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Crisi in Perù: un paese in emergenza e senza meta

Tra fine marzo ed inizio aprile, proteste popolari hanno incendiato il paese andino, duramente colpito dall’instabilità politica, dalla crisi economica e dall’aumento del costo del carburante e dei fertilizzanti, conseguenza della guerra in Ucraina

Le proteste popolari nel paese andino, nel pieno di una ondata di dall’instabilità politica ed economica sono state represse dal governo che ha provocato sei morti. La dichiarazione del coprifuoco ha esteso il conflitto nel paese, con blocchi stradali, scuole sospese, proteste diffuse su tutto il territorio nazionale: di fronte alle proteste il governo ha dovuto cedere con una tregua e una tardiva negoziazione. Traduciamo la riflessione del sociologo Jhonatan L. Salazar Fernández dal sito di informazione indipendente Noticias Ser Pe (ndr.)

Le proteste di fine marzo nella città di Huancayo non hanno fatto altro che mostrare chiaramente la rivolta del popolo contro il “governo del popolo”. Così, il termine “popolo” ha perso la vitalità del suo significato ed è diventato una scusa non credibile, consumato dall’uso costante che ne fa il presidente per dirigersi alla cittadinanza, mentre le sue azioni di governo perdono legittimità e direzione politica.

Le manifestazioni dei diversi settori coinvolti, camionisti, agricoltori, commercianti, casalinghe, tra gli altri, ognuno con le proprie rivendicazioni, sono state le più violente degli ultimi vent’anni nella città “incontrastabile”, a cui non solo hanno partecipato abitanti delle aree urbane, ma anche con abbastanza intensità quelli delle aree rurali e periferiche. L’assenza di interesse e il tardivo dialogo portato avanti dall’esecutivo ha lasciato un saldo di vari morti e una quantità maggiore di feriti. Il tumulto si è diretto contro la forma di governo, contro le espressioni incendiarie del presidente e del suo partito, Perù Libre, e ha espresso l’accumulazione di indignazione, stanchezza e malessere sociale della cittadinanza, le cui aspettative in termini di cambiamento sono state colpite dall’aumento dei prezzi che ha svuotato le loro tasche. Così, quelli stessi che hanno sostenuto il presidente al ballottaggio, hanno espresso nelle piazze il loro malessere per il mancato rispetto delle promesse elettorali.

Il presidente Castillo deve capire che è più facile avere un ruolo di rappresentanza nazionale quando sei il leader di una protesta capace di dare legittimità alle tue rivendicazioni e che un’altra cosa è essere Presidente della Repubblica.

Il problema è che le politiche pubbliche che sta portando avanti l’attuale governo sono precarie e non necessariamente capaci di affrontare i problemi esistenti, a causa della manifesta inesperienza, del fragile sostegno tecnico e politico del suo entourage, tutte questioni che fanno sì che il discredito aumenti e cresca la sfiducia: «Non si può avere fiducia più di nessuno», «Tutti i politici sono la stessa cosa» – sono le cose che più abbiamo ascoltato durante le proteste degli scorsi giorni.

La sfiducia popolare nei confronti dei politici e dei poteri dello Stato è anche espressione della dissoluzione del contratto sociale esistente, mentre la cittadinanza si afferma a partire da un modo di vita sempre schierato sulla difensiva rispetto a quanto accade. I sentimenti di unità vengono frantumati, il malgoverno si estende, i canali di comunicazione falliscono e le strade cominciano a recuperare il senso (anti)democratico della rappresentazione politica. Gli spazi di dialogo e negoziazione perdono vitalità, si riducono e si installa un processo di caos permanente. I sentimenti di somma tra diversi settori e di unità si biforcano attraverso altri spazi di azione ma non trovano spazio nel cammino possibili dell’attuale governo.

Diventa così costante in Perù una successione di crisi, senza alcuna affermazione di un progetto sostenibile per la nazione, convertendoci in un paese caratterizzato dallo spettacolo politico, dalla commedia e da lamenti permanenti. Sembra che la soluzione non sia parte del nostro agire politico.

La somma degli errori di questi 200 anni dall’indipendenza a oggi non sembra sufficiente per imparare e superare le situazioni di crisi, forse perché siamo già abituati a questo scenario, dove l’indignazione della cittadinanza è stazionaria e porta avanti di tanto in tanto le sue rivendicazioni finendo però alla fine per rafforzare il peso dei poteri esistenti.

La nostra classe politica è costituita sulla base di interessi particolari che non pensano al bene comune. Non c’è più alcuna differenza tra i più emblematici casi di corruzione a livello nazionale rispetto a quanto accade a livello locale. Il manuale della corruzione si è installato così profondamente da non lasciare spazi possibili ad una gestione del pubblico utile, efficiente, democratica ed etica. A questo va aggiunta la visione a breve termine dei leader, incapaci di progettare e rendere effettiva una proposta di paese e di nuove leadership come parte integrante delle sfide del nostro incrinato bicentenario.

Con tutti i limiti e le improvvisazioni mostrate da questo governo del presidente, la sinistra sta perdendo peso politico e l’opportunità di dimostrare che è possibile un’altra forma di governare, beneficiando questa volta tutta la popolazione.

Intanto, così, ci troviamo ad affrontare la minaccia di una destra già screditata che però segue attentamente gli sviluppi della situazione e approfitta nei suoi discorsi della perdita di legittimità di un governo che sembra fare di tutto non far bene il suo lavoro e che ad ogni passo lascia segni di improvvisazione e di assenza di maturità adatta a governare. Il potere legislativo non è estraneo a questa crisi e aggiunge sforzi per ostruire e screditare l’esecutivo, negandogli qualsiasi spazio di dialogo e concertazione che permetta la ricerca di nuove possibili e importanti iniziative che siano a favore degli abitanti del paese.

Articolo pubblicato su Noticias Ser. Traduzione in italiano di Alioscia Castronovo per Dinamopress

Immagine di copertina: Jaime Mendoza (fonte: Rebelion)