MONDO

Cuba: medici, interferone e solidarietà

Nessun governo al mondo ha investito risorse umane, economiche e tecnologiche nello studio degli interferoni quanto Cuba ed ecco perché adesso l’isola si trova all’avanguardia nel trattamento del Covid-19.

La caricatura che le destre europee, nordamericane e latino-americane fanno di Cuba è, per dirla come la riporta Ben Burgis, quella di un «inferno totalitario». Questa definizione è condivisa anche una parte non trascurabile del progressismo più vergognoso (o senza vergogna, a seconda del punto di vista) che, per ignoranza od omissione volontaria, non parla di Cuba nei termini in cui bisognerebbe farlo.

Tuttavia, una ferma convinzione di solidarietà e umanità attraversa tutti gli strati culturali del paese e i progressi nell’assistenza sociale, economica e sanitaria sembrano fuori dal mondo, se si tiene conto delle limitazioni che deve sopportare. Queste limitazioni sono nominate così tante volte che ci si potrebbe quasi scrivere un libro. Ma al contrario, per non farla diventare consuetudine, è necessario smettere di tirare in ballo il blocco economico di cui l’isola soffre da sei decenni, perché esiste il rischio di confondere la persistenza con la normalità. L’handicap che l’embargo comporta per l’economia cubana è soverchiante e ometterlo come elemento è un gesto scortese.

La rivoluzione dell’interferone

La rivoluzione cubana si è messa al timone di un paese distrutto e lo ha trasformato in uno di cui è un piacere cantarne, come intonava Carlos Puebla. Suonare il bolero [genere musicale con radici spagnole, reinventato nei paesi latinoamericani della zona caraibica – ndt], per non perdere la genialità. Come potremmo non farlo proprio nella terra dei boleri? Possiamo sentirne il ritmo anche soltanto pensando alle strade de La Avana. Il fatto è che la musica popolare è lo specchio più fedele dello stato d’animo delle nazioni e, nella pratica, l’evocazione di Cuba ha questi boleri come colonna sonora. 

Antonio Machín e le altre icone del bolero hanno cantato quasi di tutto. L’amore, la patria, la rivoluzione… ma devono ancora un bolero a un grande simbolo della rivoluzione cubana: l’interferone.

Da quando il paese ha dovuto combattere la dengue negli anni Ottanta, ha approfondito lo studio e l’uso di diversi interferoni, rendendo la propria industria leader in questo campo, incorniciata da un sistema sanitario profondamente avanzato che dispone di un gran numero di professionisti, dai medici e infermieri fino agli scienziati e ai produttori.

Questi interferoni sono stati utilizzati anche nei trattamenti contro l’epatite B e C, la congiuntivite emorragica o varie malattie cancerogene. Quasi quarant’anni di approfondimento dello studio e dell’uso di questa affascinante proteina.

Ma cosa fanno gli interferoni? In realtà, diverse cose. In ultima istanza agiscono come una specie di messaggero, attivando il sistema immunitario e avvisando le cellule sane dell’esistenza di una minaccia, oltre che spingere il corpo a uccidere le cellule infette. La sua ricerca è così avanzata che l’interferone antivirale cubano Alfa-2B è stato uno dei principali strumenti per combattere il Covid19 in Cina.

Ovviamente, è stato utilizzato anche nella stessa Cuba e in maniera più efficace visto che l’isola ha un numero di medici per abitante quasi cinque volte quello della Cina (8,2 contro 1,8). Ci sono grandi aspettative per questo interferone e per il suo potenziale di applicazione in altri paesi colpiti dalla pandemia.

Quindici paesi hanno già richiesto a Cuba forniture di questo antivirale che si è dimostrato, in attesa di ulteriori conferme nel corso delle settimane, come un potente strumento nella lotta contro il virus. In particolare, l’Interferone Alpha-2B aiuta i pazienti potenzialmente a rischio a non raggiungere la fase critica in cui potrebbero perdere la vita. In questo modo, non solo si eviterebbero direttamente i decessi grazie al trattamento con l’interferone, ma si ridurrebbero le dimensioni del collasso delle terapie intensive nazionali.

