ITALIA

“Costruire un linguaggio collettivo che al momento non c’è”: intervista a Isabella Consolati

Dal 27 al 29 di ottobre si terrà a Bologna il meeting della Transnational Social Strike Platform. Isabella Consolati riflette sulla sfida transnazionale che mette in discussione le forme organizzative esistenti, a partire dal quadro attuale di ricostruzione post-pandemica e guerra. Il TSS si propone di farlo da dentro le lotte in una comunicazione costante tra reti e collettivi in Europa e oltre

Dalla Francia alla Germania, passando per la Spagna, in Europa sono riprese con forza le lotte sul salario e il welfare, in primo luogo la previdenza. Lotte straordinarie, in particolare quelle francesi, che non riescono mai a superare i confini nazionali. Assistiamo a una tendenza inarrestabile alla ri-nazionalizzazione dei conflitti sociali o ci sono segnali che indicano un’inversione di tendenza? Cosa si propone di fare il TSS per favorire l’inversione?

Non credo che siamo di fronte a una tendenza inarrestabile. L’impressione che lo sia risente spesso di letture che non riescono a cogliere, dentro a insorgenze che di per sé hanno una portata nazionale, le tendenze che prefigurano nuovi modi di fare movimento e i segnali transnazionali che possono essere potenziati costruendo connessioni più ampie e durature. Questo è uno degli obiettivi per cui prendiamo parte al progetto di organizzazione ed elaborazione strategica transnazionale che la TSS platform propone. Già da tempo, sicuramente da quando la TSS platform è nata nel contesto dei movimenti contro l’austerity dopo la crisi finanziaria globale del 2008, è evidente il cortocircuito per cui il piano rivendicativo dei movimenti e dei sindacati è per lo più strutturato su base locale o nazionale mentre i processi decisionali, i flussi finanziari, le controparti si muovono ormai su un piano compiutamente transnazionale. Fin dall’inizio, la TSS platform, più che proporre una propria ricetta di ricomposizione, è stato il luogo in cui abbiamo potuto discutere con lavoratori e lavoratrici, migranti, attiviste e attivisti da molti paesi europei e non solo su come praticare un terreno transnazionale di iniziativa, sul quale trovare punti di impatto reali e non interfacce immaginarie, e sul quale costruire iniziative capaci di incidere e durare nel tempo.

È proprio il carattere oggi inaggirabile della “sfida transnazionale” – a cui è dedicato uno dei momenti centrali del meeting di Bologna – ciò che porterà in Italia centinaia di attiviste e attivisti da più di 20 Paesi.

Pensiamo che questa sfida debba essere colta tanto con la disponibilità a mettere in discussione le forme organizzative esistenti, quanto calandola nella congiuntura presente, una congiuntura marchiata dal combinato disposto di ricostruzione post-pandemica e guerra, uno dei principali fattori di quella che chiamate “rinazionalizzazione” dei conflitti.

L’Unione Europea ha colto l’occasione della guerra per regolare i conti con la forza accumulata da lavoratrici e lavoratori durante la pandemia e chiudere con qualsiasi tentativo di affrontare la crisi della riproduzione sociale in ottica anche lontanamente redistributiva. La logica di guerra ha intensificato quella coazione al lavoro che era già stata presentata come il solo modo per uscire dalla pandemia. Contro questa intensificazione e contro il concomitante aumento del costo della vita dovuto a inflazione e prezzi dell’energia, ondate di scioperi hanno investito l’Inghilterra, la Germania, la Grecia, la Romania: chiedendo salari più alti soprattutto in quei settori maggiormente messi sotto sforzo durante la pandemia. La Francia è stata bloccata per mesi dalle proteste contro la riforma delle pensioni voluta da Macron. Si possono leggere queste insorgenze come immancabilmente nazionali, lamentare il fatto che là dove ci sono state le conquiste esse hanno riguardato alcuni settori e alcune limitate misure di calmieramento dei prezzi e non un discorso generale sul welfare, si possono segnare con la penna rossa i limiti delle lotte in corso.

