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ITALIA
Cosenza, vite ai margini tra le maxi-opere e la cementificazione selvaggia
Viaggio nella città a due facce dove si decideranno i destini della regione chiamata a breve alle urne. A un passo dal ponte di Calatrava, dal Museo all’Aperto e dai lustrini del salotto buono, le occupazioni raccontano il riscatto possibile e sperimentano un’integrazione altrove difficile. Così gli italiani convivono con gli stranieri. E sperano nel Reddito di cittadinanza
«Prendocasa col Rolex». Non è il remix di un celebre rap meneghino ma l’attacco che il sindaco di Cosenza – o chi ne fa i social –, Mario Occhiuto, ha rivolto, l’altro giorno, alle associazioni che da anni sperimentano la convivenza e l’integrazione nelle case occupate della città.
Un popolo che vive ai margini eppure in pieno centro, con pensioni d’invalidità o sussidi da fame, altro che Rolex. Italiani e stranieri insieme, studenti e ragazze madri, disoccupati e precari. È come se la situazione di disagio comune avesse permesso di superare il razzismo e la paura del diverso da sé. E così chi sperava nella guerra tra poveri ha dovuto incassare la vittoria degli occupanti, almeno per adesso: in queste ore gli sgomberi sono stati scongiurati grazie a un’opera di diplomazia tra comitato, prefettura ed enti locali. Tutto rimandato, con la promessa di trovare sistemazioni alternative.
Gli invisibili di Cosenza intanto continuano ad aspettare un alloggio pubblico, mentre la cementificazione selvaggia fa sedimentare palazzi su palazzi che puntualmente restano vuoti, tra i cantieri fantasma che a queste latitudini partono e periodicamente si bloccano a colpi di Tar, a un passo dai lustrini e dalle mega-opere come il futuribile Planetario affacciato sul Ponte di Calatrava, «la banalità più alta d’Europa» come l’ha definita Francesco Merlo su Robinson.
Perché per un ponte – costruito con fondi pubblici ex Gescal, per paradosso proprio quelli dell’edilizia pubblica – che collega il nulla della periferia a quello di una probabile (ennesima) lottizzazione, c’è un mega appalto che dovrà ridisegnare viale Mancini, arteria eponima dell’asse sud-nord intitolata al compianto ras socialista Giacomo. Vent’anni fa era “viale Parco”, l’idea è di eliminare la parola “viale” e con essa le automobili.
La speranza è che questo “Parco del benessere” – accanto a quello “della scienza” con il planetario che sarà inaugurato il 21 marzo – non sia come la “Città del Sole” dei migranti vagheggiata in rendering 3D dal sindaco Occhiuto, allora al primo mandato e ora pronto a correre da governatore. Tanti di quei progetti sono rimasti su carta, anzi su slide.
Ora il forzista, fratello del deputato Roberto, sembra il più papabile per il dopo-Oliverio e a Cosenza molto probabilmente si giocherà la partita candidature. Soprattutto si deciderà il destino politico della regione che sarà.
Prima di finire in una bufera giudiziaria – ancora appalti, cemento e maxi-opere – che oggi lo obbliga a risiedere nella nativa San Giovanni in Fiore, il presidente Mario Oliverio (Pd) era lo sfidante naturale del sindaco suo omonimo, già pronto a scalare il partito berlusconiano stranamente in salute, visto che in Calabria la realtà si muove sempre in direzione ostinata e contraria.
Cosenza sarà l’ago della bilancia. Città di calcio e di cantieri: se il sindaco gode di ottimo seguito alle urne (il 53% del 2011 al ballottaggio è diventato 59% al primo turno nel 2016) e un’altrettanto vasta claque social che trolla l’opposizione da tastiera, in molti non gli hanno perdonato la figuraccia delle zolle dello stadio San Vito, con la prima partita del ritorno in B persa a tavolino contro il Verona per impraticabilità del terreno. E sputtanamento nazionale. «Toccategli tutto ma non il pallone» – recita un refrain sul cosentino tipo.
