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CULT
Corpi disseminati e maschere collettive. Appunti post #FearLoathing
Un flusso di riflessioni che sgorga dal convegno sul self-online, recentemente tenutosi a Roma , tra due università, un centro sociale e un museo. Interrogativi e proposte che escono dal web e percorrono la realtà offline.
“È vero signori, io sono il Provocatore Professionista noto a Chicago col nome di Lo Sperone Nascosto, a Fallon col nome di Frusta Invisibile, in molte città con molti altri nomi.”
Transmaniacon – John Shirley, 1979
“L’antica formula consentiva la fabbricazione di lastre che imprigionavano parte dell’energia vitale di chi si specchiava; anche se costui moriva, lo specchio avrebbe conservato parte della sua vita, fino a quando non fosse stato spezzato.”
Lo specchio magico – Immagini viventi, P. Kolosimo
Dal 22 al 24 maggio, a Roma, si è tenuto il convegno “Fear and Loathing of the Online Self: A Savage Journey Into The Heart of Digital Cultures”, organizzato dall’Institute of Network Cultures e svoltosi tra la John Cabot University, Università Roma 3 e ESC Atelier. Nei tre giorni si è affrontato sotto vari aspetti il tema dell’identità in Rete e la percezione di essa nella società multiconnessa del virtuale/reale. Tra i partecipanti si sono susseguiti Geert Lovink (INC), Donatella Della Ratta e Peter Sarram (Cabot), Teresa Numerico (Roma 3), Bifo Berardi, Wendy Chun, Jodi Dean e Marco Deseriis.
Nella prima giornata alla Cabot e nella mattina del secondo giorno a Roma 3 si è tenuto un profilo più accademico, all’interno del quale si è provato ad analizzare il ruolo dell’identificazione ai tempi delle piattaforme del capitale, in bilico tra il rischio di una sorveglianza totale tramite raccolta e analisi dei dati personali da una parte, e le potenzialità di creazione di nuove soggettività nello spazio virtuale/reale dall’altra. In questa bilancia giocano un peso non indifferente le dinamiche di esibizionismo, elogio e autopromozione del sè, che spesso sfociano in attitudine competitiva. È partendo da questo che Lovink mette in guardia su “l’ossessione di apparire sui social, condividendo ogni istante di vita, e i danni per la privacy”, riportando al centro la necessità di consapevolezza dello strumento. “Sappiamo che siamo spinti a cliccare, a condividere e a mettere like che poi diventano informazioni per scopi commerciali o di sicurezza, mentre prima internet era visto come uno strumento di liberazione e di emancipazione per gli individui e non una macchina che ci controlla”.
Se pensiamo all’evoluzione di Internet dal suo boom negli anni ’90, una delle promesse più attraenti di questa tecnologia era la possibilità di produrre alter-ego con i quali poter giocare e sperimentare nuove identità, ma anche e soprattutto di poter intessere relazioni che scavalcavano le reti di conoscenza “reali” – o, per meglio dire, off-line – consentendo di creare community attorno ad un tema o una causa. È il caso delle “crew” su IRC, della blog-sfera, dei forum. Certo, queste sono piattaforme e possibilità tuttora esistenti, ma non si può evitare di osservare che, in maniera “volontaria” – o forse dolcemente coercitiva? – il web si è rinchiuso all’interno di poche, pochissime piattaforme private. Una di queste, Facebook, divenuto il principale portale di accesso al web, è la prima e forse ancora l’unica piattaforma online ad avere incluso tra proprie policy il necessario utilizzo del nome anagrafico come nome virtuale (tutti abbiamo un amico che si è già visto richiedere i documenti per verificare il nick, se non è capitato addirittura a noi). Non solo: Facebook richiede anche che la rete di relazioni costruita sulla piattaforma riproduca esattamente quella di amicizie off-line (“sei sicuro che Y sia un tuo amico?”), richiesta imposta per garantirsi una più fedele ricostruzione online possibile, non solo delle relazioni umane, ma anche dei traffici, degli spostamenti, degli acquisti ecc ecc… È questa ricostruzione che permette a Facebook di produrre analisi dati attendibili, quindi di capitalizzare le informazioni.