Nessun governo al mondo ha puntato sulla biotecnologia tanto quanto quello cubano. Non hanno investito risorse umane, economiche e tecnologiche nello studio degli interferoni come ha fatto Cuba, ecco perché adesso l’isola si trova all’avanguardia in questi tempi bui. In realtà, Cuba non ha una soluzione magica, né tanto meno una sorta di vaccino. Ma dispone, né più né meno, di uno strumento utile per il trattamento del suddetto virus, che non è cosa da poco.

Internazionalismo tangibile

Cuba non contribuisce alla lotta globale contro questa perversa catena di RNA che sta distruggendo i sistemi sanitari, economici, politici e culturali di tutto il mondo soltanto con i propri rimedi. Fornisce anche capitale umano, medici intrisi della profonda conoscenza prodotta dall’isola, equipaggiati non solo delle loro conoscenze, ma anche di forti convinzioni internazionaliste.

In Italia hanno potuto verificarlo in prima persona. Quando questo incubo passerà e il popolo italiano si guarderà alle spalle con quella prospettiva peculiare propria dei traumi collettivi, non dimenticherà le immagini dei professionisti cubani che scendono da un aereo, con le bandiere cubane e italiane in mano, per aiutare il loro popolo. Negli archivi della Regione Lombardia rimarrà per sempre la documentazione dei medici che hanno risposto alla loro richiesta di aiuto.

La profonda fascinazione che Fidel Castro aveva per la scienza in generale e per la medicina in particolare è incisa a chiare lettere nei principi della dottrina del progetto rivoluzionario. «Medici e non bombe», dichiarò quando era in vita. Ancor oggi questo mantra riecheggia nel pensiero generale del popolo cubano, che lo replica e lo applica.

La rivoluzione cubana voleva che il proprio paese fosse uno dei protagonisti scientifici in prima linea nella ricerca

All’avanguardia ma non come fine a se stesso. L’obiettivo è progredire, salvare vite umane e realizzare l’ideale internazionalista con cui Fidel voleva ripagare il suo «debito con l’umanità».

La passione per la scienza professata dal Comandante si è riflessa particolarmente nel campo della biotecnologia, dove Cuba è un punto di riferimento internazionale. Non a caso, Fidel voleva così e il popolo lo ha ascoltato. Con la produzione di interferoni negli anni Ottanta, il paese ha imboccato un percorso non militaristico né di propaganda, ma umanitario. Una strada in cui le bombe all’idrogeno e le grandi produzioni pubblicitarie di Hollywood non hanno spazio. Cuba non ha ‘Tony’ Montana, ma ha l’Heberprot-P [medicinale per la cura dell’ulcera del piede diabetico ndt] e il CimaVax-EGF [vaccino per il trattamento del carcinoma polmonare non microcitico ndt].

L’”esercito dei camici bianchi”, con il quale la rivoluzione cubana si è armata per decenni, ha schierato brigate in diversi paesi oltre all’Italia. Per aggiungersi alla battaglia contro il Covid-19, il paese ha messo il proprio impulso internazionalista al servizio, tra gli altri, di Venezuela, Nicaragua e Giamaica. Nello specifico, la squadra cubana volata nel paese dei sette colli [sineddoche dell’autore tra Roma e l’Italia – ndt], è arrivata a Crema per marciare, giorni dopo, verso l’ospedale da campo di Bergamo. Lì presteranno servizio in collaborazione con le autorità sanitarie italiane.

È un supporto sperimentato da tempo. Molti tra gli specialisti arrivati sono stati in diversi paesi africani per aiutare nella lotta contro l’Ebola, in uno sforzo di cui ancora oggi ci si ricorda in posti come la Sierra Leone. Sarebbe veramente ingenuo stupirsi di questa manifestazione di assistenza da parte di Cuba, che fornisce aiuti internazionali da decenni.

