cult

CULT

Consegnare i fantasmi. Su “Tradimenti eccellenti” di Augusto Illuminati

In “Tradimenti eccellenti. Critica inattuale delle identità” (Manifestolibri, 2022), Augusto Illuminati tenta un’operazione tanto raffinata quanto imponente: portare – tradurre? – la categoria del tradimento dalla sfera privata a quella politica e sociale e cambiargli segno.

“L’hai voluto tu”! In fondo è questa la formula che perseguita ogni traduzione, ogni versione da una lingua all’altra, che non a caso si dice anche ‘resa’. Chi traduce si arrende a ‘farsi parlare’ da un’altra lingua, che non è neanche l’originale, ma ciò che l’originale le o gli comanda di scrivere nella sua, di lingua. D’altronde tradurre è tradire, vuole l’adagio. O no?

In Tradimenti eccellenti. Critica inattuale delle identità (Manifestolibri, 2022), Augusto Illuminati tenta un’operazione tanto raffinata quanto imponente: portare – tradurre? – la categoria del tradimento dalla sfera privata a quella politica e sociale e cambiargli segno. Tanto nel privato il tradimento è “un fantasma psichico infestante, che inquina gli affetti con passioni tristi” (p. 8), quanto nel pubblico vige una neutralità, un’impersonalità del tradimento che può diventare produttiva, e che ha dato ampia prova di sé nella storia. E nei suoi fantasmi, a partire dalla nascosta musa ispiratrice del percorso , Jean Seberg, qui effigiata in copertina con Jean-Paul Belmondo in un fotogramma del godardiano Å bout de souffle.

Tradimenti eccellenti è un libro breve, densissimo, in quattro capitoli. Nei primi tre si raccontano storie di infedeltà più o meno celebri, nell’ultimo si fa il punto dell’oggi politico ‘trasvalutando’ il tradimento. Le storie riguardano scenari diversissimi: la coppia di traditori ‘inversi’ nel I secolo, Giuseppe Flavio e Paolo di Tarso, i ‘convertitori’ in arabo di Aristotele e compagni tra X e XII secolo, la vicenda reale e simbolica di Malinche in Messico nel XVI secolo (schiava, poi interprete e compagna di Cortés, poi mitologizzata secondo ogni cliché patriarcale). Tutte e tre le storie raccontano di traduzioni infedeli che svelano risorse insperate.

Si parte dal debunking dell’adagio sul tradurre e tradire: «fra traditori (dal verbo tradere) e traduttori (dal verbo trans-ducere) c’è soltanto assonanza, non parentela etimologica. Ed è un gioco di parole che vale soltanto nelle lin­gue romanze, perché i termini in latino classico sono proditio (proditor), affine al greco prodosia». Diverso il caso della tradizione, invece. Perché il nesso tra tradire e tramandare è evidente: «Difendere ottusamente una tradizione e svenderla lavorano sulla stessa base» (p. 13). Perché ogni traditio è consegna, ma perlopiù, rivela l’autore, è consegna di fantasmi. E di fantasmi ‘tradotti’ parleremo per sottolineare alcuni punti particolarmente fecondi di quest’indagine, disordinando e facendo torto alla trama del libro, ma forse non all’ordito.

Lettera

Il primo fantasma è dentro la lettera. Illuminati parla a lungo di scritture ‘reticenti’ in tempi di persecuzione – citando anche l’ambiguissimo Leo Strauss, un altro da tradire senza posa, magari svelandone, come fa l’autore, oltre al noto elitarismo anche il nichilismo. Tenute in debito conto censura e autocensura, Illuminati propugna, sulla scorta di Althusser, una lettura sintomale di commenti e interpretazioni dei classici da parte della peculiare koiné arabo-siriaca e poi latina medievale: «vuoti e lapsus del testo sono infatti sintomi di un’incongruen­za fra i discorsi che vengono sovrapposti (il pensiero di Aristotele, Platone e sviluppatori) e il mainstream religioso di appartenenza, configurato come Legge» (p. 52). La svista, il sintomo di una non-visione, diventa allora operazione interna – voluta o non voluta, conscia o inconscia – alla visione stessa. Svelare i tic espressivi nell’uso di categorie ereditate vuol dire cogliere non solo la ‘doppia fedeltà’, l’attitudine ‘diplomatica’ e insieme politica rispetto ai powers that be ierocratici e sovrani, quanto registrare i nuovi orizzonti concettuali che – grazie a tradimenti niente affatto dichiarati, anzi elusi – vengono a formarsi. Nascono quelli che Illuminati, seguendo Deleuze e Guattari di Che cos’è la filosofia, chiama ‘personaggi concettuali’. Concetti-spettro che, dicono i due, «operano i movimenti che descrivono il piano d’immanenza dell’autore e intervengono nella creazione stessa dei suoi concetti».

