ITALIA
Contro il genocidio in atto del popolo palestinese
Di fronte a una crisi umanitaria senza precedenti è impossibile non prendere una posizione netta a favore di un immediato cessate il fuoco e la fine dell’occupazione. Tanto più che dalle scuole alle università stiamo assistendo alla progressiva limitazione del dibattito politico e culturale, e alla crescente stigmatizzazione di chi si oppone all’occupazione
Come Sociologhe e Sociologi di Posizione non possiamo esimerci dal sollevare la nostra voce contro il crimine di genocidio che le forze armate israeliane, sotto il comando di Netanyahu, stanno portando avanti nei confronti del popolo palestinese residente nella Striscia di Gaza. La sproporzione della reazione israeliana all’azione di Hamas del 7 ottobre – verso cui non restiamo certo indifferenti – è fin troppo evidente.
Da anni la comunità intellettuale denuncia questo rischio, si pensi al posizionamento della National Lawyers Guilde del Russell Tribunal on Palestine nel 2014 e del Center for Constitutional Rights nel 2016. Molte studiose e studiosi, anni prima del 7 ottobre scorso, hanno affermato che l’assedio illegale di Gaza da parte dell’esercito israeliano poteva rappresentare il «preludio a un genocidio». I Consiglieri speciali delle Nazioni Unite già nel 2014 hanno fatto riferimento ai messaggi di odio, razzisti e disumanizzanti che pervadono i social media israeliani nei confronti della popolazione palestinese. Messaggi che in questi giorni sono stati riproposti dal Ministro della Difesa di Israele che ha parlato dei civili palestinesi come di «animali umani» da annientare.
L’attuale offensiva militare israeliana sulla Striscia di Gaza non ha precedenti per scala e gravità. La popolazione palestinese – composta perlopiù da bambini e civili inermi – è sottoposta a bombardamenti incessanti. A oggi si contano circa 8.000 morti, di cui quasi 4.000 bambini sotto i quattordici anni.
Il Ministro della Difesa israeliano ha ordinato un «assedio completo», vietando la fornitura di carburante, elettricità, acqua e altri beni di prima necessità. Questa terminologia indica l’intensificazione di un assedio già illegale e potenzialmente genocida, fino a una vera e propria pulizia etnica dai tratti terroristici.
Allo stesso tempo gli operatori umanitari denunciano un’escalation di violenza, arresti, espulsioni e distruzione di intere comunità palestinesi anche in Cisgiordania e Gerusalemme. I coloni israeliani, illegalmente collocati dal Governo nei territori palestinesi, con l’appoggio dell’esercito e della polizia, hanno attaccato e sparato a bruciapelo sui civili palestinesi (come documentato nei villaggi di a-Tuwani e Qusra), hanno invaso le loro case e aggredito i residenti. Alcune comunità palestinesi sono già state costrette ad abbandonare le loro abitazioni, successivamente distrutte.
Il 10 ottobre, il capo del Coordinamento per le attività governative nei territori (COGAT), Ghassan Alian, ha rivolto un messaggio direttamente ai residenti di Gaza: «Gli animali umani devono essere trattati come tali. Non ci sarà elettricità né acqua, ci sarà solo distruzione. Avrete l’inferno». Lo stesso giorno, il portavoce dell’esercito israeliano, Daniel Hagari, ha riconosciuto la natura volutamente distruttiva della campagna di bombardamenti di Israele a Gaza: «L’enfasi è sui danni e non sulla precisione».
Il Presidente israeliano ha detto di considerare l’intera popolazione palestinese di Gaza responsabile delle azioni dei gruppi militanti, da sottoporre di conseguenza a punizioni collettive e all’uso illimitato della forza. Il ministro israeliano dell’Energia e delle Infrastrutture Israel Katz ha aggiunto: «Non riceveranno una goccia d’acqua o una sola batteria finché non lasceranno il mondo».
Il 14 ottobre, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati ha messo in guardia da«una ripetizione della Nakba del 1948 e del 1967, ma su scala più ampia», poiché Israele attua «una pulizia etnica di massa dei palestinesi sotto la nebbia della guerra».
Il popolo palestinese costituisce un gruppo nazionale ai fini della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio (Convenzione sul genocidio). I palestinesi della Striscia di Gaza costituiscono una parte sostanziale della Nazione palestinese e sono presi di mira da Israele non in quanto terroristi ma in quanto palestinesi.
L’articolo II della Convenzione sul genocidio stabilisce che «per genocidio si intende uno dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale: Uccidere i membri del gruppo; causare gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo; infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica totale o parziale; imporre misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo; trasferimento forzato di bambini del gruppo a un altro gruppo».
La Corte internazionale di giustizia ha affermato che il divieto di genocidio è una norma perentoria del diritto internazionale alla quale non è consentita alcuna deroga. La Convenzione stabilisce che gli individui che tentano il genocidio o che incitano al genocidio «saranno puniti, sia che si tratti di governanti costituzionalmente responsabili, di pubblici ufficiali o di privati». Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani, i gruppi pacifisti della società civile ebraica, gli studiosi dell’Olocausto hanno ormai messo in guardia dalla “soluzione finale” progettata dal governo israeliano.
