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I cowboy non vincono mai

A dispetto delle molte semplificazioni e luoghi comuni giornalistici, la scrittura di Max Pezzali presenta una sorprendente e per molti versi inedita complessità e stratificazione di temi: da uno sguardo realista nei confronti degli spazi e delle forme di vita della provincia a una visione per nulla semplificata dei rapporti d’amore

“Quello di Sanremo non era proprio il mio mondo; a me piacevano la decostruzione, l’assenza di un’identità perfettamente definita, che le canzoni parlassero di me e del mio mondo”

(Max Pezzali)

 

I cowboy non mollano mai, autobiografia di Max Pezzali, è una lettura imprescindibile per chi voglia comprendere il percorso artistico di Max Pezzali e l’originalità del suo approccio alla scrittura cantautorale. Alternando aneddoti e ricordi, riflessioni sulla scrittura e sul “mestiere” del cantautore, Pezzali rivela nel libro gli elementi costitutivi del suo background musicale e riflette sulla specificità della sua ricerca creativa.

Dopo aver trascorso i primi anni dell’adolescenza fra heavy metal (“un genere da classe operaia”), punk e new wave, Pezzali incontra presto l’America di Bruce Springsteen, “la grande scoperta di quegli anni”: lontano dal “mito americano dei paninari […] che veneravano il successo, i soldi, la moda, l’abbronzatura”, Pezzali trova in Springsteen una narrazione degli Stati Uniti lontana da facili mitologie, e resta affascinato da un modo di dipingere la periferia “epico e moderno al tempo stesso”. Il giovane Pezzali, mosso da un’inesauribile curiosità musicale, allarga presto il suo orizzonte, guardando con crescente interesse al rap e accostandosi dopo enormi diffidenze – e dopo l’incontro al liceo con Mauro Repetto – al “pop più mainstream e [alla] black music, l’R&B, cose come i Cameo, che all’inizio proprio non capivo”. Dai Dead Kennedys a Johnny Cash e Hank Williams; dai Public Enemy (“erano il mio punto di riferimento […] erano la summa di tutto: il punk, l’orgoglio nero…”) a “l’opera omnia di Eric B. & Rakim”; da Eugenio Finardi ai Righeira: i riferimenti musicali che si intrecciano nel corso del libro lasciano trasparire il divario che esiste fra le molte semplificazioni giornalistiche che circolano sulla musica degli 883 e la sua complessa gestazione. Con una serie di considerazioni su generi e culture musicali anche molto distanti fra loro, Max Pezzali rievoca nel libro il suo itinerario di crescita artistica, sia come musicista che come “ascoltatore” e appassionato di musica.

Delle molte riflessioni a tema musicale contenute nel libro, quella dedicata alla country music americana è forse quella più suggestiva, per capire il modello testuale ricercato da Pezzali:

 

Il country ha un approccio alla scrittura dei testi molto particolare, per certi versi è l’hip hop dei bianchi. Fa costantemente riferimento alla realtà, ne ha un bisogno estremo, perché il tipo di pubblico che ha non si sente rappresentato se non vede degli elementi che riconosce, se non può identificarsi con gli oggetti. Cita il modello di Cheverolet, il pickup truck o la marca di birra.

 

Ne è un esempio un recente brano di Lee Brice, I Drive Your Truck, citato da Pezzali:

 

«Questo furgone consuma un sacco, ci sono 89 cents nel portacenere, una bottiglia di Gatorade mezza vuota che rotola sul pianale, il cappellino degli Atlanta Eagles sul cruscotto […] E quando mi sento solo guido il tuo furgone». E tu ti chiedi: Ma che cazzo di storia è? E poi scopri che è il furgone del fratello morto.