Dentro la piattaforma TSS siamo però impegnate e impegnati in un altro tipo di lavoro politico: da dentro le lotte e gli scioperi, in maniera continuativa, attiviste e sindacalisti si sono impegnati in una comunicazione costante tra reti e collettivi in Europa e oltre. Insieme cerchiamo di valorizzare quegli elementi che favoriscono connessioni e letture comuni di contesti e lotte apparentemente specifici. Qui avviene una comunicazione costante tra soggetti in lotta per costruire faticosamente un linguaggio collettivo che al momento semplicemente non c’è. Questa è il nostro modo pratico di sperimentare un nuovo internazionalismo, che non può essere quello storico delle organizzazioni politiche che cercano un punto medio di incontro tra le loro diverse pratiche nazionali, né restare sulla carta, ma deve avere il coraggio di inventare nuove forme di organizzazione. In questo senso stiamo provando a praticare il transnazionale come qualcosa di ulteriore rispetto all’internazionale, cioè all’accordo tra organizzazioni nazionali.

La guerra sta generando morte e catastrofe in Ucraina, da pochi giorni in Israele e nella striscia di Gaza; non è tra l’altro escluso che cominci a farlo anche altrove, nell’Indo-Pacifico per esempio. Ma la guerra sta anche destabilizzando l’economia europea, favorendo l’onda nera delle destre sovraniste (vedi la recessione tedesca e l’affermazione in Assia di AfD). Possibile battersi per un’Europa federalista e solidale senza sconfiggere la guerra e affermare, con ogni mezzo possibile, la pace? 

Crediamo che la questione della guerra debba oggi essere affrontata senza presupporre un esito definito, come sembra suggerire la domanda indicando in un’Europa federalista e solidale qualcosa per cui battersi, che nelle condizioni attuali di un’Europa “in guerra” appare quanto meno irrealistico, se non apertamente eurocentrico. Abbiamo infatti il problema di capire di che cosa parliamo oggi quando diciamo “Europa”, calandolo nelle condizioni materiali di milioni di lavoratori e lavoratrici, europei e non. All’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina, la piattaforma del TSS ha dato avvio all’Assemblea permanente contro la guerra, un’iniziativa che ha coinvolto centinaia di attiviste e attivisti da molti paesi europei e non solo, con una significativa presenza dai paesi dell’Europa dell’Est, dei Balcani, del Caucaso, dell’Asia Centrale. Abbracciare la prospettiva transnazionale ci ha permesso di disinnescare i terribili conflitti che la guerra ha prodotto anche tra compagni e amici, soprattutto in certe zone più prossime all’Ucraina, ma non solo. Forti del lavoro politico del TSS, forti di quel noi transnazionale in costruzione che rifiuta le identificazioni con questo o quello Stato, abbiamo proposto una lettura della guerra in Ucraina che la guardasse non con gli occhi della geopolitica ma dalla prospettiva di chi ne subisce e ne rifiuta gli effetti attraverso i fronti e gli schieramenti. Nel “Manifesto per una politica transnazionale di pace”, scritto dall’Assemblea per raccogliere gli esiti di mesi di discussione, abbiamo scritto che “l’Europa è parte dei nostri problemi, non la soluzione”.

L’UE è vista da molti come una possibilità, che si esprime anche nella migrazione. Al tempo stesso, l’UE è tra i principali attori di politiche neoliberali, di privatizzazione e attacco ai migranti. Va poi rilevato come già oggi l’Europa vada ben oltre i suoi confini istituzionali, e la ramificazione delle sue politiche e dei suoi rapporti può essere compresa solo sul piano transnazionale.

Quando la TSS Platform ha mosso i suoi primi passi, considerava l’Europa come primo orizzonte di lotta e ha puntato ad abbattere il muro che divideva le esperienze di organizzazione sul piano europeo da ciò che accadeva ad Est. Ma col tempo, proprio l’intensificarsi delle connessioni transnazionali coltivate dal TSS ci ha portato a mettere in discussione questo assunto per guardare l’Europa oltre l’Europa, dunque in direzione contraria a quanto, nel frattempo, hanno fatto in molti a sinistra, abbracciando l’antieuropeismo. Nel confronto con i migranti, con attivisti dalla Turchia, o dalla Georgia, si è posto il problema di costruire uno spazio transnazionale che riconosca le aspirazioni di coloro che vedono nell’Europa una possibilità e, al tempo stesso, costruisca percorsi di lotta in cui possano unire le forze con coloro che si oppongono al progetto neoliberale europeo di sfruttamento. Un momento importante di questo confronto è stata l’assemblea della PAAW dello scorso 4 giugno, il cui risultato è stato la pubblicazione dell’ebook “Life and Politics in times of War. The Post-Soviet Situation, Eastern Europe and Former Yugoslavia”. Se guardiamo alla questione europea dal punto di vista dei paesi dell’ex blocco sovietico, dell’Europa orientale e dei Balcani, possiamo vedere come dietro alla promessa di integrazione economica e istituzionale nell’UE si producano e riproducano continuamente differenze e gerarchie. L’opposizione alla guerra non si declina in questo senso in difesa dell’Europa, che ci sembra francamente indifendibile, ma nel tentativo di costruire una politica transnazionale di pace. Con questo intendiamo uno spazio di confronto, di costruzione di discorso e di pratiche organizzative con l’obiettivo di opporsi alle politiche di guerra dando voce ai soggetti che le subiscono e che vi si oppongono, anche se non direttamente nella forma del pacifismo o dell’antimilitarismo.