L’elettore medio, invece, apprezza le politiche occhiutiane e chiude entrambi gli occhi davanti alle spie di degrado che gli si accendono sotto il naso. Accadde con il villaggio rom germogliato lungo il Crati, fiume che oggi si favoleggia navigabile, ma fu indifferenza anche nel marzo 2013, quando 3 clochard morirono in un rogo divampato dentro il rudere che volevano riscaldare per la notte. La tragedia a dieci metri dal salotto buono. Oggi lungo quella stessa via XXIV Maggio sbranata da due nuovi palazzoni sorge l’ex Hotel Centrale, che a quell’immutato bisogno di spazi liberi e gratuiti risponde da oltre un anno, nella tolleranza scostante dei cosentini poco inclini al risentimento ma dediti allo “struscio”, la passeggiata – altrimenti detta “vasca” – sul corso principale: corso Mazzini, oggi quasi del tutto pedonalizzato.
«La ringrazio». È qui che Alessandro chiede l’elemosina tra i grandi marchi dei franchising dell’abbigliamento e le firme prestigiose delle opere d’arte del Museo all’aperto “Bilotti”: Dalì, De Chirico e Rotella sono i testimoni di una quotidianità che vede scivolare e spesso precipitare nell’abisso vite marginali.
Ma non chiamateli ultimi: nella corsa verso il baratro della perdita della dignità, almeno gli occupanti come Alessandro hanno trovato un appiglio da difendere con le unghie. C’è chi sta peggio di loro non avendo neanche un tetto.
Né sono trasparenti in una città che ha imparato a vederli, ad esempio, in corteo per rivendicare il diritto alla casa. O a leggerne sui giornali per l’inchiesta – svelata dal “Quotidiano del Sud” – che ha visto 5 esponenti del Comitato Prendocasa ricevere un avviso di conclusione delle indagini preliminari in cui, a loro carico, si arriva a prefigurare l’imputazione di associazione a delinquere. Sono quasi 5mila le pagine che compongono il fascicolo d’indagine, dove sono finite intercettazioni telefoniche e riprese video effettuate dalla Digos nel 2018.
L’Hotel Centrale, già proprietà dell’ex candidato di destra alla Provincia e consigliere regionale Mimmo Barile – poi finito nei guai per l’ammanco al carrozzone scopellitiano Field di cui era presidente –, fu occupato il penultimo giorno del 2017: si disse che fu la prima occupazione in Italia dopo il pacchetto-sicurezza degli allora ministri Minniti e Orlando e soprattutto dopo gli sgomberi di via Curtatone a Roma a fine agosto. Furono giorni caldi che partorirono la volontà, davanti alle occupazioni abusive, di mettere Regioni e Comuni nelle condizioni di garantire «livelli assistenziali degli aventi diritto» e «tutela dei nuclei familiari in situazioni di disagio», mentre ai Prefetti era demandata la gestione della sicurezza. E ora che il Governo è cambiato?
Oggi soffia un vento di sgomberi ma nell’Italia che s’impoverisce, storie come quelle dell’ex Centrale diventano cinema: a dicembre, alla 36esima edizione del Torino Film Festival è stato presentato il film Dove bisogna stare di Daniele Gaglianone e Stefano Collizzolli. Medici Senza Frontiere ha collaborato all’ideazione e alla realizzazione dell’opera che, dal 15 gennaio, è distribuita da ZaLab nelle sale di tutta Italia ed è entrata in selezione ufficiale ai Nastri d’Argento. Il documentario descrive «un’Italia plurale e femminile» che, rilanciano i ragazzi di Prendocasa, «agisce quotidianamente per mettere al centro dignità e giustizia, mentre la classe politica insegue emergenze e visibilità. Una delle quattro storie è incentrata sulla nostra esperienza di lotta per la casa, attraverso la figura di una nostra compagna, Jessica Cosenza». Jessica è una delle 5 persone del Comitato cui la Procura di Cosenza contesta proprio l’invasione seriale di edifici pubblici e privati con una serie di reati connessi – dal furto di energia elettrica alla violenza privata.
