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MONDO
Costruire il Confederalismo Democratico Mondiale delle Donne. Intervista a Meral Çiçek
L’intervista di Meral Çiçek membro del Movimento delle donne curde e tra le organizzatrici della Conferenza “Our Revolution: Liberating life” di Berlino di questi giorni, racconta l’esigenza di rafforzare e consolidare le lotte femministe a livello transnazionale
Il 5 e 6 novembre si svolgerà a Berlino la conferenza Our Revolution: Liberating life (La nostra rivoluzione: liberare la vita), organizzata dal Network of Women Weaving the Future (Rete delle donne che tessono il futuro) e promossa dal movimento delle donne curde.
Questa conferenza nasce dalla necessità di rafforzare le alleanze transnazionali tra diverse lotte di donne/femministe a livello globale e, come scritto nel testo introduttivo, di «continuare a condividere esperienze e prepararci ai nuovi attacchi del sistema patriarcale al nostro corpo, alle nostre libertà e al nostro pensiero».
Il programma è intenso e, attraverso interventi dal palco e workshop, si concentrerà su temi come la violenza degli Stati-nazione sulle donne, l’ecocidio e lo sfruttamento capitalista del lavoro invisibile delle donne, le attuali “guerre calde” e la creazione di fronti collettivi di resistenza, le possibili risposte alla crescita delle forze razziste, nazionaliste, fasciste e fondamentaliste religiose a livello locale e globale, la creazione di saperi e scienze decoloniali di e per le donne, come Jineolojî, e molte altre questioni legate alle lotte femministe anti-sistemiche (qui il sito web della conferenza con introduzione e programma).
Nel 2018 si è svolta a Francoforte la prima conferenza organizzata dalla Rete che ha visto la partecipazione di centinaia di donne da tutto il mondo. Entrambe le conferenze devono essere lette come momenti importanti nella costruzione di ciò che il movimento delle donne curde chiama Confederalismo Democratico Mondiale delle Donne, di cui questa intervista intende esplorare i principi e le sfide principali.
L’intervistata, Meral Çiçek, è membro del Movimento delle donne curde e del Kurdish Women’s Relation Office (Navenda Pêwendiyan in Jinên Kurd – REPAK), nonché organizzatrice della Conferenza di Berlino, insieme a molte altre attiviste. La sua lunga esperienza all’interno del movimento, e in particolare nel lavoro di diplomazia internazionale, rende la sua testimonianza estremamente ricca. Questa intervista, che si è svolta a gennaio 2022, non era originariamente pensata per la pubblicazione, ma come parte di un lavoro di ricerca di dottorato.
Si tratta di una conversazione che esplora a fondo i metodi e le riflessioni del movimento delle donne curde in merito alle difficoltà e alle sfide concrete della creazione di alleanze transnazionali di donne, concentrandosi sia sulle due conferenze mondiali di Francoforte e Berlino, che sui percorsi regionali delle conferenze promosse dal movimento delle donne curde in Medio Oriente e Nord Africa nel corso dell’ultimo decennio. Alcune parti molto tecniche sono state rimosse e altre riorganizzate da me e Meral per permettere una lettura più agevole. Per un approccio più introduttivo ed esplicativo al Confederalismo Democratico Mondiale delle Donne suggerisco di guardare questo video di Meral Çiçek.
Il movimento delle donne curde è sempre stato un movimento transnazionale che collega, attraverso la sua organizzazione – le Comunità delle donne del Kurdistan (Komalen Jinen Kurdistan, KJK) – le lotte delle donne nelle diverse parti del Kurdistan e della diaspora e crea alleanze con altri movimenti di donne e femministi di tutto il mondo. Immagino che la vostra proposta di un Confederalismo Democratico Mondiale delle Donne sia concretamente influenzata dalla struttura confederalista che già esiste all’interno del movimento, giusto? Puoi parlarmi dell’idea alla base di questa proposta e della sua storia?
Il Confederalismo Democratico Mondiale delle Donne è ancora un processo. A livello teorico e pratico, e anche all’interno del KJK, è un processo in corso e stiamo ancora cercando di trovare risposte alle nostre domande e alle sfide che affrontiamo nella pratica. Perché una cosa è concettualizzare, fare una teoria, e un’altra è metterla in pratica. All’interno della pratica vedi tutte le sfide e le sfide sono collegate alle nostre personalità, ai nostri caratteri, ai nostri comportamenti e, ovviamente, a problemi strutturali. Penso che ciò che è cambiato soprattutto dopo il 2014, è stato che il movimento delle donne curde, per organizzare il movimento più ampio, si è chiesto come farlo senza centralismo.