Potere

Un altro fantasma è quello del potere. Ne è prova Flavio Giuseppe che, si sa, esce regalmente dall’assedio di Iotapata facendo suicidare tutti i compagni assediati – resistevano in una caverna – tranne lui e un altro. Poi si ‘consegna’ ai Romani e corre a profetizzare l’impero a Vespasiano che quell’assedio lo comandava: una translatio imperii non certo nella propria lingua, ormai tradìta (l’originale aramaico della Guerra giudaica è naturalmente perduto). Come dice Canetti in Massa e potere, Giuseppe, più che la profezia, porta in dote a Vespasiano – gli consegna – il suo potere da ‘sopravvissuto’. «Proprio questo [Giuseppe] porta ai romani: l’accresciuto senso della propria vita, nutrito dalla distruzione della sua gente. La trasmissione a Vespasiano di questo potere nuovamente acquistato è il terzo atto della salvezza di Giuseppe, e si esprime in una promessa profetica». 

Futuro

Tradurre visioni, insegna una lunga tradizione, reca in dono potenzialità carismatiche. I fantasmi degli “occhi della mente”, sotto la lente deforme di Al-Fārābī prima, di Averroè poi, ‘traducono’ Aristotele e il nesso tra immaginazione e intelletto agente andando in anticipo tanto sulla profezia del Trattato teologico-politico di Spinoza quanto sulla sociologia della religione e del dominio di Weber. E qui nel libro c’è una riflessione che riprende una linea di eredità e traduzioni su cui tanto pensiero operaista e post- ha insistito. Quella linea fratta, molte volte spezzata e poi riassunta, che da Averroè corre a Spinoza e fino a Simondon, naturalmente passando per il citatissimo Marx del general intellect, che esalta un intelletto agente impersonale, che in qualche modo permette di pensare il collettivo e di rendere il collettivo pensante. 

Soggetto

Recuperare la tradizione carsica del monopsichismo – un unico intelletto materiale per la specie – prima arabo-aristotelico, poi spinoziano e infine materialista ha sempre avuto (anche) la finalità di destituire il monopolio del soggetto proprietario di ogni proposito fondativo. Tradire il soggetto individuale toglie peso, toglie oneri al soggetto-coscienza che tanta parte ha avuto da Cartesio fino a Kant e agli umanismi. Ma dato che «l’anarchia politica segue a ruota la deresponsabilizzazione dell’individuo»(p. 58), tendenzialmente i poteri civili mettono in campo ampie squadre a protezione da derive ‘averroiste’: «Se l’identità per identificazione va in crisi, addio disciplina, addio controllo e algoritmi per profiling».

Passato

E dunque, se non siamo più in grado, né interessati a dire io, che ne è del passato? Al ‘ricordare’ Illuminati preferisce il ‘rimembrare’. Il corpo, nella traduzione-tradizione arabo-giudaica, è «il luogo metonimico delle sensazioni memorizzabili che offre il materiale per individualizzare l’intelletto unico, numerabile solo secondo la materia, i fantasmi immaginativi» (p. 93). L’intelletto ‘collettivo’, fattosi spazio corporeo e pubblico, sopravvive alla cenere lieve del vissuto individuale e sedimenta i ricordi in uno spazio espositivo che è terreno di gioco e di lotta insieme, in quanto ‘frontiera’, terra di nessuno, dove nessuno domina perché è costitutivamente interregno di identità divise.