All’ex Centrale vivono circa 80 persone. Di fronte a loro c’è un condominio di lusso che nel nome sembra prenderle in giro (Home Residence), ancora più in là ecco il pennone che regge gli stralli dell’opera dell’archistar spagnola: è un gigantismo che stride con le piccole storie di chi si riscalda con la stufetta in un anfratto semibuio. Blessing viene dalla Nigeria, ha due figli piccoli e si trova qui con loro dopo essere transitata dal progetto della rete Sprar a San Basile, borgo arbereshe a 500 metri d’altitudine ai piedi del Pollino e a 30 km dal mar Ionio: 1000 abitanti – popolazione più che dimezzata nell’ultimo mezzo secolo – e l’idea di ripopolarsi anche mettendo in vendita le case su un portale, a prezzi bassi.
Djibril, senegalese, vive da 15 anni in Italia, di figli ne ha 4 ma loro stanno in Africa. Alessandro invece è italiano: lavorava in un bar, oggi è invalido e a 52 anni è costretto a pensare al figlio di 6 in una casa famiglia. Spera nel reddito di cittadinanza (ma non è ancora chiaro in che termini la misura contempli i senzatetto tra i beneficiari), oggi prende 280 euro al mese e non bastano.
Sono i protagonisti di un modello d’integrazione quasi naturale, in un certo senso obbligato. Il modello-Cosenza come il modello-Riace.
Per il primo compleanno del Centrale occupato, anche il reggino Marcello Fonte, Palma d’oro a Cannes per Dogman e occupante del Cinema Palazzo a Roma ma, prima ancora, figlio della Calabria del disagio abitativo, di passaggio da Cosenza ha solidarizzato con il Comitato che «da anni pone l’emergenza abitativa e la speculazione edilizia in cima ai bisogni della città».
In via Savoia, dal lato opposto dell’isola pedonale dell’arte e dello shopping, ecco la palazzina Aterp di proprietà della Regione dove a breve potrebbe trovare sede proprio l’Agenzia dell’edilizia pubblica (oggi ha 40 dipendenti, quasi la metà di quelli in forza all’ex Iacp), da poco trasferita da un ex hotel abbattuto – il Jolly, dove da anni si annuncia un altro Museo, quello di Alarico – ai palazzoni in periferia che presto saranno uffici regionali.
Occupato a fine 2016 e oggi abitato da una cinquantina di persone, il palazzo è abbracciato, non solo metaforicamente, dal quartiere in cui si affastellano stili urbanistici ed estrazioni sociali. È l’esperimento citato nel dossier di Msf tra i presìdi di accoglienza non formale in Italia.
Qui – dove vive la Jessica del docu-film – vale per tutte la storia di Romina: ragazza madre, usufruisce del Reddito d’inclusione (Rei) ma spera anche lei in quello di cittadinanza: «Sì, prima di arrivare qui ero razzista, se vedevo gente di colore giravo alla larga e mettevo in guarda mio figlio». Che oggi ha 7 anni e gioca con coetanei che arrivano dall’altro continente.
Jessica intanto organizza l’accoglienza e aiuta i migranti nel labirinto della burocrazia, e col sorriso racconta dei tanti cosentini che le chiedono una sistemazione «lontana dai neri».
«Non hanno capito lo spirito delle occupazioni», commenta.