Immagina di avere un movimento così grande, con la sua sfera politica, il suo braccio armato, la sua sfera sociale, organizzato in diverse parti del Kurdistan e nella diaspora. Per coordinare un tale lavoro serve una leadership forte, ma è anche importante che la lotta e il movimento garantiscano una forte autonomia. E questo è un grosso problema: come creare una sorta di equilibrio tra coordinamento e autonomia di tutte le diverse strutture? Questa riflessione è iniziata soprattutto dopo il 2014, per dare maggiore autonomia ai diversi gruppi o sotto-organizzazioni femminili, movimenti, ecc. L’altra cosa riguardava la costruzione del sistema. Il punto non è solo resistere contro un nemico – lo Stato turco, l’oppressore, la mentalità patriarcale. È importante, allo stesso tempo, stabilire un’alternativa. Per fare ciò, il sistema del KJK ha avviato questo processo di costruzione del sistema confederalista delle donne, che si basa su diverse dimensioni secondo il concetto di Abdullah Öcalan di confederalismo democratico e nazione democratica – come salute, istruzione, economia, diplomazia, autodifesa.
Tutte queste diverse sfere compongono il sistema confederale delle donne: è così che le donne hanno iniziato a stabilire un’alternativa alla modernità patriarcale e capitalista esistente. Quindi, quando si parla di confederalismo delle donne, si tratta di due parti: organizzare la nostra lotta comune contro il sistema patriarcale su base mondiale e creare un sistema di organizzazione delle donne. Ecco perché Öcalan critica i movimenti rivoluzionari del XIX e XX secolo. Secondo lui non sono stati in grado di creare una modernità alternativa: hanno cercato di portare avanti una rivoluzione basata sui metodi della modernità capitalista e questo non ha funzionato. Ciò che non avevano contemplato a sufficienza, e che invece Öcalan considera il fulcro della rivoluzione del 21° secolo, è la liberazione delle donne. Quindi, ha detto, se vogliamo fare del 21° secolo l’era della liberazione delle donne, la cosa più importante è essere in grado di creare un sistema di donne alternativo.
Il confederalismo democratico potrebbe essere un modello per questo sistema. E questo è ciò che noi proponiamo, come movimento delle donne curde, perché vediamo che la necessità di creare un coordinamento più forte e una lotta comune delle donne in tutto il mondo non è solo una nostra esigenza. Soprattutto al giorno d’oggi, e insieme alla pandemia, vediamo che persone e donne organizzate provenienti da luoghi diversi del mondo hanno sempre più bisogno di un nuovo transnazionalismo o di un nuovo internazionalismo. Quindi, quello che il KJK sta cercando di fare con la sua proposta è avviare un processo comune di discussione che potrebbe impegnarsi con domande del tipo: perché sentiamo il bisogno di forti movimenti transnazionali o di un’organizzazione femminista? Qual è il motivo di questo bisogno comune? Che cosa ha a che fare con la situazione del sistema dominante a livello globale e con la lotta delle donne per la democrazia e la libertà? Quale sarà la soluzione alla nostra ricerca? E forse il Confederalismo Democratico non sarà la soluzione. Forse creeremo insieme qualcosa di nuovo. Quindi, come ho detto, questo è un processo e, come tale, ha bisogno di un gruppo che sarà in grado di guidare questo processo, in un certo senso.
Non si può avviare questo processo, per esempio, con organizzazioni femministe liberali. Dovrebbero esserci organizzazioni già organizzate sul campo che hanno un approccio radicale, insieme magari ad accademiche o femministe che stanno lavorando su queste questioni. Chi sarà il nucleo centrale di questo processo? Affrontare questo problema è una grande sfida che affrontiamo anche in altre situazioni. Io, per esempio, lavoro come rappresentante del movimento delle donne curde in diverse strutture transnazionali e a volte cerchiamo anche di stabilire piattaforme o coordinamenti per un problema specifico e l’organizzazione spesso non è funzionale perchè finisce col gravare sempre sulle spalle di poche persone.
Un’altra questione è come creare un equilibrio tra il lavoro all’interno del proprio movimento e quello transnazionale. Perché la mia responsabilità principale riguarda la situazione in Kurdistan. Quindi, quanto tempo posso investire nel lavoro di una piattaforma transnazionale, ad esempio come coordinatrice per il Medio Oriente? Quanto, di fatto, posso andare nei paesi del Medio Oriente e proporre alle organizzazioni di donne di partecipare a una certa conferenza quando il mio stesso movimento organizza conferenze? Questa è una grande sfida per le organizzazioni di donne che sono organizzate a livello locale o nazionale, no? Cercare di lavorare anche a livello transnazionale è molto difficile. È difficile creare questo equilibrio perché ti senti più responsabile nei confronti della tua organizzazione nazionale o locale, e se hai tempo a disposizione puoi dedicarti anche a qualcos’altro.
Nel 2018 si è svolta a Francoforte la prima Conferenza Revolution in the Making. Come è stato gestito il processo organizzativo? Come avete deciso le ospiti, per esempio? Chi è che faceva parte del Network of Women Weaving the Future che ha organizzato la conferenza?
All’inizio la Rete era composta dal movimento delle donne curde e da alcune internazionaliste, quindi non c’erano molte organizzazioni. Fin dall’inizio avevamo l’obiettivo di uscire dalla struttura del movimento delle donne curde per creare qualcosa di collettivo, quindi abbiamo deciso di non organizzare questa conferenza sotto il nome di un gruppo o organizzazione di donne. Abbiamo detto: «facciamolo in nome di una rete e forse quest’anno sarà soprattutto il movimento delle donne curde, ma la prossima volta ci saranno anche altri gruppi». All’inizio abbiamo discusso sui contenuti della conferenza stessa. Che tipo di conferenza vogliamo fare? Quali gli obiettivi? Che tipo di agenda vogliamo creare? Prima abbiamo creato il programma e, in base a quello, abbiamo pensato a chi avrebbe potuto intervenire.