 

Il country, spiega Pezzali, è caratterizzato da uno stile di scrittura di tipo cinematografico, che fornisce “una visualizzazione fotografica” delle storie che racconta, lasciando emergere in questo modo, insieme alla storia narrata, un preciso ambiente sociale, fatto di riferimenti concreti e di oggetti d’uso quotidiani. Pezzali inizia già negli anni Novanta ad ascoltare e tradurre i testi country, quando scopre che questi compositori “facevano quello che avevo sempre fatto anch’io: descrivere una realtà fatta di dettagli e oggetti che fossero immediatamente riconoscibili. Con un messaggio chiaro”. Attraverso l’accostamento dei suoi testi con quelli della tradizione country, Pezzali mette in risalto le caratteristiche peculiari della sua scrittura, gli elementi di originalità rispetto agli stilemi più diffusi nel panorama della canzone italiana degli anni Novanta.

Se il country e il rap costituiscono dei modelli per Pezzali, è innanzi tutto per una questione di registro linguistico: il linguaggio usato da Max è un linguaggio giovanile riprodotto in modo “fotografico”, lontano dal linguaggio colto, di derivazione poetica, dei cantautori della generazione precedente; ma anche da quello di Sanremo, privo di connotazioni generazionali, sociali, geografiche. Nato in “uno dei tanti casermoni della periferia pavese”, cresciuto in una città provinciale e ipocrita, dove “per nascondere le differenze di classe sociale delle famiglie, tutti i bambini dovevano coprire i vestiti con un grembiule”, Pezzali è alla ricerca di un realismo-pop che si esprima innanzi di tutto attraverso un linguaggio emulativo del gergo della “strada”:

 

Ho sempre avuto l’ossessione di usare il mio linguaggio quotidiano anche nelle canzoni […] molti cantautori italiani si nascondono dietro un certo ermetismo, e diventano di nicchia. Nel mio caso, questo bisogno di inequivocabilità è legato al fatto che vengo dalla provincia, un posto dove le nicchie proprio non esistono. Stessa cosa al bar: io non posso dire una cosa che il punk, il geometra della Regione o il vecchio che gioca a carte nella saletta interna non possano capire […] E’ per questo che sin dagli anni novanta ho sempre cercato di approfondire i testi country, di tradurli, per capire di cosa parlassero. E ho capito che non è un genere, ma un mondo a sé […] sostanzialmente è un modo di raccontare le cose attraverso un testo di facilissima decodificazione.

 

L’analogia con la country music non si limita alla dimensione linguistica, ma si estende per certi versi al tipo di pubblico a cui Pezzali si rivolge, e di conseguenza all’ambientazione sociale e ai temi ricorrenti delle sue canzoni. Gli 883 sono stati frequentemente accusati di “giovanilismo”. Ma quale giovane età raccontano? A quali giovani si rivolgono? Max Pezzali non canta la gioventù danzante e spensierata di Jovanotti, di Giovane sempre, Ragazzo fortunato o di Una tribù che balla, dove si ricorda ad ogni giovane: “che tu sei unico al mondo / e non esiste primo e non esiste secondo”. Pezzali racconta i giovani che vivono il lungo inverno dei bar e delle sale giochi, e il “torrido niente” delle estati di provincia; quelli che non faranno i soldi e non troveranno un lavoro migliore; racconta una giovinezza fatta di clamorosi insuccessi amorosi, di weekend destinati a concludersi nel solito bar. Nelle sue canzoni affiorano, spesso con ironia e leggerezza, i segni di un’esperienza giovanile in cui predomina il senso di sconfitta e in cui persino il tempo del divertimento è offuscato dalla delusione delle aspettative, dal “ritorno del lunedì” e dalla consapevolezza dell’immutabilità della propria condizione (“In questo regno dove tutto è permesso / lasciati andare e vedrai / che anche se non cambia niente è lo stesso / tu ti divertirai”, Nella notte).

