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CULT
Cronache dalla frattura culturale
Gli Stati Uniti e noi. Alessandro Portelli raccoglie nel suo ultimo libro (“Il ginocchio sul collo”, Donzelli) una serie di interventi recenti e non su razzismo, violenza, monumenti, storia e immaginari. Un breviario per guardare alla crisi attuale dall’interno ma con una prospettiva di lunga durata
Se George Floyd fosse vissuto negli Stati Uniti in una qualunque altra epoca avrebbe sempre corso il rischio di morire soffocato dal ginocchio sul collo di un poliziotto bianco e chi lo ha ucciso avrebbe sempre avuto elevate probabilità di non venire punito per il proprio gesto. Perché quella morte, quel modo di uccidere e venire uccisi, quella possibilità di togliere il respiro a qualcuno è una costante nella storia degli Stati Uniti. Come è costante la razzializzazione di soggetti a cui è legittimo togliere il respiro, anzi, è proprio quella razzializzazione che sta alla base della legittimità di togliergli il respiro.
Il nuovo libro di Alessandro Portelli, Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo, la violenza tra presente, storia e immagini (Donzelli, 2020), ricostruisce e analizza come quel ginocchio abbia un peso plurisecolare che rende quasi impossibile al collo sottrarsi allo schiacciamento e riprendere a respirare. Questo è il grande pregio del libro: connettere il nostro tempo presente, fatto di violenze e rivolte, al passato recente e meno, in cui violenze e rivolte si ripetono.
Portelli parte da una premessa importante: quello che abbiamo visto in estate negli USA, e che vi abbiamo raccontato su queste pagine, è stato il più «grande movimento di massa nella storia degli Stati Uniti: sono scesi in strada tra i 15 e i 26 milioni di persone, in un numero di manifestazioni di protesta stimato fra 4.500 e 7.750, in 2400 località in tutti gli stati del Paese» (p. VII). Da qui la giusta urgenza di raccontarlo, di mettere in fila le riflessioni di questi mesi accompagnandole però con una prospettiva di lunga durata su problemi che affliggono il paese fin dall’Ottocento e con un’attenzione particolare agli ultimi dieci anni, visto che «il 2020 non è un’esplosione improvvisa, ma una fase nuova di un movimento cresciuto almeno negli ultimi dieci anni» (p. IX).
Un difetto in questa prospettiva, che attraversa un po’ tutto il libro ma è tipico di un certo approccio novecentesco, è voler vedere un qualche elemento di insieme («un movimento») in episodi vasti e spesso sconnessi tra loro, che procedono per strappi e imitazioni, più che con una regia. La sfida – che Portelli non porta avanti, ma forse non è il suo ruolo – è riuscire a non vedere in questa disunione un limite, ma comprendere questi processi con occhiali nuovi e interpretazioni da rinnovare.
Una prospettiva, quella utilizzata da Portelli, che gli permette di uscire dai confini del paese nordamericano per spostarsi in Italia e riflettere su come nella storia e nella cronaca italiana siano presenti le dinamiche del ginocchio sul collo ma anche quelle dei linciaggi.
I nomi di George Floyd, di Eric Garner, di Michael Brown vanno a fondersi con quelli di Federico Aldovrandi, di Stefano Cucchi, di Giuseppe Uva, in un racconto che non cancella la specificità delle vite di ognuno di loro ma chiama in causa la violenza poliziesca che ha causato le loro morti. In questo continuo rimbalzo tra Stati Uniti e Italia, Portelli propone alla nostra riflessione la vicinanza delle dinamiche dell’attentato compiuto da Luca Traini a Macerata il 3 febbraio 2018 con i linciaggi razzisti negli USA.
Il volume raccoglie soprattutto scritti passati, rielaborati e aggiornati; in buona parte si tratta di articoli pubblicati sul “Manifesto”. Un libro quindi irregolare, come capita a volumi così organizzati, e che manca purtroppo, soprattutto nel secondo capitolo, di un lavoro di cura editoriale e revisione che l’avrebbe reso più leggibile, evitando ripetizioni e rimandi temporali imprecisi. La prima parte, “il diritto di respirare”, raccoglie i puntuali articoli usciti sul quotidiano questa estate passata; nel “riassunto delle puntate precedenti” Portelli recupera i testi scritti soprattutto a metà della scorsa decade; le ultime due parti sono forse le più interessanti: “uomini di marmo” sui monumenti e “tre storie di rivolta” su Los Angeles 1992, Harlem 1943 e Charleston 1822.