Non abbiamo creato il programma in base alle relatrici, ma viceversa. Ricordi che c’erano due panel principali sulle lotte delle donne. Uno riguardava le lotte delle donne nel presente e qui abbiamo davvero pensato molto a quali fossero le lotte principali in quel momento. E quando abbiamo guardato alla situazione mondiale, ci siamo concentrate sui temi o, diciamo, le agende dei movimenti. Per esempio, la lotta per l’aborto era abbastanza forte in quel momento in Argentina, ma era ed è tuttora una lotta transnazionale. Quindi, non abbiamo pensato a un certo movimento e poi lo abbiamo invitato, ma ai terreni di lotta e a quale movimento avrebbe potuto rappresentarli nel migliore dei modi. È così che abbiamo deciso le relatrici, partendo dagli argomenti, come l’autodifesa, o la violenza sessuale, e così via. Ad esempio, c’è stato questo primo panel su come vediamo la situazione del mondo come donne, per fare un quadro della situazione politica mondiale. Qual è la situazione del sistema dominante? E quella delle donne? E poi il 2° e il 3° panel riguardavano la rivoluzione delle donne intesa non come un processo chiuso.
Ci sono diverse lotte di donne o femministe del primo quarto del 21° secolo. Quali sono queste lotte? Contro cosa stanno combattendo? Come si stanno organizzando? E qui hanno partecipato donne provenienti dalle tre parti del Kurdistan, dall’Afghanistan, da diverse parti dell’America Latina, da Black Lives Matter, ecc.. Poi c’era il panel sul movimento delle donne curde che è stato dopo i seminari, durante il secondo giorno, quando abbiamo ascoltato le relatrici dal Rojava.
Se nella prima conferenza ci siamo concentrate maggiormente sui successi della rivoluzione e delle lotte delle donne, penso, ma questa è la mia opinione personale, che nella prossima conferenza di Berlino potremmo essere più autocritiche. Credo che dovremmo concentrarci più sulle sfide e sui lati deboli dei movimenti delle donne. Quali sono i nostri problemi? Perché siamo così disconnesse le une dalle altre? Perché non riusciamo a lottare insieme? Penso che questo approccio sarebbe più efficace, piuttosto che fare propaganda tra di noi. Dobbiamo provare a essere radicali l’una verso l’altra, critiche e autocritiche, per superare i problemi che abbiamo, e provare a parlare apertamente dei nostri problemi perché sì, ci sono questioni legate a problemi strutturali, alla situazione mondiale, ai crescenti attacchi del sistema patriarcale; ma poi ci sono molti problemi che ci riguardano.
Diciamo, per esempio, qual è l’effetto del liberalismo all’interno del movimento delle donne? Dobbiamo parlare di questo. E le relazioni di potere all’interno del movimento? E il nazionalismo, il religionismo, lo scientismo e il sessismo, le quattro gambe del capitale e dello Stato Nazione? In che modo stanno agendo per indebolire i movimenti delle donne? Oggi è in corso un attacco sistematico dei fondamentalismi contro le conquiste dei movimenti femminili, e sono in nome dell’Islam, del cristianesimo, dell’ebraismo. Per me non c’è differenza tra Erdoğan che attacca la convenzione di Istanbul e, ad esempio, la guerra degli evangelisti contro le donne in Perù o in Nord America. Stanno usando gli stessi argomenti, uno con la mascotte dell’Islam, uno con quella del cristianesimo. È lo stesso, è totalmente lo stesso. È religionismo. Non abbiamo problemi con la religione, ma sì con il religionismo. E quest’ultimo è usato al giorno d’oggi non solo da forze come Daesh.
Allo stesso tempo, osserviamo l’effetto del nazionalismo e dello sciovinismo. Ad esempio, dopo una conferenza che abbiamo tenuto in Medio Oriente lo scorso luglio, in Libano, ho pensato che dovremmo davvero pensare a come nazionalismo e sciovinismo ci separano le une dalle altre; in che modo queste ideologie stanno indebolendo o liberalizzando la lotta delle donne oggi. Penso che la conferenza di Berlino dovrebbe essere il terreno o la cornice per tale conversazione. Mentre parleremo di cos’è il confederalismo e di come costruirlo e dei suoi meccanismi, dovremmo anche chiederci quali sono i problemi e le sfide che vogliamo superare.
