EUROPA
Conferenza di Parigi sulla Libia, tra controllo delle migrazioni e neocolonialismo
Il 29 maggio si è tenuta la Conferenza di Parigi sulla Libia, fortemente voluta dal presidente francese Macron con l’obiettivo di far sottoscrivere ai libici una road map che conduca a nuove elezioni. A fronte degli scarsi risultati, emerge in primo piano la matrice neocoloniale dell’iniziativa e la volontà comune dei paesi europei di dare continuità alla politica di esternalizzazione delle frontiere
Il 29 maggio ha avuto luogo la Conferenza di Parigi sulla Libia, fortemente voluta dal presidente francese Macron. L’idea, nata come tentativo di sanare le fratture tra Est e Ovest libico, punta alla realizzazione di un accordo tra i presidenti dei Parlamenti rivali di Tripoli e Tobruk, il Premier del governo riconosciuto a livello internazionale Serraj e il Generale Haftar, uomo forte della Cirenaica.
Di per sé, tale accelerazione diplomatica mostra parecchie criticità che in taluni casi potrebbero dimostrarsi una bomba esplosiva nello scenario libico e per tutti gli innumerevoli flussi umani che lo attraversano.
L’obiettivo dell’iniziativa francese era quello di far sottoscrivere alle parti libiche una roadmap in 13 punti, che vede al centro il tema della sicurezza attraverso la legittimazione e il riconoscimento dell’esercito libico nazionale guidato dal generale Haftar, protagonista indiscusso della gestione degli ormai noti lager libici.
Tale roadmap avrebbe dovuto, secondo Macron, condurre a elezioni entro il 2018, anche se ha già mostrato, in verità, il suo carattere divisivo e contraddittorio, riscontrando il posizionamento contrario da parte delle più importanti milizie libiche.
Il punto più problematico del piano francese si dimostrerà essere, con tutta probabilità, il disarmo delle oltre 100 milizie presenti sul territorio libico e armate fin qui dall’Europa, oltre la legittimazione della milizia di Haftar (la più numerosa e meglio equipaggiata) che dovrebbe fondersi con le altre, tra cui quella esplicitamente contrapposta di Misurata.
Per ora, le principali milizie un punto di convergenza lo hanno trovato solamente sottoscrivendo un documento che respinge le intenzioni della Conferenza.
Il secondo passaggio del summit di Parigi aveva come oggetto l’assetto economico libico e l’intenzione di fondere le due banche, quella della Tripolitania e della Cirenaica.
Infine era in gioco la questione governativa che riguarda l’esecutivo guidato da Serraj (a capo del Consiglio presidenziale costituito nel dicembre 2015 grazie agli accordi di Skhirat, in Marocco), insediatosi a Tripoli nel marzo del 2016, ma mai riconosciuto da Haftar.
Ciò che ha ottenuto la Francia, al netto, è la data delle elezioni, accettata dai partecipanti all’incontro, al quale erano presenti i rappresentanti di 19 paesi e dell’ONU: il 10 dicembre 2018. Un accordo che però risulta essere informale, dunque non effettivamente sottoscritto, proprio per la difficoltà degli attori libici a impegnarsi formalmente a deporre effettivamente le armi e a garantire e facilitare la nascita di un governo democratico.
Questo forzato “voto di fiducia” alla Libia sembrerebbe quindi più che altro un tentativo di istituzionalizzare le contrapposizioni e contraddizioni tutt’ora esistenti nel caos militare, economico e politico libico e un modo per centralizzare l’autoritarismo attraverso una transizione, di matrice europea (e dunque coloniale), alla democrazia.
Sembrerebbe quasi che, colta da uno spasmo risolutivo, la Francia tenti di creare quell’auspicata unificazione che potrebbe condurre alla legittimazione di diversi attori politici e militari, ma potrebbe con estrema facilità ottenere anche il risultato opposto, l’esasperazione dei fragili rapporti di potere, di controllo e di governo del paese nord-africano. Esasperazione di cui farebbero le spese, in prima persona, le migliaia di persone in fuga e in transito in quel paese verso l’Europa (colonizzatrice).
Ma nei 13 punti proposti da Macron non manca un ruolo per l’Italia, chiamata in causa proprio, sulla questione migratoria e sull’impossibilità, per migliaia di persone, di entrare legalmente e senza rischiare la vita, in territorio italiano. L’Italia, dalla legge Bossi-Fini fino ai recenti capolavori normativi di Marco Minniti, aumentando l’impossibilità di accesso all’Europa ha creato un mercato molto proficuo per i contrabbandieri subsahariani prima e libici poi, modellando, di fatto, il territorio libico come perno della rotta migratoria cosiddetta mediterranea.