La soggettività delle canzoni di Pezzali non è dunque una soggettività vincente, sognante e protesa verso il futuro, come quella di molte canzoni giovanili dell’epoca, ma una soggettività “perdente” e tuttavia orgogliosa della propria identità: Pezzali racconta perdenti, ma, per usare le sue parole, “perdenti di grande impatto”. Lo spazio delle sue canzoni del resto è uno spazio urbano periferico, fatto di sale giochi e discoteche, di distributori automatici di benzina e sigarette, di parcheggi e centri commerciali, di bar frequentati oltre l’orario di chiusura, nel cuore di quella notte che non finisce nemmeno quando i bar abbassano le serrande, e che diventa il proscenio dove rappresentare la condizione esistenziale di una giovane età trascorsa in una piccola città con “due discoteche e trentasei farmacie” (Con un deca) in cui “nessuno si diverte e mai si divertirà” (Nella notte). Per questa sua dedizione agli sconfitti e alle periferie (che però non si traduce mai in quella che Gianni Celati chiamerebbe un’“estasi della marginalità”), Pezzali trae ispirazione dal modo in cui Bruce Springsteen racconta gli Stati Uniti, lontano dal mito del successo e del self-made man, e si persuade che “guardare Milano da Pavia fosse un po’ come guardare New York dal New Jersey”. Pezzali percorre nelle sue canzoni lo spazio che separa Pavia e Milano, quei “trenta chilometri di distanza che psicologicamente erano trentamila”, con un realismo ironico e privo di commenti o di giudizi morali: “Per usare un felice neologismo di Claudio Cecchetto, parecchie mie canzoni sono constatative; cioè fotografie della realtà scattate da una precisa angolazione”.

Pezzali racconta in questo modo, forse per primo, una gioventù “post-ideologica” e priva di una precisa coscienza politica della propria condizione, che non smette però di collocarsi in un orizzonte sociale ben preciso. Il vissuto della sconfitta e del fallimento è spostato da Pezzali su diversi piani, dalla metafora sportiva della “dura legge del goal” a quella amorosa della “regola dell’amico”: nelle sue canzoni “questa sfiga che non se ne va mai” (Fattore S) rimanda costantemente ad un vissuto generazionale tipico di una certa regione sociale e geografica, quella della classe lavoratrice di provincia. Come già scriveva nella sua prima biografia, in periferia “non ci sono alternative, non ci sono possibilità. Molto presto si passa a paragonare la mancanza di prospettive della serata alla mancanza di prospettive nella vita: al di fuori di quelle quattro menate che hai vissuto in una notte, c’è il niente”. Quello dell’assenza di mobilità sociale e della mancanza di prospettive dalla provincia è uno dei temi che con maggiore insistenza, quasi in modo ossessivo, percorrono le canzoni degli 883, basti pensare a come “Con un deca” riesca a evocare la solitaria notte pavese da cui “non si può andar via”, o alle “strade che sembrano sentieri” che rendono impossibile il raggiungimento della festa in “Rotta per casa di Dio” (e che nel videoclip della canzone diventano ironicamente le strade di Los Angeles). E’ così che le storie raccontate da Pezzali, pur senza toccare esplicitamente e consapevolmente una tematica di ordine sociale o politico, finiscono per fungere da “mediazione ideologica di un’appartenenza di classe”, per usare un’efficace espressione di Michele dal Lago e Pietro Bianchi (It’s Five O’Clock Somewhere. Note su classe, ideologia e identità nella popular music). Questo sfondo sociale, che Pezzali sa delineare così bene nelle sue canzoni, è essenziale anche per comprendere il senso di sconfitta sotteso all’esperienza del tempo libero, come si vede bene nel testo di un brano come “Weekend”. Pezzali anche qui racconta “una vita notturna ben diversa rispetto a quella epica, celebrativa, che aveva raccontato Jovanotti un paio d’anni prima”. I weekend si concludono in un bar, con gli amici, dopo il triste minestrone consolatorio della domenica sera (“Cena a casa, pizzerie tutte piene / e noi non abbiam prenotato / pasta in brodo o forse minestrone / ad andar bene un po’ d’affettato”), con l’amarezza di non aver concluso niente, e con la vana speranza che il weekend successivo nasconda svolte inaspettate. Per usare una definizione coniata da Pezzali, “il weekend è il tempo dell’aspettativa disillusa”, e la domenica è il momento epifanico del fallimento, in cui ci si rende conto che dalla provincia, neanche stavolta, si può fuggire, e che il giorno dopo comincia una nuova settimana di lavoro:

 

E’ arrivata un’altra domenica,

dopo i pacchi del sabato sera,

dopo i due di picche in discoteca,

l’abbiam preso anche dalla cassiera.