Un libro dunque molto utile, che fotografa (nel primo capitolo) la situazione corrente, questa assurda estate di pandemia-proteste-attesa elettorale che gli USA hanno vissuto e di cui Portelli ha scritto puntualmente mettendo a frutto decenni di esperienza sul tema.
Un volume che ci ricorda poi quanto negli ultimi anni proteste di questo tipo abbiano scandito la vita pubblica statunitense (nel secondo capitolo); che fa i conti, nel terzo capitolo, con un tipo di proteste e rivendicazioni, quelle contro e sui monumenti, che di certo non sono nuove ma che negli ultimi anni hanno subito un’accelerazione netta e speriamo decisiva; e che infine nel quarto capitolo recupera (stavolta da pubblicazioni non occasionali come quelle dei quotidiani) tre storie esemplari, partendo da lontano, da una importante rivolta di schiavi ed ex schiavi africani in South Carolina nel 1822, e poi i riots per eccellenza, quelli seguiti al pestaggio di Rodney King a Los Angeles nel 1992 e le proteste di Harlem nel 1943, lette usando l’antropologia culturale e in particolare il concetto di festa come «tempo altro ma dialetticamente legato al tempo ordinario», un rito, un qualcosa che però non si esaurisce nell’effimero perché «è forse questo quello che resta della rivolta: la scoperta di sé avvenuta in quei momenti di crisi può sfumarsi, attenuarsi, restare come potenzialità sottotraccia, embrione di coscienza pronto a riaccendersi, ma non scompare del tutto. La prossima volta non si riparte da zero. La prossima volta, il fuoco» (p. 178).
Nel capitolo “uomini di marmo” Portelli mette in fila le sue riflessioni sui monumenti, arrivate come una boccata d’aria fresca nell’estate passata in cui opinionisti liberal e non guardavano con (malcelato) disgusto alle masse che, per usare un linguaggio demartiniano, facevano «irruzione nella storia», buttando giù monumenti che per troppo tempo e impunemente erano rimasti immobili. Lo fa andando indietro nel tempo anche in questo caso, alla storia della statua equestre di Giorgio III re d’Inghilterra distrutta a luglio del 1776 e usata per fare munizioni («le truppe reali si vedranno sparare addosso con la fusione di sua maestà», disse il sovrintendente delle poste di New York City). Signora mia, ma questi buttano giù le statue, come se fosse una novità, come se fosse una violenza più pesante di quella che tanti e tante sono costretti a subire ogni giorno. La storia infatti, «è fatta sia di iscrizioni, sia di cancellazioni» (p. 151).
Il pregio principale di questo libro di Portelli è forse la capacità di provare a farci cambiare punto di vista, di provare a capire che spazio e ruolo abbiamo noi bianchi occidentali che non viviamo il razzismo sulla nostra pelle in questo “noi” in costante definizione.
Su questo vale la pena concludere con una lunga citazione: «Credo che se noi chiamiamo Storia il busto a Nathan Bedford Forrest, fondatore del Ku-Klux Klan, collocato nel palazzo del governo a Nashville (in Tennessee) nel 1970, due anni dopo l’assassinio (in Tennessee) di Martin Luther King, e non riconosciamo che sono storia anche quelli che vogliono toglierlo e sostituirlo, è perché la Storia siamo Noi – euroamericani liberali cristiani istruiti e tendenzialmente maschi (sono tutte di maschi le statue e i nomi in discussione) – e non loro – vandali, orde, teppisti e teppiste. Ha ragione Toni Morrison: le definizioni appartengono ai definitori, non ai definiti» (p. 121). E in questa «frattura culturale» (p. 124) che stiamo vivendo e con un “noi” in ridefinizione la domanda che Portelli ci pone è: da che parte volete stare? E quale storia volete raccontare?
Foto di copertina di Eleonora Privitera