ROMA

Che cosa ci dice il quasi-sgombero dell’Angelo Mai

Il tentativo di sgombero dell’Angelo Mai di venerdì mattina, sventato per un pelo, fa emergere in modo evidente le contraddizioni interne al governo della Capitale: la scomposizione dei poteri sembra ormai riguardare lo stesso potere esecutivo della città. Al tempo stesso, ci dice che la posta in palio per i movimenti è alta e che la battaglia attorno alla delibera 140 è ancora aperta

Il tentativo di sgombero dell’Angelo Mai di venerdì mattina, sventato per un pelo da una serie più o meno fortuita di circostanze, ci dice diverse cose. Le circostanze che hanno sventato uno sgombero tanto inatteso quanto assurdo sono in particolare due: da un lato, la capacità di risposta della città, che in poche ore è riuscita a radunare di fronte allo spazio temporaneamente occupato dalla polizia un presidio piuttosto numeroso, non solo solidale ed indignato, ma potenzialmente pronto a reagire al determinarsi degli eventi; dall’altro lato, l’intervento del Vicesindaco Bergamo, costretto a muoversi nella disagevole condizione di dover sconfessare apertamente un atto dell’Amministrazione capitolina, l’ordine di sgombero appunto, il quale a sua volta stava sconfessando apertamente e polemicamente le linee guida che la Giunta e l’Assemblea a 5 stelle avevano (avrebbero?) dato a quell’Amministrazione, eppure capace di sospendere – per ora, soltanto momentaneamente, ché la tagliola scatta tra venti giorni – lo sgombero.

La prima cosa che quel quasi-sgombero ci dice è piuttosto il suggerimento di una memoria, che non fornisce risposte ma al massimo suggestioni: altre volte Assessori della Giunta Raggi erano stati avvistati nei pressi di uno sgombero. Davanti al Rialto Sant’Ambrogio, sede tra gli altri del Forum dell’Acqua, si palesò l’Assessore Mazzillo – poi “dimissionato” per ragioni che la storia ancora ignora – senza che fosse peraltro in grado di impedire quel violento scempio (l’immobile oggi è vuoto e abbandonato), macchiandosi anzi della indecente proposta di un bando cucito su misura, pubblicato in fretta e furia la notte prima e andato deserto, giacché orgogliosamente rifiutato dal movimento per l’acqua pubblica. Prima ancora, un altro Assessore fu visto davanti ad uno sgombero, quello di Alexis. L’Assessore era in quel caso Berdini, gli esiti gli stessi: dimissionato lui, eseguito lo sgombero, dolorosamente ancora vuoto oggi l’immobile. C’è da sperare, più per noi che per lui, che il Vicesindaco non sia in nessun modo scaramantico.

La seconda e più importante cosa che quel quasi-sgombero ci dice riguarda noi, la nostra capacità organizzativa comune, la densità delle relazioni che la città è in grado di tessere, il livello di coordinamento strategico in grado di superare la semplice e istintiva solidarietà.

Se la risposta della città solidale, davanti all’Angelo Mai, c’è stata ed ha avuto un suo notevole peso, proprio il fatto che essa è stata del tutto determinante per lo svolgersi degli eventi non può non imporci una riflessione seria, onesta, su quanto quella capacità di risposta collettiva vada ancor di più rinvigorita, rafforzata, organizzata.

Si tratta, probabilmente, di dare un peso specifico allo slogan per cui se toccano uno toccano tutti, ponendosi molto al di là di ogni differenza (o diffidenza) di storia, stile, approccio, priorità politica, ambito di attivazione quotidiano; si tratta di tornare a prendere sul serio le parole che usammo quando, nei mesi bui del commissariamento di Tronca, dicemmo che la difesa degli immobili che in decenni di autogestione abbiamo reso beni comuni, sarebbe dovuta avvenire con ogni mezzo necessario. La qual cosa non ha solo a che fare con l’organizzazione materiale di una rete di mutuo soccorso nelle situazioni emergenziali, ma ha a che fare anche con la capacità di dare continuità, anche nella fatica dei tempi ormai lunghissimi di questa estenuante vertenza, agli strumenti collettivi di cui la città si dota (la rete Decide Roma è uno di questi), che sono tanto più preziosi quanto più sono il frutto di un lavoro relazionale che, a Roma, non è mai stato né semplice né scontato. È quasi solo per la dimostrazione di questa capacità che passa, probabilmente, l’esito positivo o negativo di questa vertenza.