Perché, nel 2018, avete deciso di fare la conferenza proprio a Francoforte, uno dei centri del sistema capitalista-finanziario? Inoltre, ho avuto l’impressione, durante quelle due giornate, che sul palco ci fossero principalmente donne dal Sud globale, ma che il pubblico fosse composto fondamentalmente da donne e attivistǝ bianche e europee…
Sì, Francoforte è una delle capitali della finanza mondiale, e penso che a volte sia anche bene stare in questi posti, nei centri del sistema di governo globale. Tuttavia, i motivi principali per cui abbiamo scelto questa città sono stati pratici. Per una conferenza così grande con centinaia di partecipanti, ospitata in case di famiglie curde, è molto importante scegliere un luogo dove si è ben organizzate. E a Francoforte c’era il vantaggio che lì abbiamo un consiglio di donne curde molto forte. E dato che dovevano assumersi l’onere di fare il cibo, portare le persone a casa e cose del genere, era molto importante che fosse un’organizzazione locale forte. Questa è una risposta. Riguardo al perché ci fossero più, diciamo, donne europee alla conferenza … è stato qualcosa di cui abbiamo anche parlato all’inizio del processo interno di preparazione della seconda conferenza, quella di Berlino. Le ragioni erano organizzative, da un lato, perché l’ultima volta è stato soprattutto il movimento delle donne curde in Europa a organizzare la conferenza. Le relatrici provenivano da altre parti, ma chi ha organizzato la conferenza sono stati i gruppi o associazioni di donne curde o comitati della stessa Europa. Per la seconda conferenza, invece, abbiamo istituito qualcosa come un più ampio comitato di preparazione in cui abbiamo le nostre rappresentanti di tutte le comunità delle quattro parti del Kurdistan in Medio Oriente, in America Latina, e in tutti i luoghi in cui risiediamo. Quindi, questa volta la conferenza non è solo organizzata dalla parte del movimento curdo che sta in Europa.
Questa volta, per garantire i temi e la partecipazione delle donne di tutte le altre parti, come il Medio Oriente, tutte le nostre comunità sono state coinvolte nel processo, sin dall’inizio, in modo che da un lato si sentano responsabili dell’organizzazione della conferenza, ma dall’altro lato anche per garantire una più ampia partecipazione. Alla fine saranno di nuovo forse più donne dall’Europa perché la conferenza si svolge in Europa, ma questo è normale. Infine, ci sono questioni finanziarie, ma questa volta lavoreremo davvero per garantire una maggiore partecipazione anche da diverse parti del mondo.
Come vi finanziate?
Questa volta abbiamo cercato di iniziare prima per chiedere ad alcune fondazioni un aiuto finanziario. Il movimento delle donne curde ha molta esperienza nell’organizzazione di conferenze e così via, ma a Francoforte è stata la prima volta che abbiamo tenuto una conferenza così grande e quindi per la seconda abbiamo iniziato il processo di preparazione in modo diverso, prendendo lezioni dalla prima, valutando ciò che non era andato bene la prima volta, in modo da essere in grado di anticipare i problemi.
All’interno di questo processo di costruzione del Confederalismo Democratico Mondiale delle Donne, qual è il ruolo del movimento delle donne curde? È un gruppo di avanguardia o leaderistico? Se sì, non avete paura di riprodurre una certa centralizzazione del potere?
Non sono così spaventata perché abbiamo già molte alleanze con organizzazioni di donne in diverse parti del mondo e abbiamo già stabilito un certo livello di fiducia e di cultura democratica tra di noi. Inoltre, non stiamo portando una ricetta, o un piano fatto e finito, del tipo «ok, questa è la soluzione». Abbiamo una proposta basata sulle nostre esperienze e crediamo che possa essere un modello per organizzare il movimento transnazionale delle donne, ma forse non è così. Siamo aperte a pensieri diversi, a idee diverse, e penso che questo sia molto importante. Forse l’esito sarà molto diverso da quello che proponiamo, forse quello che inventeremo non avrà il nome di confederalismo democratico. E anche questa è una sfida, perché anche all’interno della tua stessa organizzazione, ti ritrovi, ad esempio, con qualcuno che dice: «Ok, preparerò tutto io, scriverò tutto io, gli altri devono solo venire e unirsi a me». Bene, questo, lo abbiamo detto sin dall’inizio, non lo vogliamo. Vogliamo costruire qualcosa insieme, a partire dalla nostra proposta. Il processo dovrebbe essere collettivo. Perché altrimenti creeremmo di nuovo una struttura che dipenderà da noi. E non sarebbe funzionale. È necessario collettivizzare.
Se il processo non inizia su base collettiva, non può portarlo avanti collettivamente e ricadrebbe sempre sulle stesse spalle. Si tratta quindi di superare il centralismo e i nuovi universalismi. C’è una differenza tra qualcosa di universale e creare un nuovo universalismo e penso che si dovrebbe stare molto attente a quest’ultimo. Possiamo dire che vogliamo costruire un movimento universale delle donne o una lotta universale delle donne, o che ci sono alcune questioni che sono universali, ma non vogliamo creare un nuovo universalismo a partire dal nostro localismo. Questo sarebbe molto pericoloso, specialmente per il movimento delle donne. Porterebbe a un nuovo potere e a ulteriori relazioni gerarchiche. Una cosa è nominare i bisogni, dire che per noi sarebbe importante fare questo e quest’altro, che vorremmo che le nostre lotte fossero così e così, altra cosa riguarda il come, e il come può essere scoperto solo collettivamente e con molto lavoro. Ad esempio, una necessità, a nostro avviso, è quella di avere un’accademia per il movimento mondiale delle donne.
