttamente al consumatore. Oltre a questo facciamo un lavoro specifico contro i rifiuti informatici. Non compriamo nulla e cerchiamo di recuperare e rigenerare telefoni e televisori. Sappiamo i danni enormi che creano le miniere di metalli per uso informatico e tecnologico, ce ne sono già parecchie in Honduras. Vogliamo fermare questo processo».
Come raccontate la vostra battaglia?
«Abbiamo una cabina registrazione e possiamo comunicare tramite la radio “Sembrando Rebeldia”. Inoltre, contribuiamo alla radio digitale “Dissonanza radio” con un programma in cui parliamo delle nostre lotte, transfemministe, antispeciste, contro l’omolesbotransfobia, contro la grassofobia e altri temi simili. Facciamo anche laboratori artistici grazie ai quali molta gente da fuori viene a visitare la nostra comunità».
M., di “SOS Cenote”, ci racconta invece della lotta che stanno portando avanti nello stato messicano dello Yúcatan contro il Tren Maya. «In realtà non c’entra nulla coi treni, è chiamato erroneamente treno Maya. Il progetto si colloca in una area lunga 1500km. Si tratta di un’opera mastodontica: un corridoio industriale che porta con sé infrastrutture, logistica, fabbriche, resort per sfruttamento turistico e monocoltivazioni con uso di pesticidi. Questi elementi esistono già nella zona, ma non con la densità e impatto che il progetto pianifica. Stiamo cercando di costruire una resistenza anche a partire dalle meraviglie dello Yúcatan, come i famosi cenotes, ossia corsi di acqua limpida sotterranei presenti in caverne di natura carsica. Proviamo a difenderli per difendere il territorio da questo progetto devastante»
Ma il Tren Maya non è l’unico grande progetto che ha in mente il governo di Amlo. Racconta la sua storia anche M. che è della “Asamblea de Pueblos del Istmo en Defensa de la Tierra y del Territorio” dell’Istmo di Tehuantepec, ossia il punto più stretto del Messico, bagnato dal Golfo del Messico e dall’Oceano Pacifico. «Nella nostra zona i venti soffiano a 180 chilometri all’ora e sono stati costruiti 29 parchi eolici da aziende straniere, molte di esse spagnole, ma anche Enel è presente nel terreno. Tutte queste aziende non producono energia per chi vive nell’istmo, ma per fabbriche di cemento, della Coca Cola e altre industrie inquinanti dove si sfrutta la manodopera indigena e migrante, vista la presenza di chi è in cammino nella rotta verso il confine con gli Usa. Paradossalmente il costo dell’energia elettrica per la popolazione locale è tra i più alti del Messico. Amlo [l’acronimo del Presidente del Messico, ndr] qui vuole costruire un mega corridoio logistico con 12 poli di sviluppo industriale. Si punta a sfruttare la zona proprio per il suo collegamento strategico tra i due mari. La nostra comunità, Puente Madera, sta resistendo contro queste infrastrutture e per questo ci sono 16 mandati di cattura contro attivist3 del luogo.
Bisogna ricordare che chi controlla la rotta dei migranti ma anche le imprese eoliche fa parte del crimine organizzato che gode di protezione di esercito e Guardia Nazionale, perché il progetto è ritenuto di interesse nazionale. Quando parliamo di giustizia climatica bisogna parlare anche di contesti come questi, in cui il capitalismo, a volte anche travestito di verde come in questo caso, agisce nel modo più feroce contro la vita di chi vive nei territori. La lotta per la vita e la giustizia ci rende sorelle e ci fa sentire vicino a voi. Chi lotta contro la crisi ambientale e per difendere e proteggere i territori sta lottando per la vita e contro la morte».
Defend Atlanta Forest – Stop Cop City
Partecipano al dibattito anche A. e R. del movimento Defend Atlanta Forest – Stop Cop City. Il movimento nasce in difesa della foresta che circonda la città di Atlanta, oggetto di due mega progetti: dei mastodontici studios cinematografici (i più grandi degli Stati Uniti) e un’immensa città interamente dedicata all’addestramento della polizia. Ma perché proprio ad Atlanta? A. racconta che «durante l’insurrezione a seguito dell’assassinio di George Floyd un uomo nero appartenente alla working class, le proteste ad Atlanta furono immense. Un mese dopo l’assassinio di Floyd, Rayshard Brooks, un altro uomo nero di classe operaia, fu ucciso ad Atlanta e l’insurrezione continuò con maggior vigore. Lo Stato si rese conto che non riusciva a contenere le rivolte in questa città e perciò aveva bisogno di maggiori infrastrutture, da lì l’idea della Cop City. Iniziò così la resistenza della foresta, attraverso un movimento decentralizzato e autonomo, che si è manifestato in tantissime forme diverse, dalle campagne per il boicottaggio, alle settimane di azione in tutto il paese, facendosi ispirare dal movimento No Tav, alla pressione contro le aziende che finanziavano i lavori fino a un “camp” di resistenza sugli alberi della foresta. Il movimento, composto da persone provenienti da tutti gli Stati Uniti, è stato in costante simbiosi con la città, così come la città di Atlanta è in simbiosi con la foresta, che la circonda e si sviluppa anche al suo interno. Il quartiere popolare abitato da afrodiscendenti, uno dei centri del movimento, è anche il più prossimo alla foresta stessa».