Il quadro che ci troviamo di fronte impone di guardare alle guerre non come eventi isolati, ma nel contesto di una Terza guerra mondiale che può non darsi ovunque nella forma di guerra guerreggiata ma impone la logica di guerra come leva per sopprimere o neutralizzare il movimento sociale. Parlare di Terza guerra mondiale non significa che tutti vi stiano prendendo parte, né che i contesti di guerra siano unificati da alleanze globali, ma che la guerra è oggi parte del tentativo impossibile di stabilizzare un ordine che non è riducibile a un nuovo ordine geopolitico o di relazioni internazionali, ma riguarda la ridefinizione del rapporto tra Stati, capitale e lavoro vivo. Questo ha come primo risultato l’annullamento dei percorsi di emancipazione dentro la politica di guerra, il nazionalismo, la difesa dello Stato, o di presunti “valori” occidentali o democratici. Opporsi alla guerra vuole dire oggi affermare con forza la riapertura di questo spazio. Per questo va rifiutato il riemergere di letture campiste. Il no alla guerra, l’appello immediato alla cessazione dei massacri e della distruzione, siano in Ucraina o a Gaza, deve andare insieme al rafforzamento di infrastrutture politiche per la comunicazione e l’organizzazione transnazionale delle lotte.

La NATO dei 9 di Bucarest è anche, in buona parte, l’Europa conservatrice che vuole rompere la colazione popolari-socialdemocratici a Bruxelles e Strasburgo. L’Italia di Giorgia Meloni, pur non essendo tra i 9 di Bucarest, lavora fortemente in questa direzione. A partire da questo quadro, nel dibattito del TSS, le prossime elezioni del Parlamento europeo suscitano attenzione? 

La risposta è legata strettamente a quanto detto in precedenza. La politica di guerra, la guerra contro i migranti, la riattivazione post-pandemica delle politiche neoliberali sono tutte il prodotto della coalizione tra popolari e socialdemocratici. Con questo non intendo dire che i risultati elettorali siano indifferenti, soprattutto se ad affermarsi sono movimenti apertamente razzisti e patriarcalisti, ma dobbiamo essere consapevoli delle alternative attualmente in campo e di cosa queste producono nel lungo termine. Il tema dell’ascesa – o è meglio dire del consolidamento – delle destre, che sarà discusso nella plenaria del meeting di Bologna, non riguarda semplicemente i risultati elettorali di questo o quel partito di estrema destra, o il trionfo di forze politiche ideologicamente legate al fascismo, ma uno spostamento a destra dell’intero sistema partitico, come effetto delle politiche di guerra e sintomo di una debolezza dei movimenti a livello transnazionale. L’idea un po’ essenzialista che vi sia uno scontro tra un’Europa solidale e dei diritti e un’Europa autoritaria e sovranista, che poi ricalca lo scontro tra i paesi europei occidentali e quelli orientali dell’UE, non porta a nulla. D’altra parte, l’ascesa delle destre non è un fenomeno europeo, ma globale e quindi transnazionale. Investe alcuni paesi europei ma anche l’Argentina, così come ha investito gli Stati Uniti e il Brasile. Non si può dunque ridurlo a una questione intraeuropea. Quando prima dicevo che dovremmo rompere la cappa geopolitica intendevo anche contestare queste letture. La piattaforma TSS insiste nella ricerca di terreni di comunicazione e organizzazione oltre e attraverso le partizioni geopolitiche.

Dobbiamo considerare come oggi si muovono e lottano in diverse condizioni i lavoratori, le donne, i migranti, le persone lgbtq+, a Est e a Ovest, e costruire percorsi che sappiano formare orizzonti condivisi che non lascino al nazionalismo o all’europeismo liberale le uniche possibilità di espressione.