Per quanto riguarda le piattaforme, Lovink si aspetta una volontà dei governi di intensificare il controllo sulle aziende dell’informazione, considerando però anche il potere enorme che queste stanno sviluppando. Un allarme simile a quello arrivato dal premio nobel Joseph Stiglitz, quando pose l’attenzione sui cinque colossi monopolisti – Apple, Google, Facebook, Amazon e Microsoft – che grazie al possesso privatistico di enormi moli di dati stanno, secondo l’economista, mettendo a repentaglio le democrazie.
In questi giorni non a caso si è parlato di Big Data, citando il controverso caso della Cambridge Analytics, che avrebbe favorito la Brexit e la vittoria di Trump perfezionando le campagne di marketing con l’uso di data analysis. Sulla reale efficacia di questo strumento, però, esistono ancora molti dubbi (e altrettanto si potrebbe dire in generale del marketing). Dal lato delle potenzialità de-individualizzanti, in molti talk è emerso il caso di Anonymous, sul quale si è poi concentrata la discussione dell’ultimo giorno al MACRO, insieme alla studiosa Gabriella Coleman. La serata di martedì, svoltasi a ESC Atelier, è stata una buona occasione per provare, forti dell’analisi prodotta, a immaginare forme comunicative e pratiche di resistenza ai tempi del selfie, lanciando una discussione che ovviamente non si è conclusa, anzi ha riconsciuto di essere appena all’inizio.
Nei momenti di dibattito sull’uso delle piattaforme nel fare militanza, spesso emerge in maniera più o meno dirompente la divergenza tra chi propone un boicottaggio di queste e chi prova ad immaginare un virtuoso “dentro e contro”. Premesso che questo dibattito è già stato ben sviluppato altrove, proviamo quindi a superare l’impasse, affrontando in particolare la questione narrativa dell’identità e dell’autorappresentazione nella nostra fase attuale.
Se dovessi pensare a testi che analizzino il tema dell’identità virtuale con lettura critica, mi vengono in mente due esempi, caratterizzati entrambi dal fatto che, per quanto incredibilmente attuali, sono stati scritti prima del 2000, risultando quasi profetici.
Il primo caso in questione è il saggio “Il corpo virtuale” di Antonio Caronia, pubblicato nel 1996 con il sottotitolo “Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti”. Nel testo, spaziando dall’immaginario fantascientifico alle tesi della teoria cyborg di Donna Haraway, l’autore riflette sulla nuova epoca che si apre con l’impatto profondo della tecnologia sul corpo umano, e le ripercussioni di questo sul rito, la rappresentazione, il sesso e l’uso del corpo nel nuovo rapporto reale/virtuale
Centrale nel testo è il processo di disseminazione del corpo, realizzato già in prima fase dal telefono dal punto di vista della voce, poi nelle telecomunicazioni digitali tramite la diffusione di quelle informazioni che costituiscono il nostro profilo, quindi noi stessi. “Il corpo non è meramente il supporto fisico sul quale si giocano e si inseriscono le attività dell’uomo” – precisa Caronia in un’intervista – “ma è un’interfaccia tra l’uomo e il mondo, è un insieme di pratiche simboliche o di costruzioni culturali, che servono per demarcare l’identità culturale tanto individuale quanto collettiva. È da questo punto di vista che la disseminazione del corpo nelle reti rappresenta la grande novità del prossimo millennio, con tutte le potenzialità da un lato e con tutti i problemi dall’altro, che esso può comportare.”
Problemi che, per tornare all’allarme lanciato da Lovink e gli altri, riportano l’attenzione sulla questione della proprietà dei dati, degli algoritmi, delle informazioni personali che produciamo disseminandoci in Rete. Da qui la questione dell’identità: “Il corpo disseminato è destinato a modificare e a minacciare un rapporto basilare, che aveva retto più o meno immutato per decine di migliaia di anni, il rapporto fra corpo e identità”.
Caronia tratta anche delle potenzialità de-individualizzanti del cyberspazio, la possibilità di costruzione di soggettività fluide, collettive, nomadi. Non a caso lui stesso cita quello che è il secondo testo di cui accennavo, ovvero il corpus di materiale (volantini, documenti manifesti) prodotto a fine anni 90 dal Luther Blissett Project.
Il progetto LB – che conosciamo e che ha anche sorvolato alcune pagine di DINAMOpress (qui, qui e qui) – è stato citato quasi ad ogni intervento del convegno sul “self online” tenutosi a Roma. Ciò fa intuire l’attualità e la capacità di lettura politica di questo percorso.