A seguito della mobilitazione su diversi fronti, il movimento ha riportato anche delle vittorie seppur parziali: la costruzione della Cop City è stata rimandata di un anno grazie alla resistenza nella foresta e due aziende hanno cancellato il loro contratto per la costruzione.
«Fino al dicembre 2022 è continuata l’occupazione dentro la foresta. Poi la violenza contro il movimento è aumentata. Sei persone sono state accusate di terrorismo domestico e una persona venezolana/statunitense, Tortuguita, è stata uccisa durante un raid. A seguito dell’omicidio, ci sono stati vari sgomberi seguiti da molti tentativi di riprendersi la foresta. Altre 42 persone sono state accusate di terrorismo domestico e la repressione è continuata fino a oggi, quando 100 ettari di foresta sono stati già distrutti e non c’è più un camp.
Il movimento però è stato potente, perché è riuscito a esprimere una sinergia tra lotta antirazzista, lotta antipoliziesca, lotta per la liberazione nera, lotta indigena, lotta ecologista e anticolonialista. Siamo riuscite a fare emergere il problema di fondo, cioè che la violenza della polizia non è una sovrastruttura, ma è una componente strutturale di ogni forma di oppressione perché è quella che difende il sistema contro cui lottiamo e gli permette di perpetuarsi. Lottare contro la polizia è lottare contro il sistema. Le connessioni che si sono create qui andranno anche molto oltre la foresta di Atlanta».
Altra peculiarità che rende interessante il movimento è la sua organizzazione fortemente de-centralizzata. «Le pratiche utilizzate hanno permesso che il dialogo fosse sempre intenso e il movimento di conseguenza. Ci siamo impegnat3 perché la differenza tra diversi gruppi politici fosse più sfumata grazie al confrontarsi continuo. Siamo state sempre pront3 ad affrontare il conflitto tra di noi e a riconoscere l’umanità l’uno dell’altro. Al tempo stesso abbiamo evitato sin dall’inizio di essere un movimento centralizzato e abbiamo sperimentato una varietà di pratiche di lotta, cercando di comporle di modo che fossero un valore aggiunto e non un motivo di conflitto interno».
Abbiamo chiesto alle compagne centro-americane cosa significa essere opposizione nei loro territori ora che il governo è di centro-sinistra in Messico e Honduras.
M.: «La sfida è difficile, perché molte persone prive di strumenti critici ascoltano ogni mattina per due ore il presidente e si bevono quello che dice. Lui in questi momenti attacca pubblicamente gruppi e movimenti chiamandoli “conservatori di sinistra”, c’è una criminalizzazione in atto molto forte e diventa più difficile trovare spazi per lottare».
M. «In Yúcatan poi è ancora più arduo perché è uno stato con una lunga tradizione di lotta che però negli ultimi anni si è indebolita a causa dei programmi sociali dei governi di centro-sinistra. Sono riusciti a far passare l’idea che il treno maya è un qualcosa di sostenibile e, addirittura, nell’ottica della giustizia sociale. Il modello turistico in cui siamo intrappolati è difficile da sconfiggere».
L.: «In Honduras abbiamo avuto i militari fino al 1982. Dal 1982 a oggi l’alternanza di due partiti, quello liberale e quello di ultra-destra. Per 12 anni abbiamo avuto la narcodittatura di Juan Orlando Hernández, con leggi fasciste, repressione e carovane di migranti che partivano per gli Stati Uniti. Al momento abbiamo al potere la sinistra democratica, che però ha emesso decreti di emergenza e ha interrotto le garanzie costituzionali e in generale sta imponendo sistemi di controllo e gestione dello spazio gerarchici e militarizzati anche contro gli attivist3 di sinistra, bisogna continuare la lotta».
Immagine di copertina di Felton Devis