L’affluenza elettorale in Polonia mostra chiaramente come la società polacca non abbia vissuto passivamente l’autoritarismo del governo, la guerra in Ucraina, l’afflusso di rifugiati e le crudeltà contro i migranti. Tuttavia, le difficoltà che i movimenti sociali stanno vivendo non devono lasciare il campo all’idea che la competizione elettorale sia l’unica possibile. In questi anni in Polonia ci sono stati esempi importanti, a partire dai coordinamenti tra lavoratori Amazon in comunicazione con la Germania e dallo sciopero delle donne contro le restrizioni all’aborto, la black protest che ha dato avvio al movimento globale dello sciopero femminista. Ricordo a questo proposito, che il primo incontro della piattaforma TSS si è svolto a Poznan. Si è trattato di una scelta di campo molto precisa: allora dicevamo che volevamo “rompere il muro di Berlino” che stava dividendo i movimenti tra Est e Ovest. Da allora l’impegno a sfondare i confini della militanza centrata sull’Europa occidentale è stata costante. Poco più di un anno fa un altro momento decisivo di questo sfondamento è stato il meeting di Sofia. Di fronte alle alleanze geopolitiche, sempre comunque molto provvisorie ultimamente, o alle sfide elettorali, la domanda che dentro la TSS Platform ci poniamo è: che cosa facciamo noi? Uno dei modi pratici è ingaggiare una comunicazione costante e ostinata con compagni e compagne che vivono al di là di presunte frontiere insuperabili e di barriere di civiltà. Un gesto semplice ma non molto praticato.

“Terza guerra mondiale in frammenti” e caos sistemico si connettono con la violenza dei muri, dei respingimenti, delle detenzioni illecite, delle decine di migliaia di donne e di uomini, di bambini, che perdono la vita alla ricerca di una vita lontana da sciagure belliche e fame. Le “lotte di confine” saranno al centro dell’assemblea bolognese del TSS?

Sì senz’altro. Le lotte dei e delle migranti sono dall’inizio al centro dell’iniziativa del TSS, tanto che lo sciopero del lavoro migrante è stata una delle esperienze che ha ispirato quel ripensamento dello sciopero come sciopero sociale e transnazionale che sta alla base della piattaforma. Quando la piattaforma è nata, nel 2015, l’Europa era travolta dalla cosiddetta “tempesta dei migranti”, l’arrivo in massa di migranti dalla Siria e non solo. Mentre in molti ai tempi hanno ripiegato sulla solidarietà locale – penso a molti collettivi tedeschi che solo recentemente hanno riconosciuto proprio in quel ripiegamento la causa di una crisi di iniziativa da ribaltare riaprendosi alla dimensione transnazionale –, il TSS ha sostenuto che i movimenti dei migranti sono oggi la più importante manifestazione di uno sciopero transnazionale in corso e il più rilevante segnale che la società è sconquassata da una pretesa di libertà che oltrepassa di gran lunga le strutture organizzate. Sono queste ultime a doversi aprire e rendersi capaci di ospitare e dare forza e continuità a questa pretesa, a farsi piattaforma di lotte e movimenti in corso. Durante la pandemia dentro alla TSS Platform ha preso vita il Transnational Migrants Coordination che coinvolge collettivi di migranti dall’Europa, dal Nord Africa e dalla Turchia per andare esattamente in questa direzione. Una pretesa in massa contro cui peraltro si scontrano da anni tutti i tentativi di governo delle migrazioni, che in tempo di guerra sono diventati sempre più apertamente razzisti e violenti. Anche qui è centrale il modo in cui la logica di guerra si intreccia con processi di più lungo corso.

La guerra è mobilitata per giustificare la riorganizzazione del governo delle migrazioni in atto. La nuova esplosione del conflitto israelo-palestinese ha avuto come primo effetto, oltre alle morti e alle bombe, la recrudescenza del razzismo contro migranti arabi e non solo, e consentirà di vendere ancora una volta come sicurezza la morte programmata e la violenza sistematica ai confini. Ora come nel 2015, però, la solidarietà con i morti in mare o lo scandalo bianco per la riapertura dei CPR non basta. In un contesto sempre più segnato dalle politiche di guerra, bisogna attrezzarsi da un lato per sostenere il coraggio di uomini e donne che rifiutano, in ogni punto del globo, di farsi arruolare in questo gioco mortale. Dall’altro, c’è bisogno di una piattaforma transnazionale in cui queste esperienze di lotta e di libertà si possano incontrare e possano affrontare insieme il problema di come far sì che il disordine prodotto dal movimento in massa di centinaia di migliaia di uomini e donne non diventi solo la giustificazione per un surplus di razzismo, violenza, autorità e gerarchia, ma il punto di partenza per rovesciarli.