Non abbiamo una struttura per l’educazione comune, per le riflessioni comuni. E una nostra idea, per esempio, è quella di costruire l’Accademia del Confederalismo Democratico delle Donne nel Mondo o l’Accademia della Rivoluzione delle Donne o qualcosa del genere. Un luogo dove, per esempio, una volta all’anno si tenga un’educazione comune con le portavoce delle organizzazioni di donne progressiste di tutto il mondo. Pensaci, voglio dire, pensa di avere qualcosa del genere in Rojava, per esempio, dove le donne del Kongra Star stanno insieme alle donne di Ni Una Menos, del movimento zapatista, o del movimento delle donne nere, del Sudan e così via, ti immagini? E dove non si tratta solo di condividere esperienze, ma di costruire insieme un processo teorico, chiedendoci quali sono le nostre sfide, quali sarebbero le soluzioni possibili, quale dovrebbe essere l’agenda della nostra lotta delle donne, quale potrebbe essere una nuova campagna o cose del genere. Avere una struttura per la riflessione e per la produzione teorica. Penso che questa sia una gamba importante del confederalismo delle donne.
Sì. Ed è anche una sfida al formato della conferenza. Spesso si fanno conferenze e si prendono tante decisioni, ma non si crea un organismo in grado di dar seguito a queste decisioni o di metterle in atto. Quindi, voglio dire, perché prendere decisioni senza avere un’organizzazione? Non ha senso. È solo propaganda. È solo la creazione di una nuova immagine dicendo: «abbiamo fatto questa grande conferenza con centinaia di donne e abbiamo preso tutte queste decisioni», ma le persone dimenticano subito le decisioni prese. Per questo, penso che la conferenza dovrebbe servire a creare un processo organizzativo. E forse non tutte le donne che vi partecipano alla fine vogliono far parte di un’organizzazione. Quindi, è importante aprire molti spazi di discussione prima della conferenza. Vedremo cosa esce dall’incontro stesso, a Berlino, ma credo che quello sia il luogo per dare inizio a un processo, ad esempio dicendo «noi, come organizzazioni o attiviste o femministe e così via, annunciamo, da questo momento in poi, il processo di costruzione del confederalismo delle donne. Pertanto, creeremo una rete che sará di questo tipo…», e così via. Perché magari quello che emergerà sarà la creazione di una rete, forse più funzionale. O magari decideremo di stringere alleanze, non lo so. Non è chiaro, ma non dobbiamo dimenticare che le conferenze sono funzionali.
L’obiettivo non è la conferenza in sé; questa serve per un altro obiettivo. Quale? Se l’obiettivo riguarda il confederalismo delle donne, e se il confederalismo delle donne non è solo un format in cui si annuncia la fondazione di un’organizzazione, ma un ampio cammino, allora prenderemo la strada di un processo a lungo termine. Dobbiamo essere chiare sui principi, sul nostro stile di lavoro, sui meccanismi, tutto questo necessita del tempo.
Stavi parlando della sfida di creare un equilibrio tra il livello locale e quello transnazionale della lotta. Come state affrontando questo problema all’interno del movimento?
È molto difficile. Lavorare nell’ambito transnazionale per me dovrebbe rappresentare un lavoro specifico. Non si può gestire come una sottoresponsabilità, perché richiede un enorme sforzo. Se ogni attivista ha 10 responsabilità diverse specifiche, non sará in grado di costruire ponti con altre lotte. E quindi il movimento transnazionale non funzionerebbe, una sola organizzazione finirebbe con l’assumersi tutto l’onere di farlo funzionare, di prendere l’iniziativa tutto il tempo. Sembrerebbe transnazionale, ma al suo interno ci sarebbe sempre una sola organizzazione che assicura costantemente il processo. Questo l’abbiamo vissuto anche noi. Poi si tratta anche di risorse, non solo finanziarie, certamente importanti, ma in termini di competenze delle organizzatrici. Parlare altre lingue, per questo lavoro, è molto importante. L’inglese soprattutto, o lo spagnolo, soprattutto se ci si trova in America Latina. E se non ci sono abbastanza persone con queste capacitá linguistiche è difficile.
Un’altra questione importante è legata al tema finanziario e alle relazioni di potere all’interno delle organizzazioni transnazionali di donne, perché, ad esempio, per un’organizzazione nel Nord globale forse è facile raccogliere fondi, ma nel nostro caso, non posso mettermi a chiedere soldi in Kurdistan per una conferenza delle donne. E questo vale per molte altre organizzazioni in Africa o in Medio Oriente o in America Latina. E a volte le compagne del Nord e dei paesi più ricchi hanno questo punto di vista eurocentrico che crea problemi e rapporti di potere. Anche se ci descriviamo come antimperialiste o socialiste o di sinistra, abbiamo ereditato comportamenti e riproduciamo rapporti di potere all’interno delle nostre stesse strutture, all’interno dei movimenti di donne o nelle organizzazioni transnazionali.