Nel Cosentino ogni anno si contano in media circa 1.200 sfratti. In un documento redatto nel 2017 da alcune associazioni su pubblicazioni di settore e dati di Province e Regione, proprio Cosenza è da primato: la provincia più popolosa della Calabria presenta per circa 715mila abitanti ben 246mila edifici di cui 18mila inutilizzati per circa 270mila stanze vuote. Reggio, con una popolazione inferiore (poco più di 550mila) quasi eguaglia la provincia più grande per edifici costruiti (222mila circa), ma la supera addirittura per costruzioni inutilizzate (oltre 26mila) e stanze vuote (poco meno di 400mila). «Per quanto riguarda città e comuni maggiori – si legge nel dossier dell’Osservatorio –, nel Cosentino la conurbazione Cosenza-Rende, per poco meno di 105mila abitanti presenta circa 13mila edifici di cui 750 inutilizzati e poco meno di 20mila stanze vuote. Se si considera l’intera area vasta cosentina, abbiamo circa 23mila edifici di cui circa 1.500 inutilizzati per almeno 30mila vani vuoti».
È così che, tra colate di cemento che generano contenitori semi-deserti, le occupazioni rappresentano un fenomeno in controtendenza rispetto allo spopolamento del capoluogo bruzio.
In altre zone calde, come la Piana di Gioia Tauro famosa per il caporalato oltre che per l’invasività della ‘ndrangheta anche in un porto mai decollato, Potere al Popolo ha lanciato nei giorni scorsi la costituzione, a San Ferdinando, del «Comitato per il riutilizzo delle case vuote della Piana da parte dei lavoratori locali e migranti». Anche a Reggio Calabria un cartello di associazioni, comitati e centri sociali si batte da tempo e contempla la pratica dell’occupazione come via verso il diritto alla casa.
Ma è Cosenza a fare da capofila. A Portapiana (centro storico) e nell’ex istituto delle Canossiane si è raggiunta una mediazione non facile con il Comune. Quattro mesi fa, invece, la levata di scudi dopo che sui due edifici occupati in centro città (Centrale e via Savoia) è stato paventato lo sgombero: un gruppo di insegnanti, educatori, attivisti e cittadini ha scritto al prefetto Paola Galeone chiedendo un passo indietro su un’azione «che avrebbe effetti deleteri sulle bambine, i bambini, gli e le adolescenti residenti negli edifici». Nel frattempo si sta attuando la circolare Salvini non solo a Cosenza ma in tutta la provincia.
Forse l’emergenza casa tornerà “in agenda” in campagna elettorale, quando magicamente ci si accorgerà dei nuovi poveri che affollano non soltanto la periferia ma gli interstizi del centro benestante: la frutta matura comprata al 50%, il pane del giorno prima a basso prezzo, il polmone o le interiora in macelleria. Non urlano queste bocche sdentate che trovano cure gratuite nell’ambulatorio di Valerio Formisani, medico attivista che nel 2016 si candidò sfidando Occhiuto, i 5 Stelle e il Pd, da sinistra.
In attesa di una nuova campagna e di altre promesse della politica, i livelli istituzionali si muovono: se il “tavolo” su via Savoia è fermo da luglio e si spera ci sia spazio per l’auto-recupero dei locali, il dibattito è aperto sulle misure di contrasto all’emergenza abitativa: la legge regionale 32/96 prima o poi dovrà approdare a un testo unico che regolamenti la materia, con paletti sull’ottenimento dell’alloggio pubblico per chi ha occupato, ma anche assistenza all’affitto (un massimo di 300 euro in 5 anni) e sgravi per le fasce deboli come under 12, disabili, anziani con Isee basso.
Intanto, con il miraggio del Piano casa a Cosenza, l’interlocuzione sindaco-Regione per il reperimento di nuovi alloggi continua. «Li daremo alle fasce vulnerabili», assicura Galeone, nessun arretramento nella lotta alle occupazioni, dove pure di “vulnerabili” e marginali ne vivono eccome. E però «occupare non dà il diritto all’alloggio, bisogna sanare ogni forma di abusivismo, o con gli sgomberi o venendoci incontro, per capire chi ha diritto a essere tutelato. Le fasce deboli vanno difese ma non si può mediare sulla legalità».