La terza cosa che ci viene raccontata dalle vicende di venerdì scorso, la più rilevante dal punto di vista pubblico e generale, è la constatazione del fatto che il grado di scomposizione dei poteri pubblici in questa maledetta città è ancora paurosamente alto, forse addirittura superiore a quello che così nitidamente cogliemmo durante i mesi del commissariamento di Roma, in occasione del tentato sgombero di Auro e Marco, e poi di nuovo in occasione dello sgombero di Point Break, a poche ore di distanza dall’assemblea davanti al Cinema Palazzo nel periodo immediatamente post-elettorale, e poi ancora qualche mese dopo in occasione della chiusura violentissima e pressoché totale degli spazi del Corto Circuito.

La scomposizione dei poteri, il loro agire in maniera contraddittoria, è oggi forse più acuta di allora per una ragione precisa: se, in passato, lo scontro poteva configurarsi come quello, non inedito in Italia, tra il potere esecutivo e quello giudiziario, quando la scure della Procura della Corte dei Conti pendeva con violenza, oggi – che le minacce della Corte dei Conti dovrebbero intendersi finalmente e definitivamente scomparse, essendo ufficialmente caduta in ogni grado del giudizio l’accusa di danno erariale – quello scontro è tutto interno al potere esecutivo, tutto interno nel rapporto, mai ambiguo quanto in questi anni, tra funzionari e dirigenti da un lato e vertice politico dall’altro.

Che l’ordine di sgomberare l’Angelo Mai fosse, oltre che ingiusto come è ogni sgombero, anche completamente inatteso e infondato è del tutto evidente, per ragioni che è persino inutile tornare ad elencare. Dando per vero che il Vicesindaco e i Consiglieri capitolini veramente non fossero informati dell’imminente sgombero dell’Angelo Mai, e che anzi l’ordine di sgombero fosse dato in palese contrasto con le linee politiche fornite dall’Amministrazione (e confermate, almeno sulla carta, da diversi atti della Giunta e dell’Assemblea, ultima la memoria di Giunta approvata nell’agosto scorso), il livello di scomposizione appare veramente indecifrabile, tanto da lasciare ancora drammaticamente aperta la domanda su chi governi davvero Roma. C’è da sperare, e da lottare, affinché nelle prossime settimane qualche elemento di questa opaca vicenda venga finalmente chiarito. In ogni caso, tuttavia, anche altri elementi vanno urgentemente messi a verifica: primo fra tutti, il livello di convergenza tra i vari Assessori della Giunta che governa questa città. L’assenza dell’Assessora Castiglione, che avrebbe la titolarità diretta delle questioni riguardanti il Patrimonio indisponibile, e anzi il suo silenzio assordante – che dura di fatto dall’inizio del suo mandato – sul complesso di questa vicenda è, di certo, uno degli elementi più gravi. Altrettanto lo è il silenzio e l’assenza di Virginia Raggi, che ha puntualmente evitato di prendere parola sul tema degli sgomberi al di là di qualche balbettio sul vuoto refrain della legalità.

Sia chiaro: la constatazione dell’esistenza di una scomposizione dei poteri (all’interno della quale tra l’altro si inserisce anche il nodo, non banale, del ruolo della Polizia Locale, e di quali siano davvero le catene di comando alle quali con maggiore o minore prontezza essa si mette al servizio) non cambia di una virgola le responsabilità gravissime che la maggioranza a 5 stelle porta sulle spalle in relazione a questa vicenda. Come ripetiamo da mesi, la vicenda potrebbe essere risolta immediatamente, limitandosi ad abrogare o semplicemente disapplicare l’infame delibera 140 di Nieri e Marino (ripetere gli autori non è mai inutile), senza modificare ulteriormente il quadro normativo: la delibera 26 è ancora, formalmente, in vigore, e non è in contrasto con nessun’altra norma superiore successiva, dunque sarebbe sufficiente procedere ad una regolarizzazione di tutte le concessioni di patrimonio indisponibile che svolgano attività sociali e culturali, se veramente – come afferma il Vicesindaco – l’obiettivo è quello di tutelare e salvaguardare il valore sussidiario (e non solo) che queste esperienze hanno sul territorio, per la città. Ma anche ammettendo che – come viene costantemente ripetuto – sia imprescindibile superare tutte le norme già esistenti, ed approvare un nuovo Regolamento da applicare alle situazioni presenti e a quelle future, ebbene anche in questo caso le responsabilità di chi oggi governa Roma sono molte e gravissime: prima, la responsabilità di aver interrotto ogni possibile canale di comunicazione con le realtà sociali ed associative; seconda, la responsabilità di non aver accolto la richiesta di un confronto pubblico, democratico e partecipato, sulla scrittura delle norme a venire; terza, la responsabilità gravissima di aver fatto trascorrere invano ormai quasi due anni senza alcuna svolta reale e tangibile sulla vicenda della gestione del patrimonio pubblico. In proposito, i sospetti non possono che sorgere spontanei, talmente forti da essere quasi certezze: in questi mesi, l’Amministrazione Raggi ha messo mano a molti Regolamenti (da quello sugli impianti sportivi a quello sulle licenze commerciali, da quello sui beni confiscati alle mafie a quello sull’emergenza abitativa, per arrivare persino allo Statuto di Roma Capitale), come è possibile che quello sul patrimonio pubblico sia l’unico rispetto al quale non si produce nessun avanzamento, neppure di un millimetro, in nessuna direzione? A queste macroscopiche responsabilità se ne aggiungono altre, più piccole ma non meno fastidiose, quale quella – ad esempio – della Presidente della Commissione Patrimonio, Valentina Vivarelli che, pur essendosi candidata (al pari, a quanto è dato sapere, di tutti i suoi colleghi a 5 stelle) ad essere rappresentate dei cittadini nelle istituzioni, ha sempre spudoratamente mentito sui tempi e sui modi di approvazione di questo ormai fantomatico Regolamento.

