PRECARIETÀ
Il coraggio di non ringraziare: lavoro, sfruttamento e lotta di classe
Una riflessione a partire dal libro del libro di Marta Fana ‘Non è lavoro è sfruttamento, che presenteremo venerdì 12 gennaio al Csa Astra di Roma con le Camere del Lavoro Autonomo e Precario. L’evento inizierà alle 18.30 e sarà trasmesso in streaming su DINAMOpress.
Non è lavoro è sfruttamento, è il titolo del saggio della ricercatrice e attivista Marta Fana edito da Laterza, che sta conoscendo in queste settimane un grande successo, di dibattito e di vendite (ovviamente in relazione a quanti libri, in particolare di saggistica si vendono in Italia). Uscito lo scorso ottobre è già alla quarta ristampa. E già questo il primo dato su cui riflettere: se da una parte Marta Fana si è impegnata in una lunga guerriglia fatta di numeri e cifre ad ogni nuova entusiasta dichiarazione governativa su nuove assunzioni, uscita dalla crisi e narrazioni trionfalistiche sulle riforme del lavoro, dall’altra questo non basta a spiegare il successo di un libro con tesi radicali che parla di lavoro.
E proprio su questo vogliamo soffermarci: il successo di questo libro dimostra che nel nostro Paese c’è voglia di discutere di lavoro, di quello che c’è e di quello che non c’è, di ammortizzatori sociali e sussidi… insomma della realtà di sfruttamento in cui siamo immersi fino al collo. Il grande rimosso del lavoro non come generalizzazione astratta ma come condizioni di vita concrete, della precarietà non come racconto della sfiga individuale ma come ordinaria quotidianità, è al centro di questo libro, e la diffusione del dibattito non può che essere utile.
“È stato un impegno costate e tenace. Le hanno provate tutte e ci sono riusciti perché sono rimasti coerenti con la loro idea e ogni giorno e ogni notte hanno lottato per raggiungere quell’obiettivo”. Come in una sorta di distopia narrativa qui non si sta descrivendo una formidabile vertenza operaia, o un’eroica battaglia degli ultimi contro i primi. Al contrario i protagonisti di tanto impegno e costanza sono i padroni. Sono loro che non hanno mai smesso di combattere una spietata guerra di classe, usando ogni arma a loro disposizione: dalla legislazione al ricatto e la violenza, fino all’imposizione di una nuova etica neoliberale che ci ha pervaso, mettendoci in competizione costante, impedendoci di riconoscersi vicedevolmente.
Forse è questa la più grande vittoria di quelli che stanno in alto: aver spezzato i vincoli di solidarietà, aver trasformato ognuno di noi nella promessa di una start up di successo. Non più impiegati, lavoratori salariati, liberi professionisti, ricercatori o operai ma imprenditori di noi stessi, docili e disciplinati, disposti a quasi tutto. La flessibilità e la distruzione dei diritti (nella sfera della produzione come in quella della riproduzione) è andata di pari passo con più di vent’anni di riforme presentate come indispensabili, ma che a ben guardare hanno avuto il solo compito di smantellare le coquiste ottenute con anni di battaglie. A guadagnarci sono state solo le imprese: ogni crisi, ogni ristrutturazione, è stata pagata esclusivamente da chi lavora e da chi è escluso dal mercato del lavoro, in forma diretta (con un salario più basso, quando una salario c’è, e meno tutele) e indiretta con il dirottamento di sempre più ingenti risorse pubbliche tratte dalla fiscalità generale verso le imprese sotto forma di incentivi e finanziamenti. Anche l’istruzione superiore e universitaria, dopo essere diventata merce per pochi, è piegata agli interessi delle imprese.
Attraverso il racconto del mondo della logistica e dei riders della gig economy, dall’alternanza scuola-lavoro ai voucher, dallo sfruttamento nei servizi pubblici al lavoro gratuito, Fana arriva a fotografare gli ultimi capitoli di questa incessante lotta di classe dall’alto verso il basso, e a fornire le coordinate per lottare, per riconoscere la truffa e lo sfruttamento. .
Ma è tutto perduto? Loro, quelli che stanno in alti, i Farinetti, gli Elkann e i Briatore hanno semplicemente vinto? A giudicare da come se ne vanno in giro a raccontare fandonie e a sputarci in faccia in televisione, loro pensano di sì. Ma le mille storie di piccole e grandi resistenze di uomini e donne ci indicano che non dobbiamo mai, neanche per un secondo, credere alla panzana che la storia è finita e che quello in cui siamo immersi è l’unico orizzonte possibile. Il motore della lotta di classe, quella dal basso verso l’alto, viaggia a bassi giri ma non si è mai spento: una microfisica della resistenza, organizzata o spontanea appare e necessita un lavoro di studio, approfondimento e organizzazione.
Ed è l’altro pezzo della narrazione che emerge qua e là nel libro, e che necessita di una vera e propria impresa collettiva: la mutazione della percezione del lavoro e di se stessi all’interno del mondo del lavoro, anche e soprattutto a causa di questa lotta di classe dall’alto verso il basso. Le forme di resistenza però, siano esse individuali o collettive, organizzate o spontanee, estemporanee o dettate da una strategia, non solo esistono ma parlano anche della trasformazione dei bisogni e delle richieste di chi lavora. Non tutto può essere risolto con la speranza del ritorno alle garanzie di ieri, o a una presunta epoca d’oro del proletariato industriale o delle relazioni industriali. Soprattutto non possiamo tornare a vincere, a ribaltare i rapporti di forza senza dare la parola proprio a quegli sfruttati le cui parole fanno capolino nel libro. Nuove forme di welfare universale, nuove pratiche sindacali in grado di rispondere all’atomizzazione e alla polverizzazione del lavoro e maggiore attenzione al desiderio di liberazione di chi lavoro: è questa la battaglia da portare avanti, senza cedere alla nostalgia di un “prima” idealizzato, ma immaginando nuove forme di lotta e nuove rivendicazioni.