Dal canto suo, il Comitato ha incassato un’ondata di solidarietà («Delinquenti a chi?») dopo la notizia dell’inchiesta. E ha rilanciato: «Abbiamo scoperchiato definitivamente un “sistema”, quello delle case popolari che per anni è stato bacino di clientela e malaffare, abbiamo fatto venire a galla lo sperpero dei fondi Gescal e denunciato più e più volte la compravendita delle case popolari che avviene nell’ente più corrotto della nostra regione, l’Aterp».
Nei decenni passati la norma era «scasciàre» (sfondare la porta), un ben altro tipo di occupazione di alloggi popolari, magari rimasti vuoti dopo la morte del legittimo occupante. Una pratica in voga, tra sopraffazione e vero e proprio mercato illegale, su cui spesso si sono chiusi entrambi gli occhi.
Con la crisi, nell’ultimo decennio il problema casa ha interessato sempre più ceti sociali. L’alloggio è esigenza trasversale, e non è casuale se Casapound – per fare un esempio – vi ha individuato sin dall’inizio uno dei propri obiettivi politici fondativi. Ma Cosenza è una città dalla storia di sinistra, almeno fino al doppio mandato di Occhiuto, primo sindaco di destra dal dopoguerra: furono occupazioni, quasi trent’anni fa, quelle al Cinema Italia e poi al Csa Gramna (scritto proprio così, con un refuso rispetto all’originale della nave guevariana), o il Filo Rosso dentro l’università. Oggi resiste una radio comunitaria (Ciroma) e si sperimentano forme di socialità come la Boxe popolare e il Parco giochi inclusivo “Terra di Piero”, unico esempio al Sud. A Cosenza opera anche il solo sportello calabrese della rete Avvocati di strada che si batte per il diritto di dimora dei senza casa.
Nella (ex?) città solidale e ribelle dove l’ultimo fazzoletto di terra residuo in pieno centro è già pronto a essere cementificato dopo l’abbattimento di un palazzotto, il cortocircuito fra boom edilizio ed emergenza abitativa ha fatto ridestare Rifondazione Comunista, che ha definito le accuse ai 5 del Comitato Prendocasa «risibili e fantasiose».
«Nell’Italia di Minniti e Salvini è diventato bersaglio chi pratica la solidarietà come Mimmo Lucano, le Ong e chi fa le lotte. Contro questa operazione giudiziaria tutta la sinistra, a livello nazionale e in Calabria, deve mobilitarsi insieme a tutte le forze che si battono per l’attuazione della Costituzione. Chi lotta per i diritti non è un delinquente». Quando i cosentini hanno riletto tra i firmatari della nota Giovanni Russo Spena (responsabile nazionale Democrazia e istituzioni), la mente è andata al novembre 2002 e ai giorni delle proteste No Global, quando da deputato sfilava in prima linea.
«La Digos ripete lo schema di 16 anni fa, solo che da sovversivi siamo diventati delinquenti», sorride amaro Claudio Dionesalvi, uno degli arrestati di allora, oggi insegnante e giornalista. Quell’inchiesta si sgonfiò in un decennio ma, anziché sopirlo, fece rifiorire il dissenso di Cosenza l’eretica: quello spirito oggi sembra pronto a soffiare di nuovo, superando come allora divisioni e censo, persino bandiere politiche.
Archiviate le ideologie, nella società liquida dove ex razzisti oggi convivono con africani e asiatici e intanto sperano nel sussidio voluto dai 5 Stelle alleati della Lega, si urla tutti insieme: Prendocasa, No Metro e cittadini qualunque, disoccupati incazzati e commercianti in crisi, uniti contro le opere faraoniche che fanno ombra sui palazzi occupati da chi rivuole la sua dignità. A volte un tetto è molto meglio di un Rolex.