ITALIA

Cpr, Cas e la paura del contagio: a Gradisca il primo caso mentre i detenuti scioperano

Da Gradisca d’Isonzo a Palazzo San Gervasio, passando per Ponte Galeria e tutti gli altri centri di permanenza per il rimpatrio, è sempre più urgente liberare i migranti reclusi. E ripensare il sistema d’accoglienza abolendo anche i mega centri

State a casa e rispettate le distanze di sicurezza, non assembratevi per nessun motivo. Si possono riassumere brutalmente così le misure adottate il 10 marzo scorso dal governo italiano per far fronte all’epidemia del nuovo coronavirus nel nostro paese. Un’emergenza che ha imposto le misure più restrittive dell’intera storia repubblicana per garantire la salute pubblica. Ci sono luoghi, oltre che persone, per cui però non valgono le regole del mondo esterno. Sono le carceri e ancora di più i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) e i Cas o Cara, affollati centri di accoglienza straordinaria per richiedenti asilo. In questi luoghi, maggiormente che nelle carceri, è difficile la compartimentazione, così come un trattamento igienico adeguato e il mantenimento della distanza di sicurezza che l’emergenza prevede.

Ma, se dei detenuti delle prigioni italiane si è iniziato timidamente a parlare, anche se solo 150 persone stanno usufruendo per il momento di misure alternative conseguenti all’emergenza, gli altri reclusi arrivano molto dopo. Nemmeno nel decreto governativo Cura Italia sono previste misure per far fronte all’emergenza in queste strutture. Quello dei Cpr è ulteriormente un caso limite. Secondo Gianfranco Schiavone, giurista e vicepresidente di Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione chi sta in questi centri è l’ultimo degli ultimi. «Qui ci sono persone che per definizione non contano. Nelle prigioni ci sono anche detenuti italiani, mentre qui parliamo solo di stranieri», afferma Schiavone.

Nel Cpr di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, – salito agli onori delle cronache a gennaio per la morte di un uomo in circostanze non chiare –  due giorni fa è stato riscontrato un caso di positività al coronavirus. Si tratta, come confermato dal Prefetto di Gorizia Massimo Marchesiello e dalla sindaca di Gradisca Linda Tomasinsig (Pd), di un cittadino nigeriano arrivato il 19 marzo da Cremona, in Lombardia, la regione più colpita dal virus, quando l’emergenza era già palese da settimane. L’uomo, che all’inizio aveva mostrato sintomi lievi ed era stato isolato, nella giornata di venerdì è peggiorato ed è stato ricoverato all’ospedale Cattinara di Trieste, mentre sono in quarantena anche gli agenti che hanno avuto contatti con lui. Il Prefetto ha invece smentito che abbia avuto contatti con gli altri ospiti. In un video girato dentro il Cpr e diffuso su Facebook dall’Assemblea No Cpr-No frontiere FVG si vede un uomo prima contorcersi a terra e poi venire trasportato fuori dal centro in barella.

I 50 detenuti a Gradisca avevano iniziato a scioperare giorni fa, prima di questo caso, proprio temendo che le pessime igieniche condizioni del centro li esponessero al contagio, così come la promiscuità data dal fatto di stare in sei in una piccola cella. Gli ospiti protestavano anche per la mancanza di protezioni sanitarie fornite a loro e a tutte le persone – agenti di polizia, operatori, giudici e avvocati – che entrano ed escono dal centro e con cui i migranti sono in stretto contatto e quindi possibile veicolo di contagio.

«Alcuni dei reclusi lamentano tosse e dolori al petto, da giorni chiedono visite mediche ma non viene loro permesso di farsi visitare», ha scritto sempre l’Assemblea No Cpr No frontiere sulla propria pagina. La sindaca Tomasinsig, commentando la situazione del centro, ha scritto in un post, sempre su Facebook, che «ancora una volta ciò che ruota attorno all’istituzione Cpr è mantenuto riservato e fuori dal controllo pubblico».

