ITALIA
Da Gelmini a Bernini: la distruzione dell’università pubblica, atto secondo
Dopo la brevissima parentesi post-Covid, la destra al Governo torna a colpire l’Università pubblica, con tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario più o meno pari a quelli di Berlusconi-Gelmini del 2008. Con una differenza fondamentale: all’epoca i precari erano 12.000, oggi sono 40.000
La scure dei tagli lineari ai Ministeri previsti dalla prossima Legge di bilancio si abbatterà con particolare violenza sull’Università. D’altronde, la continuità tra il Governo Meloni e i precedenti Berlusconi è molto forte, quanto meno dal punto di vista delle politiche economiche e della svalutazione del sapere, della ricerca, della cultura. Meglio sarebbe dire, dal punto di vista del rancore (in questo caso ancora più grossolano, cafone e retrogrado) nei confronti delle istituzioni pubbliche dell’istruzione e della formazione.
Tra il 2009 e il 2013 Tremonti-Gelmini-Berlusconi tagliarono circa 1,5 miliardi al Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) degli atenei.
Il che fece seguito al generale processo di dequalificazione del sistema della ricerca e dell’alta formazione avviato con la Riforma Zecchino-Berlinguer del 1999: istituzione del 3+2 (laurea triennale + laurea magistrale), sistema dei crediti, parcellizzazione degli esami, liceizzazione dell’università, infantilizzazione delle e degli studenti, abbassamento del livello di qualificazione anche della forza-lavoro in uscita dalle università, maggiore ricattabilità della stessa in un mercato del lavoro che offre poco e niente alle e ai laureati (soprattutto a quelle/i delle discipline umanistico-sociali). Nel 2008, anno della legge n. 133 che sancì l’immane taglio all’FFO sopra menzionato, erano circa 12.000 le ricercatrici/i ricercatori e i docenti precari dell’università. Da allora, molte e molti sono andati via, all’estero, alla ricerca di un riconoscimento economico, contrattuale e simbolico migliore. Nell’ultimo decennio, circa 15.000 sono i cervelli fuggiti. D’altronde, per avere giusto dei termini di paragone, l’Italia spende in ricerca e sviluppo meno di un terzo rispetto alla Germania e si colloca agli ultimi posti in Europa nella percentuale degli occupati che hanno un titolo di studio universitario (si veda il documento presentato dalle Società scientifiche presso la Conferenza dei rettori lo scorso 25 novembre).
Allora le e i precari erano 12.000 e da allora al 2022 sono andate perse 20.000 posizioni strutturate. Oggi, i precari sono circa 40.000. 20.000 gli assegnisti di ricerca, 9.000 ricercatori di tipo A; e le due categorie insieme compongono pressappoco il 40% del personale docente e ricerca.
Ma andrebbero considerati anche le e i docenti a contratto, docenti a tutti gli effetti ma con contratti di tipo schiavile e senza alcuna tutela (per intenderci, al/alla docente a contratto, non solo non è riconosciuto alcun diritto proprio del contratto di lavoro subordinato, ma viene corrisposto il pagamento delle sole ore di insegnamento, non vengono cioè pagate quelle, tante, utilizzate per preparare un corso, né quelle dei ricevimenti, degli esami, delle tesi; pagamento, che può andare da un minimo di 25 euro orari lordi a un massimo di 50 euro orari lordi). Le e i docenti a contratto nelle università italiane sono circa 30.000. Immaginatevi cosa possa voler dire, per esempio – esempio che dovrebbe però essere caro al nostro Presidente del Consiglio Giorgia Meloni –, affrontare una maternità per una ricercatrice precaria; è davvero libera di scegliere?