Per tutte queste sfide, quando si parla di creare un confederalismo transnazionale, non si tratta solo di coordinare bene il nostro lavoro. Si tratta di capire in che modo organizzare una lotta comune contro il sistema patriarcale di sfruttamento, e come realizzarla, come portare la solidarietà a un nuovo livello, al di là del sostegno reciproco, ma lottando davvero insieme, difendendoci a vicenda, creando qualcosa come l’autodifesa del movimento mondiale delle donne. Molti elementi sono necessari: da un lato c’é bisogno di meccanismi comuni, ma dall’altro c’é anche bisogno di una comprensione che non faccia pensare che la mia lotta nazionale o locale sia più importante, perché anche la lotta locale fa parte di una grande lotta transnazionale. Lo sfruttamento e l’oppressione che ovunque affrontiamo é l’espressione locale di un sistema globale di sfruttamento.
Come movimento delle donne curde, abbiamo molte esperienze nel lavoro di coordinamento e non riguardano solo soluzioni ma anche sfide. Ad esempio, secondo il confederalismo democratico ogni ambito dovrebbe avere una responsabilitá verso gli altri ambiti. È un sistema di responsabilità comuni e reciproche e tutti gli ambiti dovrebbero interagire per essere confederali, ma spesso questo non funziona nella pratica. La dimensione sanitaria, per esempio, dovrebbe avere buoni rapporti con le relazioni estere in modo da stabilire rapporti con altri movimenti nel mondo che stanno lavorando, mettiamo, su metodi di cura alternativi, oppure per poter costruire ospedali o rifornirsi di medicine; le relazioni internazionali sono importanti, eppure spesso la connessione tra queste diverse dimensioni non è così forte perché entrambe pensano al proprio lavoro, ai propri bisogni. Internamente affrontiamo molte sfide nel realizzare e vivere concretamente il nostro modello.
Se un comitato, diciamo di ecologia, deve avere rapporti con le comuni di base, il livello internazionale, i comitati sanitari, ecc., immagino sia necessario un gran numero di assemblee, riunioni e incontri, no? Come affrontate il rischio di sovraccarico di lavoro?
Questa è sicuramente una sfida e stiamo ancora lavorando per trovare soluzioni. Quello che vediamo nelle diverse esperienze è che, senza volerlo, si genera troppa burocrazia, troppe assemblee, troppe riunioni. Non c’é più tempo perché ogni giorno devi recarti a una riunione. Questa non è una soluzione. Quando si parla troppo si rende il ritmo molto lento e molto burocratico. E penso che uno dei motivi per cui abbiamo troppe riunioni sia che sono sempre le stesse persone che ci vanno. E qui sorge il tema della collettivizzazione delle responsabilità all’interno di ogni comune, o comitato, o ambito di lavoro. Se sono sempre le stesse persone che vanno alle riunioni, che vanno nei luoghi del processo decisionale, significa che c’è ancora una gerarchia che va superata condividendo le responsabilità. Anche all’interno del più piccolo nucleo ci vorrebbe una condivisione e un coordinamento democratico dei ruoli, o qualcosa del genere, in modo che ogni persona, ogni membrǝ dell’unità abbia le proprie responsabilità e il proprio ruolo. Stiamo ancora cercando di stabilire il nuovo sistema con i nostri vecchi comportamenti, con la nostra vecchia mentalità che è molto gerarchica e che rischia di riprodurre relazioni di potere. Per lo più quello che succede è che ci sono, ad esempio, dieci persone in un gruppo ma solo una o due vanno alle assemblee. Questo crea una separazione tra lavoro pratico e lavoro teorico e il confederalismo democratico vuole il superamento di tutti i dualismi.
Il Movimento delle donne curde sta anche organizzando conferenze sulle donne nel MENA (Medio Oriente e Nord Africa). Questo processo è legato alla costruzione del Confederalismo Democratico Mondiale delle Donne? Come colleghi questo percorso regionale alle conferenze in Germania?
Certo, è connesso, ma la questione mediorientale è molto complessa. Anche se siamo un movimento di donne del Medio Oriente, anche se abbiamo lì molti contatti e spesso persone del nostro movimento viaggiano per la regione o vi abitano, abbiamo ancora bisogno di approfondire le nostre relazioni con le organizzazioni delle donne. I sistemi di governo e potere in Medio Oriente sono intervenuti moltissimo nell’ambito dei movimenti o delle organizzazioni delle donne, soprattutto nei paesi attarversati dalla guerra, ma non solo.
C’è un fenomeno chiamato ONG-ization (ongizzazione) del movimento delle donne, di cui parlava Selay Ghaffar durante la prima conferenza a Francoforte portando l’esempio dell’Afghanistan. Spiegava che gli sponsor statali e le fondazioni delle ONG cercano di distruggere il radicale movimento delle donne dell’Afghanistan e di sostituirlo con organizzazioni non governative di donne delle élite, finanziate dall’Europa o da altri paesi per creare programmi che sono sconnessi da quelli delle donne che si muovono a livello di base. Lo stesso problema esiste in Iraq e nel Kurdistan meridionale, e più o meno in tutta la geografia araba. È un grosso problema. Io personalmente non avevo realizzato che ci fosse un così grande intervento dell’egemonia capitalista o occidentale attraverso le organizzazioni delle donne. Queste ONG sono diventate una fonte finanziaria per le donne che hanno competenze linguistiche e altre capacitá. Guadagnano molti soldi, ma all’interno della società non cambia nulla. Stanno promuovendo un approccio molto liberale. Questa è una questione.