Tutto questo ci conduce all’ultima delle cose che il quasi-sgombero dell’Angelo Mai ci dice: e cioè che – semmai ci fosse stato il bisogno di una conferma – la partita, che per comodità possiamo riassumere come la partita della delibera 140, non è affatto conclusa, anzi.

 

I fatti di venerdì scorso, davvero paradossalmente, potrebbero aver rappresentato quell’occasione che aspettavamo da mesi, quella circostanza capace di produrre un punto di svolta, di cui abbiamo bisogno anche solo per non morire di attesa.

 

L’impegno del Vicesindaco di tornare a discutere mercoledì prossimo del problema dell’Angelo Mai e del problema degli sgomberi in generale, «con l’idea di un percorso possibile» e – si spera – alla presenza di tutti gli attori istituzionali coinvolti, è un passaggio importante. Ma, per noi, per gli spazi sociali di questa città, potrà esserlo solo nella misura in cui sia salda la consapevolezza che la vera battaglia inizia ora, che finora – in fondo, e nonostante tutte le proposte e gli sforzi immaginativi (a partire dalla Carta di Roma Comune) – abbiamo giocato quasi solo in difesa, ma che il vero conflitto in campo aperto inizierà solo quando si potrà effettivamente e concretamente discutere con l’Amministrazione dei contenuti delle norme a venire, del merito reale del futuro Regolamento. Il rischio maggiore è noto a tutti e si chiama bando pubblico: il rischio, cioè, che l’ottusa mentalità legalitaria imponga uno strumento che, ‘legalmente’ e definitivamente, spazzi via tutto il mondo dell’autogestione romana; uno strumento che immetta logiche competitive e concorrenziali in un tessuto urbano che in questi decenni abbiamo strenuamente tenuto fuori dalla violenza del mercato, uno strumento che alla fine costringa ciascuno al bivio infame della perdita di autonomia e della normalizzazione, da un lato, o della scomparsa, dall’altro. All’imposizione eventuale di ogni bivio sapremo adattarci, sapremo trovare il tertium datur, ma ora tocca lottare affinché questo bivio non venga imposto: affinché, anche a Roma, si possa finalmente cominciare a parlare la lingua dei beni comuni.

La posta in gioco è altissima, evidentemente: dopo la sperimentazione dei patti di condivisione in più di 100 città in Italia; dopo gli straordinari avanzamenti delle realtà autogestite Napoli in relazione con una Giunta, quella di De Magistris, capace soprattutto di ascoltare la propria città; dopo il recentissimo e importante avvio della sperimentazione di un regime di uso civico alla Cavallerizza di Torino in relazione con la Giunta Appendino; la partita dei beni comuni a Roma – con il suo peso specifico, e davvero al di là degli slogan – ha probabilmente il significato di un possibile salto di qualità di un ‘movimento dei beni comuni’ che, sotterraneo e invisibile, ha attraversato in questi anni il nostro paese, tentando di superare le strettoie del pubblico e del privato e di proporre un nuovo modo – un modo comune, appunto – di possedere le cose. Saper porre a questa altezza la sfida, pur nell’inadeguatezza del nostro interlocutore, può essere il modo migliore per affrontare ogni occasione che nelle prossime settimane potrebbe e dovrebbe presentarsi.