Fissati i numeri di chi lavora precariamente all’università, torniamo a quelli dei tagli. Nel 2024, il Fondo di Finanziamento Ordinario ha visto decurtati 173 milioni; tanto che non tutti gli atenei sono riusciti ad assicurare la copertura per l’aumento degli stipendi per il recupero dell’inflazione ISTAT. Aumento, lo sottolineiamo, peraltro irrisorio: +4,8%, a fronte di un’inflazione, nel triennio 2021-2023, del 13%. Gli atenei che sono riusciti ad assicurarlo, lo hanno fatto sottraendo risorse necessarie – si stima almeno 340 milioni – per il reclutamento straordinario previste dalla legge n. 234 del 2021. Dunque, oltre 500 milioni in meno. Non contenti evidentemente, la nuova triade Giorgetti-Bernini-Meloni propone adesso, attraverso la Legge di Bilancio, la seguente ricetta per il prossimo triennio: tagli di 247 milioni di euro nel 2025, di 239 milioni nel 2026 e di 216 milioni nel 2027.
Si tratta di una riduzione cumulativa, dunque il Fondo di Finanziamento Ordinario degli atenei perderà circa 700 milioni in tre anni. Se li sommiamo ai 500 del 2024, in quattro anni 1,3 miliardi saranno sottratti all’università.
Un taglio quasi pari a quello della legge n. 133 del 2008, soltanto che la platea di precari e precarie è oggi ben più ampia di allora (ripetiamo: ieri 12.000, oggi 40.000 precari). Inoltre, la stessa Legge di Bilancio 2025 prevede un limite al 75% rispetto alla spesa precedente del rinnovo del turnover, mentre il DDL 1240 introduce nuovamente una molteplicità di figure precarie nella fase del cosiddetto “pre-ruolo” (superando la legge 79/2022, che ha incontrato grandi limitazioni applicative per mancanza di copertura economica, appunto): assistenti di ricerca senior e junior, contrattisti post-doc, ricercatore a tempo determinato in tenure track (RTT), contratto di ricerca, liberalizzazione dei professori aggiunti.
Il Ministro Giorgetti, durante le audizioni alla Camera, ha parlato di «un ritorno alla normalità» commentando questi tagli e misure che si apprestano a introdurre. Una “normalità”, a suo dire, da ripristinare dopo l’abbondanza dei fondi del PNRR. Peccato che si sia trattato di fondi aggiuntivi, ossia, di una erogazione una tantum e non di uno stanziamento strutturale al Fondo di Finanziamento Ordinario. E peccato, ancora, che proprio il PNRR abbia creato un’ulteriore bolla di precarietà dentro le università: trattandosi di fondi straordinari, senza continuità, la continuità il più delle volte non è prevista neppure per i tanti dottorati, assegni e contratti di ricerca di tipo A che sono stati accesi.
A questo scenario si aggiungano invece le agevolazioni previste per le università telematiche (e-Campus, Niccolò Cusano, Pegaso, Guglielmo Marconi, ecc.): privatizzare e dequalificare, come col Sistema Sanitario Nazionale, questo il programma.
Scioperiamo allora il 29 novembre per rifiutare questa “normalità”, perché lavoro precario, lavoro povero, lavoro discriminato, lavoro gratuito, lavoro mortificato non possono essere la normalità!
Tante assemblee stanno nascendo negli atenei e nei dipartimenti, le Società scientifiche hanno espresso le proprie preoccupazioni durante l’ultima seduta presso la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane. È giunto il momento di tornare ad alzare la testa, di chiedere con forza il rifinanziamento del Fondo di Finanziamento Ordinario, di chiedere un piano di reclutamento straordinario, di scongiurare il ritorno caotico della moltiplicazione dei contratti precari; bisogna pretendere tutele e diritti per tutte e tutti – dalla maternità e paternità all’accesso agli ammortizzatori sociali e a un welfare che sia davvero universale –, salari degni e anche, e non da ultimo, un’università e una ricerca pubbliche, laiche, di qualità, che ripudino guerra e violenza.
L’immagine di copertina è di Vittorio Giannitelli
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