Forse il desiderio della Francia, dell’Italia e dell’Europa tutta, si muove tra rimpianto del vecchio presidente Gheddafi e il pentimento per l’operazione congiunta che lo fece cadere, nonostante in Libia sia ancora vigente la legge, approvata in seguito all’accordo del rais con Berlusconi, che criminalizza l’ingresso irregolare in Italia. La Guardia Costiera libica, infatti, non salva i migranti ma li intercetta, poiché secondo il suo sistema legislativo li considera criminali. Era però più facile fino al 2011 rispedire i “barconi” al governo di Tripoli, seppur in violazione del diritto internazionale. In assenza di queste “favorevoli” condizioni, più recentemente non si è esitato a scendere a patti, non solo con il governo centrale libico, ma con poteri locali e periferici di controversa articolazione.
Viene da chiedersi dunque come il vertice di Parigi con l’obiettivo dell’unità libica possa avere, non solo nel quadro politico multi-territoriale, ma ancor più nel complesso dispositivo, figlio di rapporti diplomatici di vecchia data, un effetto risolutivo per la “questione migratoria”, in un territorio che fonda il poco ordine istituzionale che le resta sulla fitta commistione tra Stato e anti-Stato, uniti fondamentalmente dalla “guerra” alla migrazione clandestina, anzi dal suo sfruttamento.
Il Ministero dell’Interno libico e i disumanizzanti centri di detenzione per migranti mostrano la faccia istituzionale del sistema. A loro volta i posti dove i migranti trascorrono il periodo di reclusione sono spesso controllati dalle milizie che si autofinanziano con il contrabbando di uomini e donne. Liberati solo sotto cauzione, compreranno un nuovo “biglietto” per il prossimo gommone per le coste italiane.
Sino a oggi la motivazione ufficiale dell’accordo giocava sull’ambigua associazione tra contrasto alla cosiddetta “immigrazione clandestina” e lotta al terrorismo, voce ripresa in uno dei punti proposti da Macron al vertice di Parigi. Tecnicamente, esso dovrebbe prevedere la cooperazione a sostegno delle unità militari o guardia costiera libiche impegnate nel contrasto dei flussi migratori e nella creazione di centri di detenzione già da tempo supportati e legittimati dalle principali agenzie internazionali. Risulta altrettanto paradossale la logica della criminalizzazione delle ONG, accusate di collusione con i trafficanti, mentre dall’altra parte si legittima la Guardia Costiera libica, la quale secondo alcune inchieste, tra cui quella dell’Espresso, risulta complice delle reti di contrabbando (smuggling).
A fronte di un quadro legislativo libico cristallizzato e irremovibile e della mancata volontà di creare dei canali di ingresso in Europa sicuri l’Italia ha scelto, nella figura di Marco Minniti, di interagire con chi sulla pelle dei migranti continua a fare enormi profitti. Ora l’Italia è paralizzata da una crisi istituzionale e politica senza precedenti che continua a posizionare nella sua sempiterna campagna elettorale la questione migratoria ai primi posti nella scala di priorità e nell’articolazione delle sue politiche.
In altre parole, a fronte di un vuoto di potere italiano, nel pieno di una profonda crisi istituzionale, la Francia ha voluto affermare la propria influenza in Libia, mostrandosi risoluta ma non risolutiva anche relativamente agli obiettivi dell’incontro che più da vicino riguardano l’Italia in qualità di riconosciuta Porta d’Europa nel quadrante Mediterraneo.
Scavalcando di fatto gli alleati europei, Macron ha messo in atto, per la seconda volta dopo l’incontro del 2017 al castello di La Celle-Saint-Cloud, un’iniziativa politico-diplomatica unilaterale.
Gli anni passano e i governi si susseguono, ma l’obiettivo degli accordi con i paesi terzi è sempre lo stesso: evitare che i presunti paladini europei dei diritti si sporchino le mani con il sangue nei respingimenti e delegare a coloro che controllano i confini esterni il compito di “alleggerire” la pressione migratoria nella prima grande frontiera d’Europa, la Libia. L’accordo dell’Europa con la Libia è ancora un’evidente materializzazione del processo di “esternalizzazione delle frontiere” quale dispositivo concreto di spostamento dei confini nazionali, o continentali, su un territorio terzo.