“Luther Blissett è una delle esperienze di apertura dell’era del corpo disseminato” – dice Caronia – “perché è capace di assumere sino in fondo l’indistinzione fra reale e immaginario, trasformando la logica dell’invenzione estenuata in pratica vissuta e diffusa.”
Tra i testi più significativi di LB sul tema dell’identità è certamente il Pamphlet per l’abolizione del nome proprio, pubblicato insieme a molti altri documenti nella raccolta “Il Luther Blissett Project a Roma 1995-1999” da Rave Up Books. Con una forte ibridazione poetica/letteraria, il manifesto dichiara guerra all’Identità Unica Imposta (IUI), al Copyright, attribuendo la responsabilità delle forme coercitive del potere ad uno strumento base: il nome proprio. “Concetto già semanticamente menzognero, in quanto ci racconta della proprietà da parte nostra di qualcosa (il nome appunto) di cui in realtà non possiamo disfarci (come di qualunque altra proprietà). In realtà il nome proprio è proprio di qualcun altro! È proprio del sistema di dominio, che ce lo impone per appropriarsi della nostra identità. Si dovrebbe parlare quindi più correttamente di nome espropriato.”
Dichiarazione che diviene più che mai attuale, se pensiamo alle policy della più grande piattaforma online di cui si parlava. Il discorso blissettiano punta alla radice. L’identità è un dispositivo di controllo sociale, ogni qual volta si dice “io sono” ci si espone ad una sorveglianza, ad una ricattabilità. Da qui l’esigenza di costruire esperimenti di decostruzione dell’io cartesiano, di messa in crisi della dichiarata naturalezza dei frame del potere. Se l’identità è un dispositivo, ogni retorica di elogio del “vero sè” e dell’“io autentico” non fanno che re-innescare questo dispositivo, come una certa narrazione legalitaria sulla trasparenza (“non abbiamo nulla da nascondere”).
“Su le maschere!” recitava un vecchio articolo pubblicato su Euronomade, e il monito è ancora valido. Oltre al caso virtuale di Anonymous, come ricordato nell’analisi, sono molteplici gli utilizzi di maschere nelle mobilitazioni sociali – dallo sciopero sociale a Pulcinella in Campania –, ai quali si aggiunge la recente maschera fuxia usata nelle piazze di Non Una di Meno. Maschere costituenti, aggreganti, collettivizzanti. Ma gli esperimenti potrebbero non fermarsi solo alla produzione di nuova soggettività e provare invece ad esplorare le potenzialità della comunicazione disseminata, sulla quale dovremmo sempre più porci questioni, vista l’attenzione che gli attribuisce il capitale nella forma del marketing. Nella produzione di comunicati, di analisi, di campagne di immaginario, quante volte ci sarà capitato di sentirci rinchiusi e ingabbiati nel dover scegliere la categoria sociale nella quale definirci, riconoscendo che ognuna di quelle possibili non era appropriata a definire il nostro status precario e in divenire? Perché allora, non immaginare di lasciare parlare altro, che siano le strade, i muri, gli spazi della città? Cosa avrebbe da rivendicare una casa sfitta da anni senza nessun@ a fargli compagnia? Quali potenzialità di ibridazione offre la disseminazione virtuale dei corpi e delle soggettività nella Rete e negli spazi urbani?
Luther Blissett era un progetto politico caratterizzato da un’epoca della comunicazione differente da oggi, nella quale vigeva un moloch mediatico televisivo quasi impenetrabile e impermeabile. Ora, all’intensificarsi dei dispositivi di controllo, nei confronti dei quali già allora si metteva in guardia, si affianca una diffusione dei mezzi di registrazione, di produzione audiovisiva e di contenuti, oltre ad un maggiore accesso ai canali di propagazione, seppur soggetti a regole privatistiche. Chiunque in potenza può divenire il media, il medium è l’algoritmo. Menti brillanti vengono pagati a peso d’oro in Silicon Valley per comprendere e controllare le dinamiche della viralità, della diffusione di informazione, e di volta in volta alcuni fenomeni non mancano di sorprendere. Forse è solo provando a stare nelle cose, sporcandosi le mani in mezzo al flusso del #trendingTopic, hackerando la cultura del Sè/lfie, che è possibile coltivare laboratori di nuove forme comunicative, abolire il nome proprio, distruggere i meccanismi di controllo, “uccidere Pavlov con i suoi fottuti campanelli”.