MONDO
COP27 in Egitto, un vertice problematico
Inizia il 6 novembre il vertice ONU sui cambiamenti climatici in Egitto, con misure securitarie molto restrittive e in un contesto in cui il disastro climatico non è più negabile
Se non fosse che l’attenzione mediatica nel nostro paese è totalmente focalizzata sul nuovo governo, o, al più, sul rischio nucleare dato dal perpetuarsi della crisi ucraina, forse l’impressionante evidenza del cambiamento climatico che stiamo attraversando potrebbe prendere un po’ di più spazio. Invece la questione ricava a stento le pagine interne dei quotidiani e dei Tg.
Se ne tornerà a parlare invece, malgrado tutto, dal 6 al 18 novembre, durante la ventisettesima Conferenza Onu sui cambiamenti climatici, in Egitto.
Sarà una COP molto particolare però, di sicuro notevolmente diversa rispetto alle ultime occasioni.
Il governo egiziano ha sostanzialmente vietato qualunque forma di dissenso, protesta e manifestazione. Il vertice avrà luogo in blindatissimi resort sul Mar Rosso, a Sharm el Sheik. Gli spazi per la società civile, che pure caratterizzavano questi vertici, normalmente molto più attraversabili rispetto ad altri vertici istituzionali, saranno limitatissimi o quasi inesistenti.
Collettivi e organizzazioni sia egiziane che internazionali hanno chiesto un vero e proprio boicottaggio del vertice, denunciando non solo le condizioni non democratiche in cui viene strutturato, ma al tempo stesso l’uso che la sanguinosa dittatura di Al Sisi sta facendo del meeting. Sembra infatti un paravento verde per poter presentarsi come una rispettabile democrazia normalizzata e nascondere quanto accade nel paese.
La domanda spontanea che molt3 si fanno è che senso possa avere essere presenti come attivist3 climatic3 in Egitto, quando il paese incarcera duramente chiunque faccia qualunque tipo di attivismo? Il rischio di legittimare un regime atroce è notevole, soprattutto in questo periodo in cui casi emblematici quale quello di Alaa Abd El Fattah fanno il giro del mondo.
Il vertice, comunque, va collocato all’interno della cornice di trasformazione di questi incontri, come già si denunciava con forza già durante la COP26 di Glasgow. La COP – sempre più attraversata dal lobbismo del fossile – si è svuotata di significato anche di quello meramente simbolico.
La conferenza si è ormai trasformata in una auto-rappresentazione del greenwashing, la passerella fatta di bei discorsi, tavole rotonde istituzionali, timidi impegni non vincolanti, che offre una parvenza di normalità a una situazione assolutamente emergenziale, e soprattutto offre l’illusione di essere spazio di confronto e conflitto da cui possa emergere una trasformazione della realtà, mentre è evidente che i giochi si decidono spesso in altre stanze.
Il vertice di Sharm el Sheik conferma questa tendenza aggravata da un lato contesto dittatoriale e reazionario del governo di Al Sisi, dall’altro dallo spaventoso aggravarsi degli effetti della crisi climatica anche solo rispetto ad un anno fa. Se si considerano tutti questi fattori insieme, la conferenza che sta per avere inizio assume toni quasi grotteschi.
La scorsa settimana sono stati diffusi due report di agenzie delle Nazioni Unite. L’Agenzia ONU per l’Ambiente (Uneop) in un report dall’emblematico titolo The closing window ha detto che gli impegni presi per ora al 2030 non ci permetteranno di stare sotto al grado e mezzo di crescita della temperatura a fine secolo, né sotto i 2 gradi, ma al contrario che potremmo arrivare a 2.5/2.8 gradi, cioè una sorta di breakdown climatico complessivo per il pianeta.
A oggi la crescita stimata è di 1.2 gradi e già sono evidenti le conseguenze disastrose come quanto accaduto in Pakistan recentemente dimostra. «Non abbiamo più la possibilità di aggiustamenti incrementali», ha detto Inger Andersen, direttrice dell’Unep. «Ora serve modificare il sistema dalle radici».
Un altro report, questa volta dell’agenzia ONU per la Meteorologia ha detto che le emissioni di metano sono arrivate a livelli allarmanti. Il metano è il gas principale contenuto nel cosiddetto gas fossile, nostra principale importazione russa che i nostri governanti stanno cercando di sostituire con altro gas fossile.
Se calcoliamo l’impatto dei gas serra su un periodo di tempo ristretto a 20 anni, il metano ha un impatto climatico 87 volte maggiore di quello della Co2, a parere dell’agenzia Onu per il cambiamento climatico, l’IPCC. Per questa ragione, visto che i prossimi vent’anni saranno cruciali, sarebbe fondamentale ridurne drasticamente la produzione, cioè l’opposto di quello che stanno facendo i governi europei.
Se la COP si è trasformata, altrettanto si può dire per il movimento per il clima, che in tanti paesi sta cercando nuove forme per protestare aldilà dei vertici ufficiali e per radicalizzare e disseminare il conflitto.
Gli ultimi esempi in questo periodo sono molteplici, molti di questi caratterizzati dall’intreccio tra questione climatica e questione di classe, dalle campagne mediatiche di Just Stop Oil a quelle in tutto il mondo, anche in Italia, contro i SUV.
Proprio il periodo della grottesca conferenza egiziana potrebbe essere allora lo spazio per una crescita e una radicalizzazione a livello internazionale di queste nuove forme di conflitto sempre più necessarie.
Immagine del Climate Camp di Torino 2022