E ci si trova un’altra volta al bar.

 

Anche nelle canzoni in cui il tempo libero è descritto come momento liberatorio, non si configura mai come prospettiva di oblio e rimozione della realtà, ma come evasione temporanea: il giorno di fuga in moto dagli “sbattimenti” è sempre e solo “un giorno così” fra “centoventi giorni stronzi” (Un giorno così).

All’epoca della pubblicazione dei primi album (ma per certi versi ancora oggi), la critica musicale faticò a valorizzare gli elementi di novità contenuti nelle canzoni degli 883: sfogliando i giornali del periodo è facile trovare recensioni sprezzanti. Se è abbastanza comprensibile che una testata conservatrice come l’Osservatore Romano li definisse “veri campioni del vuoto, ben rappresentato da un’opera d’ arte come Sei un mito”, stupisce di più ritrovare lo stesso astio sulle pagine di Repubblica. Così Flavio Brighenti, in un articolo del 1996:

 

Se esiste un’arte della banalità del kitsch, della volgarità culturale, se è vero che il minimalismo può essere inteso come puro e semplice esercizio ludico di retorica giovanilistica, ebbene di quest’ arte gli 883 sono gli autentici campioni. Proprio per questo motivo assistere ad un loro concerto rappresenta un’esperienza utile e curiosa, l’ accesso privilegiato ad un universo generazionale talmente impoverito e uniforme da apparire piuttosto come un microcosmo traducibile in una manciata di slogan camuffati da ritornello (15 gennaio 1996, Flavio Brighenti, “Dov’è Max? Canta i fumetti”).

 

L’Unità del 22 giugno del 1995, presentava il concerto di presentazione dell’album La donna il sogno e il grande incubo come uno “Stupidera’s day”, e accusava il gruppo di proporre “la solita solfa di ritmi dance e giovanilismo a buon mercato” suggerendo che il vero grande incubo sarebbe per il gruppo quello di “uscire dal ruolo degli eterni adolescenti […] e affrontare la dura realtà.

La vicenda della ricezione degli 883, sotto certi aspetti, meriterebbe un capitolo a parte di un’immaginaria “storia sociale del disprezzo”, tanto è evidente come la reazione velenosa della critica non traesse origine da ragioni di pura natura “estetica”, ma contenesse un nascosto giudizio di “illegittimità artistica” del linguaggio usato da Pezzali, dell’ambientazione “volgare” dei suoi racconti (discoteche, sale giochi…), della commistione fra scrittura d’autore e musica “mainstream”, della scelta di una modalità descrittiva del mondo giovanile priva di giudizio morale o valutazione politica.

Gli strali dei suoi critici mostrano di andare fuori bersaglio anche quando lo accusano di raccontare una vita amorosa stereotipata e adolescenziale: “amore da adolescente quello di Max Pezzali, unico superstite degli 883, che in Senza averti qui va in un disco-pub, ma non si diverte perché non c’è la sua fidanzatina”, (Laura Putti, La Repubblica, 21 Febbraio 1995 “Chi ha il coraggio di non dire amore”). Se si ripercorre la sua discografia, specialmente i dischi degli 883, è facile rendersi conto che “quell’amore che i cantanti cantano” (L’universo tranne noi), l’amore romantico e idealizzato da canzone di Sanremo, compare raramente e viene in genere descritto nella sua impossibilità, nel suo essere una proiezione immaginaria. Nei primi quattro dischi degli 883 le poche love songs risalgono quasi tutte – come rivela Pezzali nell’autobiografia – agli anni precedenti l’uscita del primo album, quando Pezzali e Repetto, che avevano sottoscritto un contratto con una casa di edizioni discografiche (la Warner/Chappell), erano costretti a produrre materiale che ricalcasse i modelli di successo a Sanremo. Con la solita ironia Pezzali spiega che “in quei tempi tragici di «Prendete esempio da Sanremo» sono nate Come mai e Finalmente tu”. Tolta questa produzione, difficilmente si trova in Pezzali l’amore romantico alla Ramazzotti, Jovanotti o Ligabue.

