OPINIONI

Critica e diserzione

Il linciaggio mediatico contro il movimento No War, la militarizzazione della ragione pubblica, ci impongono di pensare il presente come contingente, di combattere la guerra e il bagno di sangue anche con le parole e le idee, di resistere con la lotta e con la «pratica teorica»

Tra le tante manifestazioni della corruzione, nel nostro Paese merita attenzione la stampa: scrivere tutto, e il contrario di tutto, fiutando sempre e solo l’odore dei soldi, dando parole alla voce del padrone, che in fin dei conti è quella del vincitore. Mentre imperversa la tragedia ucraina, con le bombe che distruggono le città e uccidono civili, ecco che la ragione pubblica mette in testa l’elmetto e ripete ogni mezz’ora: “chi non è con la NATO, e dunque con l’eroica resistenza del popolo ucraino, sta con Putin”. Tertium non datur. Ecco allora che Maurizio Landini o Donatella Di Cesare vengono additati, assieme ai 50 mila e più dello scorso sabato a Roma, come ambigui e irresponsabili; accecati dal loro antiamericanismo, non capirebbero che Putin è matto, è un nuovo Hitler e, come Hitler, vuole cancellare le democrazie liberali che invece sono, indiscutibilmente, il «migliore dei mondi possibili».

Avere il coraggio di conoscere, uscire dallo stato di minorità e fare uso pubblico del pensiero: l’indicazione di Immanuel Kant, quella del 1784 che tanto sollecitò Michel Foucault poco prima di morire, ci è utile per disertare il bagno di sangue in corso, quello ancora più cruento e apocalittico che si annuncia.

Abbiamo nuovamente bisogno delle «armi della critica», ce lo impongono i quotidiani linciaggi a mezzo stampa di chi combatte la guerra, dunque l’invio di armi in Ucraina, e chiede all’Europa di fare ciò che avrebbe dovuto fare e non fa l’ONU, ovvero il dispiegamento di una forza di interposizione che impedisca la mattanza e favorisca la trattativa. «Critica genealogica», aggiunge Foucault: cogliere nella contingenza dei fatti che costituiscono il presente, facendoci quelli che siamo, la possibilità di resistere, di fare diversamente, di cambiare strada. La critica, allora, come atto di diserzione nei confronti della militarizzazione asfissiante del discorso politico.

A questo proposito, colpisce l’insistenza con la quale i maggiori giornalisti padronali (da Ernesto Galli della Loggia a Sergio Fabbrini), dalla scomposta fuga occidentale da Kabul in poi non abbiano mai smesso di denigrare l’ingenuo normativismo kantiano ‒ in questo caso il riferimento è al testo del 1795, Per la pace perpetua ‒ dell’Unione a trazione tedesca. L’Europa, che da troppo tempo aspira alla pace per mezzo della lex mercatoria, delle regole fiscali, della stabilità dei prezzi, dovrebbe invece fare i conti con Carl Schmitt, con la verità che il suo famoso scritto del 1932 ci consegna: se il criterio del politico, ovvero la sua essenza, è «la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind)», la guerra è il presupposto, la possibilità reale che provoca uno «specifico comportamento politico»; allo Stato, in quanto «unità sostanzialmente politica», compete «la possibilità di far guerra e quindi spesso di disporre della vita degli uomini».

D’altronde è proprio il nazista mai pentito che, con il suo saggio, giustifica l’acclamazione fanatica di Zelensky e della resistenza ucraina: l’individuazione chiara del nemico, la scelta di combatterlo, definiscono per l’Europa il merito da ripagare con armi e sanzioni contro Putin.

Ora, non vi è dubbio alcuno che le mobilitazioni contro la guerra di questi giorni siano contro la guerra di Putin; di Putin e del suo dispotismo criminale, esibito in Russia con l’arresto di migliaia di pacifisti. Non è per nulla chiaro, invece, per quale motivo debba essere Schmitt il faro col quale mettere in campo la risposta dei popoli liberi all’autocrate di Mosca. Questa ovvietà infame è l’oggetto della critica che il movimento No War sta esercitando nelle piazze, nella assemblee, nei blog. Nella consapevolezza che la frattura tra capitalismo e democrazia riguarda la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping, ma ci parla anche di Trump, di Bolsonaro, di Modi.

Più in generale ci parla della crisi del liberalismo (e della rappresentanza), che si riscopre incapace di democrazia, dominato com’è dall’assiomatica del capitalismo, con i tecnici che si sostituiscono ai parlamenti, le banche centrali alle maggioranze di governo, i mercati finanziari alla volontà popolare. Sostare criticamente sulle origini del “fenomeno Putin”, ovvero il Washington Consensus celebrato da Eltsin che ha fatto dell’accumulazione capitalistica a mezzo di rapina, privatizzazioni selvagge, economia criminale, la cifra della Russia degli anni Novanta e dei primi anni zero, non è esercizio ozioso, ma sforzo di comprensione fondamentale per mettere all’angolo il fanatismo bellicista, rilanciare il federalismo europeo contro la barbarie sovranista (col sovrano che, per i conservatori sopra citati, diviene il super Stato continentale), la guerra in Europa e nel mondo.

L’ontologia del presente, la critica genealogica che ci suggerisce Foucault, possono aiutarci allora ad afferrare la questione che conta del nostro tempo: inventare la democrazia contro il capitalismo, l’autoritarismo, la guerra.

No, non si tratta di operare delle riduzioni buone solo per non pensare: parlare di capitalismo non significa sbarazzarsi – intendendoli come «sovrastrutture» – dei rapporti di forza politici, della violenza del patriarcato, della furia dispotica, antisemita e razzista. Si tratta, invece, di conquistare quelli che Lea Melandri chiama «nessi», e che Félix Guattari amava definire «concatenamenti» ‒ tra denaro, produzione, inconscio, potere, enunciazione, «macchine da guerra». La globalizzazione economica è irreversibile, lo mostrano i commerci con la Russia che procedono in parte indisturbati nonostante le sanzioni, ma non è uno «spazio liscio», lo hanno mostrato e lo mostrano le guerre che non si fermano dal 1991, dalla Jugoslavia al Kosovo, dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina. Contrastare la guerra, nella globalizzazione, significa pensare contro Schmitt, contro la sovranità, un cosmopolitismo democratico e federalista che è anche, e da subito, anticapitalista.

Immagine di copertina da commons.wikimedia.org