Regno

Il fantasma del regno – incubo o utopia – è proprio di ogni messianismo appena si rende conto che il tempo passa. La categoria di interregno viene presa da Illuminati nel senso definito dal Quaderno 3 gramsciano: «La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati». Se la traduzione è un interregno spazializzato, afferma Illuminati (79), potrebbe dirsi che anche la scrittura lo è, è ‘tutta politica’ in quanto spaziale: che il corpo politico collettivo si somiglia con lo spazio urbano. In un libro antico e da poco ripubblicato, Armando Petrucci guardando con occhio da paleografo alle scritte sui muri, ai segni del ‘no’ e del ‘contro’ incisi nelle città degli anni Settanta, cercando le forme della rappresentazione accanto a quelle dell’ideologia, parlava di «scrittura esposta». E chiedeva: «quanti degli esclusi dalla scrittura vi si identificano?». Quanti si ‘vedono’ in quei segni, in quelle grafiche contestatorie sulle pareti della città? (Petrucci, La scrittura, LUP, 2021, p. 281). Perché i ‘segni del no’ non suggeriscono identificazioni, aggiungeva, ma «aggressiva spontaneità» agita nel nostro, «tragico» interregno d’una democrazia mai realizzata.

Identità

Di fronte al totem identitario, Illuminati avanza la proposta di un interregno di scrittura e traduzione come mescolanza: «In quello spazio e in quel tempo le abitudini sono di necessità brevi, le identità mescolate, il “fra” domina sull’asserzione ottusa del sé, la lingua varia secondo atti incessanti di bilinguismo e contaminazione» (p. 91). Se «l’identità è la forma logico-metafisica dell’abitudine» (p. 89), e l’abitudine è uso che si ripete e cristallizza tanto da farsi costume, la traduzione dev’essere dissoluzione di identità cristallizzate. Resta un problema, serissimo – che Illuminati pone in termini gramsciani, senza cedere alle recenti versioni di Laclau e Mouffe di un nuovo populismo dei significanti vuoti, tutti equivalenti (cui obietta con realismo appena amaro: «non ogni simbolico ha gli stessi diritti», p. 104). E quindi: «come fare coalizione intersezionale fra le identità fluide in cui si sono disseminate le classi è dunque la forma contemporanea del persistente problema dell’egemonia, cioè del tradurre e ordinare il dissimile» (p. 95). Alla fuga nel mito politico di Sorel, cui già Gramsci aveva prestato (troppa?) attenzione, con gioco di parole, ed equivalenza di ‘traduzioni infedeli’, Illuminati preferisce un altro mito, quello del Politico platonico, dell’arte politica come tessitura: così da «passare dalla somma di marginalità alla potenza di una coalizione. Una ‘traduzione’ decisiva» (p. 113).

Utopia

Parlando dei dischi di Little Axe, delle loro «armoniche spettrali che richiamano l’ululato dei lupi, di echi che indugiano come ferite inguaribili», Mark Fisher, che di fantasmi personali e collettivi ha tentato ampie rassegne, sosteneva che «anche nei pantani maleodoranti e sulle tombe senza nome si agitano desideri utopici» (Spettri della mia vita, Minimum Fax 2019, p. 182). Se l’identità è sempre sedicente, se è «una costruzione dentro una rappresentazione» (Tradimenti eccellenti, 107), utopia è sapere che le possibilità possono riaprirsi perché scritte sui muri dell’interregno, perché tessute, preparate, rese corpo ‘indefinito’. Che il Messia può venire, secondo il dettato di Paolo (1 Ts. 5, 1-3), «come un ladro nella notte». E che, anche in questo annus horribilische segue a un altro altrettanto orrendo, «nessuno può ‘fare’ la rivoluzione, ma chi sa deci­frarne i segni, tradurli e mescolarli, può tradire il pro­prio passato e fare un balzo di tigre nel futuro» (p. 32).