Chiediamo all’Unione Europea, all’Onu e al Governo italiano di adottare misure concrete e significative per prevenire individualmente e collettivamente gli atti di genocidio, in linea con il loro dovere legale di prevenire il crimine di genocidio. Devono proteggere la popolazione palestinese e garantire che Israele si astenga da qualsiasi ulteriore incitamento all’odio e dalla perpetrazione di comportamenti vietati dall’articolo II della Convenzione sul genocidio. Ricordiamo che già nel 1982 l’Assemblea Generale ha condannato il massacro di civili palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila come «un atto di genocidio».
Il 27 ottobre è stata approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite la risoluzione presentata dalla Giordania per richiedere con urgenza la messa in protezione dei civili e un’immediata tregua umanitaria. L’Italia, come è noto, ha scelto di astenersi, nonostante l’evidenza, denunciata ripetutamente anche dal Segretario Generale dell’ONU Guterres, dei gravi crimini di guerra e delle ripetute violazioni del diritto umanitario commessi da Israele in queste settimane. Ma è l’Europa tutta che, dividendosi sul voto, ha dimostrato al mondo la sua inconsistenza politica, perdendo l’occasione, come nella guerra in Ucraina, di smentire la sua subordinazione agli Stati Uniti e di presentarsi come un soggetto decisivo per la difesa della democrazia, della pace e dei diritti umani nel mondo.
Intanto, la guerra israeliana e la sua razionalità genocida hanno varcato i confini israelo-palestinesi incendiando i paesi circostanti e pervadendo lo spazio politico e pubblico italiano ed europeo, producendo, attraverso l’uso massiccio della propaganda bellica da parte di tutti i principali mass media occidentali, una profonda polarizzazione politica, che ha portato all’intensificarsi delle violenze e delle discriminazioni razziste, islamofobe e antisemite, ma anche di fenomeni di radicalizzazione politica legati all’esperienza migratoria della diaspora araba ed ebraica. Episodi di aggressioni e incitamento all’odio religioso e razzista si stanno già moltiplicando nelle nostre città, rischiando di riprodurre e amplificare la frattura sociale e culturale che ha caratterizzato la “guerra di civiltà”. Ora come allora, il profitto politico di questa guerra internalizzata sarà tutto delle destre xenofobe, razziste e populiste. A pagarne le conseguenze saremo tutt3 noi.
Infatti, la stessa logica di guerra sta già portando alla limitazione e atrofizzazione degli spazi pubblici di parola, di pensiero critico, di mobilitazione e di libertà. Come abbiamo già visto nella guerra Russo-Ucraina (tuttora in corso, non lo dimentichiamo), a essere colpite con ostracismo e censura sono le voci dissidenti, l’attivismo pacifista, i e le disertori/trici degli eserciti occupanti, le reti transnazionali di solidarietà con le popolazioni occupate, vessate, bombardate. Dalle scuole alle università alle strade stiamo assistendo alla progressiva limitazione del dibattito politico e culturale, e alla crescente stigmatizzazione di chi si oppone all’occupazione, al genocidio della popolazione palestinese e al regime di apartheid instaurato da Israele.
Di fronte a questa crisi senza precedenti, come sociologhe e sociologi riteniamo, a differenza del governo italiano, che non sia possibile astenersi dal prendere una posizione diretta, morale e politica su ciò che sta avvenendo: la necessità morale di cessare immediatamente il fuoco su civili inermi, la necessità politica di isolare Israele e il suo sanguinoso regime di occupazione.
Il mondo accademico può avere un ruolo decisivo da questo punto di vista, attraverso l’interruzione dei rapporti istituzionali e il boicottaggio delle produzioni intellettuali e materiali derivanti dallo sfruttamento dei territori occupati e della popolazione palestinese, e la denuncia e il sabotaggio delle collaborazioni che in qualunque modo possano essere utilizzate per supportare militarmente, culturalmente o economicamente il governo genocida di Netanyahu. Possiamo e dobbiamo invece incoraggiare e sostenere l’apertura di spazi di dialogo e critica politica, accoglienza e approfondimento sostenendo le associazioni e i/le rappresentanti pacifisti/e e dissidenti israeliani/e, così come tutte le associazioni e reti nazionali e internazionali impegnate nella difesa dei diritti umani e nella fine dell’apartheid.
Fortunatamente, mai come in questa occasione, l’imponente mobilitazione delle piazze in tutto il mondo (francamente sorprendente per qualità e dimensioni, se si considerano gli apparati di propaganda schierati da Israele e dagli USA nei media mainstream) può fare la differenza, prendendo in contropiede chi sperava nello sfruttamento della tragedia e nel contesto geopolitico generale per distruggere definitivamente Gaza.
Soprattutto in Occidente, le imponenti manifestazioni di questi giorni esprimono di fatto un profondo distacco delle popolazioni rispetto alle scelte di molti dei propri governi e alla narrazione totalizzante di uno scontro fra “civiltà” e “barbarie”, denunciando le ipocrisie di un astratto “fronte occidentale” ed evidenziando la scarsa compatibilità (proprio con i “valori” che l’Occidente è pronto a “esportare” in ogni guerra) di un paese apertamente fondato sul confessionalismo e sulla purezza di sangue, su un dispositivo di rigida razzializzazione che non riguarda i soli palestinesi ma investe anche la stessa popolazione interna, sull’apartheid e sui bantustan come modello di organizzazione dello spazio e del lavoro, su uno statuto territoriale programmaticamente “unsettled” e incompatibile con il diritto internazionale, sulla violazione sistematica delle più elementari regole poste in capo a una potenza occupante.
Immagine di copertina da Wikimedia Commons