L’altra ha a che vedere con il lavoro che ancora dobbiamo fare in Medio Oriente per diffondere le teorie di Öcalan. In Europa le persone conoscono meglio Öcalan perché il movimento curdo ha più di 40 anni di esperienza e una storia di organizzazione, mentre in Medio Oriente è solo da un paio d’anni che il movimento ha iniziato a impegnarsi seriamente. Quando dico Medio Oriente, non intendo solo il Libano, dove il PKK è abbastanza radicato perché la scuola centrale del partito era lì fino al ’92 e Öcalan aveva lì una sede. In Libano abbiamo molte relazioni attive, ma non in posti come l’Egitto, per esempio, o in Tunisia. È un processo che abbiamo appena iniziato e ci siamo rese conto, ad esempio durante la seconda conferenza che abbiamo organizzato nel MENA, che tra noi e molti movimenti di donne del Medio Oriente, ci sono delle grosse differenze di terminologia, come se parlassimo lingue diverse. Quando parlavamo di fascismo, per esempio, alcune ci dicevano: «Come puoi affermare che Erdoğan é un fascista?». O quando parlavamo di nazionalismo in modo negativo… per molte donne il nazionalismo è qualcosa che sta costruendo la loro identità quindi molto importante. Oppure quando parliamo di liberazione delle donne, in Medio Oriente molte donne preferiscono terminologie più liberali e, in un certo senso, questo ci ha mostrato che dobbiamo fare più lavoro di riflessione ideologica insieme. E quando dico riflessione ideologica intendo costruire più opportunità con le donne di tutto il Medio Oriente per parlare dei problemi delle donne: come analizziamo la questione delle donne? Cosa intendiamo per sistema patriarcale? Come intendiamo lo Stato-Nazione? Al termine di questa seconda conferenza fu presa la decisione di stabilire quello che abbiamo chiamato Alleanza Democratica delle Donne del Nord Africa e del Medio Oriente.
Questo processo è quasi terminato perché l’idea era quella di chiedere a ciascun paese presente alla conferenza di eleggere una propria rappresentante per partecipare a un comitato per sei mesi per stabilire i principi, l’agenda e la road map di questa alleanza. Questo processo, per quanto ne so, è appena terminato. Ora inizieranno con un lavoro pratico, per annunciarsi pubblicamente. Perché hanno riflettuto molto duramente negli ultimi sei mesi su come lavorare insieme e alla fine un riferimento importante per organizzarsi è stato il confederalismo democratico, anche se non si adotterà questo nome.
La proposta della conferenza del MENA è arrivata dal Movimento delle donne curde, giusto? Anche in questo caso, come avete scelto le partecipanti? Avevate già alleanze che volevate rafforzare? Avete invitato anche nuove organizzazioni?
Nel 2013 c’era stata la prima conferenza del MENA, a Diyarbakir, quindi per questa seconda avevamo i contatti di quelle che avevano partecipato alla prima, e poi abbiamo intrapreso anche altre relazioni perché, prima della conferenza, delegazioni di donne curde si sono recate in diversi paesi come Egitto, Tunisia, Marocco, Giordania e hanno incontrato quelle organizzazioni di donne che avevano già partecipato alla prima conferenza e anche altre di cui hanno sentito parlare. Quindi, è stato prima della conferenza che diverse delegazioni hanno svolto il lavoro di connessione e costruzione di incontri.
E le donne che lavorano a livello locale sono anche loro coinvolte nelle reti transnazionali o è più un lavoro individuale delle responsabili di questo ambito, come nel tuo caso?
No, coinvolgiamo sempre tutte. Ad esempio, se nel nostro comitato o nella nostra associazione una persona è responsabile di questo tipo di lavoro, allora prima di ogni suo incontro o assemblea, ci si incontra con il comitato e si discute sul tema e si cerca di costruire una visione collettiva cosicchè il lavoro sia svolto secondo una visione comune. Non diciamo «questa è una mia responsabilità, faccio da sola», condividiamo sempre tutto. Perché c’é sempre qualcosa che può sfuggire a una persona e a cui qualcun’altra potrebbe pensare.
È molto importante superare un approccio individualistico. A volte il nostro lavoro puó diventare personalistico e finiamo col centralizzare tutto rischiando che se, ad esempio, domani una si ammala, il lavoro scompaia. Chi ha un approccio individualistico non vede i punti di forza di un movimento collettivo e non sente il bisogno di chiedere allǝ colleghǝ cosa pensano di un problema. Oppure ci si rivolge solo a chi crediamo sia più competente, non chi magari non ha idea dell’Europa perché ha sempre vissuto in un villaggio; a lei non si chiede presupponendo che tanto non sappia rispondere. Questo approccio non va bene. Dobbiamo cambiare i nostri comportamenti, il nostro modo di pensare e di lavorare. Dobbiamo partire da noi stesse per creare qualcosa di nuovo e di realmente democratico.