La figura femminile nelle canzoni di Pezzali ha più che altro una funzione di “ostacolo”, interviene cioè come elemento disturbante all’interno del rapporto che si stabilisce fra gli amici, vera dimensione in cui si esprimono emozioni forti e legami intensi e duraturi. Per intenderci, la donna nelle canzoni di Max ha la stessa funzione narratologica di Don Rodrigo nei Promessi Sposi: serve a mettere a repentaglio la vera e profonda relazione amorosa, quella che si stabilisce nella compagnia del bar. Nella strofa introduttiva di La dura legge del goal gli amici, raccolti attorno al bancone del solito bar, ricordano i tempi andati guardando vecchie foto:

 

E quella nella foto accanto a te,

non è il fenomeno della tua ex?

Quella che diceva:

“Scegli o loro o me”

 

A questa “scelta” è dedicata interamente anche O me (o quei deficenti lì). Quando la figura femminile esce da questo stereotipo puramente “negativo” e acquista spazio, è in genere una figura femminile distante, irraggiungibile, fredda allo sguardo avido degli uomini, come in Lasciati toccare:

 

Luci stroboscopiche, ti vedo, non ti vedo,

curve che si muovono, mi siedo se no cado.

Le tue unghie rosse cercano il pacchetto

dentro nella borsa, tra la cipria ed il rossetto,

poi ne sfili una, l’accendi piano piano ,

chiudi gli occhi un attimo avvolta da quel fumo.

Tutti qui ti osservano, ma non vedi nessuno.

Guardi un po’ la gonna

e poi l’accarezzi con la mano.

 

A questa donna, fredda o disturbante, corrisponde un ego maschile debole e perdente. Le proiezioni eroiche della propria immagine prodotte dagli uomini vengono costantemente prese in giro, come in Voglio farti innamorare tanto, dove il protagonista, dopo aver immaginato di salvare l’intero equipaggio di un aereo in volo, confessa:

 

Peccato che non son così

soffro anche di vertigini

per me è già tanto avere preso la patente B

 

Anche il racconto dei distacchi è privo di quello stoicismo consolatorio che caratterizza il “maschio forte” della canzone italiana quando viene lasciato. Pezzali racconta il rancore e la sofferenza del distacco senza reticenze, come nella geniale Ti porto sfiga.

Questa riconfigurazione del ruolo femminile e del ruolo maschile nella canzone risponde ad una precisa strategia che caratterizza la produzione degli 883 sin dall’inizio. “Via la malinconia da innamorato italiano triste, via la mamma, via la donna stereotipata”, così Pezzali sintetizza l’esigenza che guidava la sua ricerca di un linguaggio diverso per raccontare il rapporto con l’altro sesso. Nella canzone italiana Pezzali ravvisava “un atteggiamento machista dell’uomo” che andava messo in crisi e ridisegnato: “In molti pezzi dei primi album compare un punto di vista maschile completamente diverso da quello che raccontavano in quegli anni i cantautori, che era sì romantico, ma comunque dominante”. Pezzali intende rompere con il maschio seduttore e con la donna “oggetto stilnovistico di bellezza pura”, e inscena una figura maschile perdente e rancorosa, che rigetta la mitologia della storia d’amore idilliaca. Sembra paradossale, ma perfino Sei un mito è da questo punto di vista una canzone “antimitologica” e demistificante:

 

È incredibile, abbracciati noi due

Un ragazzo e una ragazza senza paranoie

Senza dirci “io ti amo”, “io ti sposerei”

Solo con la voglia di stare bene tra noi

Anche se soltanto per una sera appena

[…]

Sei un mito, sei un mito perché

Non prometti e non pretendi si prometta a te

 

Quando l’incontro con l’altro sesso avviene, è un rapporto senza promesse, senza dirsi “ti amo”. Come se fosse una storia d’amore senza l’Amore.