La preoccupazione dentro e attorno a questi centri accomuna anche le altre strutture nel paese che ospitano ad oggi 381 persone, tra cui 33 donne. Queste ultime sono recluse nel Cpr di Ponte Galeria a Roma, nel quale ci sono anche 75 uomini. Secondo la testimonianza di Carla Livia Trifan, raccolta dal progetto Melting Pot Europa, le porte del centro sono ora sbarrate ai parenti dei detenuti che erano soliti portare del cibo ai reclusi perché quello che gli danno dentro «fa schifo e puzza». «Sono chiusi in stanze da otto persone. A nessuno di loro è stata data una mascherina o guanti protettivi. Impossibile anche solo pensare di mantenere le distanze di sicurezza. E gli operatori sociali e le forze dell’ordine intorno a loro sono nelle stese condizioni» racconta Trifan, il cui fidanzato è a Ponte Galeria dal 3 marzo.

Nel Cpr di Palazzo San Gervasio (Pz), in Basilicata, i 40 detenuti sono in sciopero della fame, come a Gradisca. Riporta la rivista online lavialibera che anche qui le persone temono per la propria salute e hanno paura di non poter avere più contatti con i familiari.

Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, ha sollevato con il Ministro dell’Interno Lamorgese la questione degli internati nei Cpr in questo momento. In una nota Palma dubita della «sensatezza della privazione della libertà in funzione del rimpatrio di persone che al momento non possono essere rimpatriate» data la chiusura dei confini, a causa della diffusione del virus, e l’inesistenza di collegamenti aerei o navali con la gran maggioranza degli Stati di provenienza. Lo ribadisce chiaramente anche Schiavone: «Quando l’allontanamento non è perseguibile, il trattenimento diventa illegittimo. Lo dice una direttiva europea».

Aggiunge il Garante che «si pone il problema per coloro che presumibilmente dovranno essere rilasciati prima della fine di questa temperie epidemica e per i quali il periodo da ora ad allora rischia di essere una sottrazione di tempo e libertà, oltre che una esposizione accentuata al pericolo di contagio, conseguente a nulla e destinato a nulla». Per quanto riguarda Gradisca sono 13 le persone per le quali scadono i termini di detenzione, che il decreto Salvini ha aumentato da 90 a 180 giorni.

Questa settimana a Torino un uomo marocchino è stato già rilasciato dal Cpr di corso Brunelleschi perché questi termini erano scaduti e non c’era possibilità di rimpatriarlo. Dalla Spagna arriva invece la notizia della liberazione degli ultimi cinque detenuti di un Cie (Centro de Internamiento de Extranjeros) a Barcellona, per le stesse ragioni. Direttive in questo senso giungono anche dal Commissario europeo per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatović, che ha invitato «gli Stati Europei a riesaminare la situazione degli immigrati trattenuti e a rilasciarli nella massima misura possibile».

Nessun nuovo inserimento e il rilascio delle persone, senza far scadere i termini massimi di reclusione, è ciò che chiedono fin dal 13 marzo un gruppo di avvocati e associazioni, in una lettera al Ministero dell’Interno e a tutte le Questure e Prefetture d’Italia promossa dalla campagna lasciateCIEntrare e poi diventata un appello lo scorso 22 marzo firmato da più di un centinaio di associazioni, ma rimasto ancora inascoltato. «Il Governo è rimasto sordo. Siamo al limite della legalità», sostiene Schiavone.

Nell’appello sono menzionati anche i Cas e i Cara, i grandi centri d’accoglienza per migranti che secondo Schiavone sono «un’altra bomba a orologeria, frutto della scelta scellerata del precedente esecutivo di combattere l’accoglienza diffusa». È ormai risaputo che queste strutture, oltre che affollate, siano sempre più degradate, anche per la mancanza di personale. All’interno le camerate sono di almeno una decina di persone e regolare gli assembramenti è quasi impossibile.

L’osservazione contenuta nell’appello è di prospettiva, ammette Schiavone, perché «si dovrebbe modificare tutto il sistema». Ma per ridurre il rischio di contagio qualcosa si potrebbe già fare: «per esempio trasferire i più vulnerabili dai Cas ai posti nell’accoglienza diffusa che sono ancora liberi. Al momento però non si riesce a mettere in sicurezza neanche anziani o persone con patologie».