Particolarmente evocativo è il caso del Brasile di Bolsonaro, che in un atto di apartheid ideologico ha espulso gli operatori sanitari cubani che dal 2013 svolgevano compiti nell’ambito del programma “Mais Médicos” [programma lanciato nel 2013 dal governo di Dilma Roussef per sopperire alle carenze sanitarie nelle periferie cittadine e territoriali ndt]. Erano attivi in zone che il sistema sanitario brasiliano non è in grado di raggiungere, come le riserve indigene o le periferie delle grandi città. Luoghi che sono adesso rimasti privi di protezione dall’avanzata del Coronavirus e vittime dell’inefficacia di un governo che non è né presente né ci si aspetta che lo sia. Dilma ha constatato che molti brasiliani si rivolgono a Bolsonaro nei seguenti termini: «Hai visto cosa hai fatto?».

L’umanesimo con curriculum

Il supporto medico che Cuba offre in molti paesi del pianeta è enorme: quasi 30.000 operatori sanitari si trovano di fatto al di fuori dei confini nazionali. Senza entrare troppo nei dettagli, la profonda amicizia tra Cuba e il Pakistan si spiega con il seguente motivo. Nel 2005, quando il Pakistan ha subito il terremoto nel Kashmir, ha trovato in Cuba il suo principale aiuto esterno. Il governo di Fidel Castro ha trasferito sul territorio cubano i feriti locali per essere curati, ha inviato più di 2.000 professionisti in Pakistan, spedito una quantità colossale di attrezzature mediche e persino costruito ospedali da campo (con tutti i requisiti tecnici che questo comporta). Il Pakistan è stato in grado di verificare in prima persona che quello che Castro aveva affermato una volta non era una messinscena: «Il nostro paese non lancia bombe contro altri popoli. […] Le decine di migliaia di scienziati nel nostro paese sono stati educati con l’obiettivo di salvare vite umane».

Non è la prima volta che Cuba scende in campo al fianco di altri popoli durante una crisi sanitaria, quando questa supera le loro capacità di essere affrontata. Forse questo è il momento in cui l’Europa potrà vederlo in prima persona

Tuttavia, se esiste un paese in cui Cuba ha raddoppiato gli sforzi per anni, seguendo l’ideale josemartiano della Patria Grande, quel paese è senza dubbio Haiti. Se in altri paesi l’effetto degli aiuti cubani è facilmente osservabile, ad Haiti è stato assolutamente decisivo. Il 2010 ad Haiti è stato terribile, probabilmente una delle peggiori catastrofi umanitarie della storia. A gennaio, un terremoto che ha provocato oltre duecentomila morti in un solo mese; a ottobre, un’epidemia di colera con un milione di casi. Sebbene Cuba si fosse fatta in quattro quell’anno, la verità è che l’invio di aiuti era già iniziato nel 1998 in risposta all’uragano George. Da allora, si sono susseguiti numerosi accordi di collaborazione, scambi di studenti e una continua presenza di operatori sanitari cubani. Nel 2016 il lavoro è tornato a intensificarsi a causa dell’uragano Matthew.

Dove si colloca, quindi, l’aiuto prestato all’Italia per combattere il coronavirus? Nel cuore stesso della rivoluzione, con la passione per la scienza e le convinzioni umanistiche e internazionaliste che costituiscono un cocktail preciso e operativo. Non è la prima volta che Cuba aiuta altri popoli durante emergenze logistiche, di personale e materiali in una crisi sanitaria quando questa supera le loro capacità di affrontarla. Forse questo è il momento in cui l’Europa potrà vederlo in prima persona. Non sarà nemmeno l’ultima, come non sarà Bolsonaro l’ultimo presidente a cercare di stigmatizzare il paese caraibico. L’embargo continuerà a essere imposto dalla forza dell’indifferenza e nella storia verrà scritto l’ennesimo appello di soccorso a cui il popolo cubano ha risposto.

Pubblicato originariamente su El Salto.

Traduzione a cura di Michele Fazioli per DINAMOpress