I movimenti globali più importanti del nostro tempo sono quello transfemminista e quello ecologista: in che modo il TSS può fornire strumenti utili a entrambi?

Il movimento femminista e transfemminista e quello ecologista per noi sono stati e sono innanzitutto l’indicazione che nella società si muovono istanze che non possono più essere chiusi nelle strutture organizzate che conosciamo e anzi le mettono in movimento richiedendo una decisa innovazione. Quei movimenti hanno attraversato e continuano ad attraversa la TSS Platform, che ha cercato di cogliere l’importante innovazione che essi hanno proposto. Negli scorsi anni, infatti, hanno risignificato politicamente lo sciopero come processo che non si limita all’interruzione del lavoro, ma raccoglie un rifiuto più ampio che investe la riproduzione sociale, nella sua organizzazione patriarcale, razzista e capitalistica, produttrice di violenza, morte e devastazione climatica. Tanto più di fronte all’aumento esponenziale della violenza maschile – che reagisce a pugno duro alla pretesa di libertà delle donne che la sfidano – e di fronte all’uso strumentale della guerra per irrigidire il comando capitalistico sulla transizione ecologica, recuperare il significato progettuale dello sciopero sociale transnazionale, riaffermare l’ambizione ad accumulare forza e la capacità di interrompere i processi sociali di riproduzione di oppressione, dominio e sfruttamento, è quanto mai importante. Alla piattaforma TSS partecipano attiviste e attivisti che hanno animato in questi anni lo sciopero femminista – dalle femministe polacche alla Feminist Anti-War Resistance in Russia, alle lavoratrici domestiche migranti in Spagna e Belgio – e che sono impegnate/i in lotte ecologiste.

Nella piattaforma TSS questi movimenti si confrontano in maniera continuativa sull’intreccio e il legame tra diverse facce dell’attuale regime di accumulazione e di riproduzione sociale.

Sappiamo, ad esempio, che l’intensificazione del razzismo e del patriarcato non è indipendente dalla repressione sempre più intensa a cui sono sottoposte le iniziative di sostegno alla lotta climatica. Sappiamo che su di essi pesano la logica e le politiche di guerra che tutti gli Stati stanno abbracciando. Il primo strumento che la piattaforma del TSS offre è uno spazio in cui sia possibile affrontare collettivamente i terreni comuni di lotta per costruire una prospettiva generale, una comunicazione politica ampia e continuativa, che possa dare una direzione comune alle nostre iniziative. A questo proposito, uno dei momenti del meeting sarà dedicato a una discussione su “The reproduction of our lives: subverting patriarchal, racist and neoliberal domination” in cui lotte femministe e migranti si incontreranno per affrontare l’intreccio tra patriarcato e razzismo, anche nella prospettiva di rompere la settorializzazione e specializzazione delle lotte.

Anche sul fronte ecologista: c’è un tentativo in corso di contrapporre le ragioni di lavoratori e lavoratrici in settori inquinanti a quelle degli e delle attiviste per il clima, per disinnescare il potere dirompente delle une e degli altri. “La transizione verde chiede sacrifici”, si dice. Recentemente gli scioperi che hanno investito il settore dell’auto negli Stati Uniti hanno esattamente rifiutato questa necessità: il passaggio all’elettrico non può essere usato per tagliare i salari, licenziare, ristrutturare la produzione ai danni dei lavoratori. Significa che gli operai del settore sono anti-ecologisti? Oppure che stanno lottando per guadagnare potere nella transizione verde, contro un capitale che è il principale responsabile della devastazione climatica e ora pretende di usare la transizione stessa per ottenere ancora più autonomia e libertà di azione? Queste sono domande cruciali la cui risposta richiede uno sforzo di superare i confini dei terreni di iniziativa e delle organizzazioni, richiede una piattaforma transnazionale in cui impegnarsi in una discussione che coinvolga diversi soggetti, diversi paesi e che non retroceda di fronte alle contraddizioni reali rifugiandosi in un universo immaginario in cui si pianificano rassicuranti alternative, ma calandosi dentro ai rapporti di forza qui e ora. Questo è ciò che ci proponiamo di discutere nella sezione del meeting dedicata ai “Climate Class Conflicts”.

Immagine di copertina da Pagina FB TSS