In che modo Jineolojî, la scienza delle donne e della vita, si inserisce in tutto questo processo?
I Comitati di Jineolojî sono naturalmente parte della preparazione delle conferenze, in forma autonoma. È molto importante per noi garantire che le conferenze siano basate sull’approccio di Jineolojî, avere il punto di vista di Jineolojî e che Jineolojî possa portare idee e riflessioni per questo lavoro, rispondendo a domande come: quali sono i problemi delle donne nel mondo? E altre. Basandoci sugli spunti offerti dalla Jineolojî, è importante che noi donne creiamo un modo alternativo di lavorare insieme a livello internazionale o transnazionale. Non vogliamo generare la brutta copia dell’uomo burocrate, con il suo abito da lavoro e la sua 24 ore. Vogliamo che tutte le nostre comunità e le nostre delegazioni transnazionali riflettano la natura democratica dell movimento stesso, e tutti i diversi elementi al suo interno. Tuttavia, come membro del Comitato di Jineolojî, penso che siamo molto brave a ricostruire storie e riflettere sulle più diverse situazioni, ma siamo ancora deboli nel trovare soluzioni. Su questo credo che dovremmo lavorare di più tra Jineolojî e le Relazioni Internazionali. Perché in questo processo di costruzione di un confederalismo mondiale delle donne Jineolojî ha un ruolo principale nel trovare proposte e soluzioni: come dovrebbe funzionare il confederalismo democratico delle donne? Come immaginiamo i meccanismi comuni? Come dovrebbe essere il rapporto tra i gruppi di donne? Come creare l’equilibrio tra il locale o il particolare e il transnazionale o l’universale? Penso che Jineolojî dovrebbe impegnarsi di più per trovare risposte a queste domande. Perché, e lo vedo anche quando scrivo articoli, è così facile fare ricerca e mostrare qualcosa nel suo contesto storico dato, ma è più difficile proporre soluzioni per i problemi attuali.
Il nostro ruolo, e in particolare quello di Jineolojî, non consiste solo nel descrivere una situazione. Dobbiamo trovare le risposte alle domande e dobbiamo lavorare di più in questo. Metà del nostro lavoro è guardare alle radici dei problemi, ma l’altra metà è guardare al futuro. Che tipo di futuro vogliamo e come lo raggiungeremo? Noi come Jineolojî dovremmo essere più ambiziose in questo. Perché questa è anche una delle nostre principali critiche alla scienza attuale: non è in grado di produrre soluzioni ai problemi e alle domande della società. Un approccio alternativo alla scienza dovrebbe essere capace di farlo. Ad esempio, dovremmo interrogarci su come definiamo realmente la solidarietà transnazionale tra le donne. Un paio di giorni fa stavo parlando con una compagna afghana che ha dovuto lasciare il paese.
Prima del regime dei talebani era continuamente minacciata per il suo impegno radicale nella lotta. Stare in Afghanistan non era più sicuro per lei, quindi ha preso la decisione di lasciare il paese, ma si sentiva molto in colpa. Le ho detto che aveva già fatto molti sacrifici con il suo impegno e che qualche volta il sacrificio per continuare a lottare consiste nel lasciare il proprio paese. Esiste un detto: «finché lotti, vivi», e penso che, secondo il senso profondo di questa frase, non sia importante dove una si trovi. Sarebbe stato meglio per lei se fosse potuta rimanere in Afghanistan, ma, nella situazione attuale, nel suo paese non avrebbe potuto lavorare e lottare. Inoltre, le ho detto che per noi è molto importante che il movimento delle donne afghane sia all’interno del processo di costruzione del confederalismo democratico. Sai, nell’estate del 2021 eravamo tutte molto arrabbiate per quanto stava succedendo in Afghanistan, e abbiamo cercato di mostrare la nostra solidarietà. E penso che sia stato importante che il movimento delle donne curde non facesse solo dichiarazioni, ma si mobilitasse in modo più concreto.
Abbiamo realizzato proteste e azioni in solidarietá con l’Afghanistan, ma la verità è che non abbiamo potuto davvero aiutare le donne nei loro territori. Quindi, tornando all’idea di confederalismo delle donne o di solidarietà transnazionale, mi chiedo: che cos’è davvero la solidarietà? Si tratta solo di fare dichiarazioni o andare in strada a fare una manifestazione, così poi ci si puó sentire meglio perché si é fatto qualcosa quando in realtà non si è cambiato nulla? A partire dalla situazione delle donne afghane ho riflettuto molto sui modi concreti di lottare insieme, sulla solidarietà tra donne e di cosa parliamo quando diciamo solidarietà. Ho pensato che c’è ancora molto da fare per avviare processi concreti di trasformazione, per intervenire come donne nel fare politica a livello internazionale. Non si tratta solo di proteste. Abbiamo bisogno di nuovi modi per influenzare dal basso la situazione e la realtà dei territori.
Immagini da Women Weaving the future