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LIBRI

Il Comitato Invisibile alla luce dei Gilets Jaunes

Attraversando il quadrante nord-est di Parigi, dove il conflitto tra gentrificazione e dimensione popolare è sempre in corso, tra un arrêt e l’altro del métro 11, può capitare che l’occhio si soffermi sul titolo del libro stretto tra le mani del proprio vicino di posto. Qualora si trattasse di uno studente, diretto verso una delle tante zone universitarie dell’Île-de-France per seguire un seminario di teoria critica o per partecipare a un collettivo, non stupirebbe se il volume s’intitolasse Maintenant, À nos amis oppure, più verosimilmente, L’insurrection qui vient. La disattenta lettura da trasporto pubblico, nel cuore dei flussi metropolitani di persone e informazioni, è sicuramente quella che più si addice a questo genere di pamphlettistica. Ampiamente diffusa nell’ambito dell’attivismo francese, fu resa nota al grande pubblico dalle vergognose accuse di “terrorismo” imputate ad alcuni personaggi sospettati di essere autori dell’“appello” circolato nel 2004 e successivamente fondatori del gruppo “sovversivo” noto come Comité Invisible. I media battezzarono il caso “affaire Tarnac”, impiegando il nome del villaggio del dipartimento di Corrèze nel quale numerosi militanti si erano rifugiati (e tuttora si rifugiano) per vivere in comune nella sterminata campagna francese. Parlare dell’ormai consistente mole di testi pubblicati a nome di questa misteriosa sigla tra il 2007 ed oggi non significa allora soltanto confrontarsi con un acceso dibattito che ha ormai travalicato i confini dell’esagono. Vuol dire, soprattutto, misurarsi con la diffusione di immaginari e retoriche insurrezionali, in particolare tra certi segmenti della generazione nata negli anni ’80/90 e avvicinatisi alla politica tra l’11 settembre 2001 e la crisi esplosa in quello stesso financial district colpito dagli attentati jihadisti. La traduzione italiana dei tre saggi più celebri del Comité offre l’occasione di discutere, anche al di qua delle Alpi, delle virtù e dei limiti di questa costellazione di idee. E l’esplosione del movimento dei Gilets Jaunes, vera e propria insurrezione di massa che ha sconvolto la Francia per quasi un anno, può rivelarsi un buon prisma per verificarne l’attendibilità.

 

Gergo della catastrofe

Partiamo dall’inizio. Impensabili al di fuori dei soffocanti milieux intellettuali del V e del VI arrondissements parigini, i prodotti culturali del Comité Invisible si situano al crocevia di tradizioni e correnti eterogenee, venendo discussi tanto nei raffinati ambienti accademici quanto tra gli occupanti delle Zones-à-Défendre. I riferimenti spaziano infatti dal pensiero di Guy Debord ai classici dell’anarchia, passando per lo heideggerismo e la mitizzazione della lotta armata italiana, per trovare infine il proprio padrino teoretico nel filosofo italiano Giorgio Agamben. Da quest’ultimo sono tratti concetti quali “potenza destituente”, “de-soggettivazione” e “inoperosità”, di cui gli autori del Comité tentano di dare una sorta declinazione politica, votata a conciliare il pensiero “postmetafisico” e quello rivoluzionario, sperimentando una scrittura a metà tra poesia, politica e filosofia.

Ha senza dubbio ragione, dunque, chi insiste sull’originalità dello statuto letterario di questi testi: pregevole ne è la fattura e gradevoli certe evocazioni, senza dubbio efficaci nel comunicare l’urgenza della ribellione. Per comprendere la genesi e la natura dei concetti, vale però la pena soffermarsi non soltanto sul retroterra filosofico, ma anche sugli assunti e sulle proposte strategiche che promanano da questa “poetica insurrezionale”. A una forte spinta innovativa sul piano stilistico, tributaria delle sperimentazioni situazioniste e della rivista “Tiqqun”, gli scritti contenuti nel volume pubblicato da Nero Edizioni (2019, 20 euro) associano infatti un’indagine sul “fondo dell’epoca”, una sorta di diagnosi dei modi di esistenza, interazione e socializzazione nel mondo contemporaneo. Ed è proprio nello scandagliare ciò che gli autori non esiterebbero a definire la “tonalità emotiva” (la heideggeriana Stimmung) del nostro tempo che emergono i nodi che più lasciano sgomenti i lettori davvero interessati ad «abolire lo stato di cose presenti».

Prima di indicarli, una precisazione: non mancano tratti di lucidità nell’impietosa registrazione dello stato dell’arte delle forze “progressiste” europee che ci propone il Comité. È anzi più che condivisibile la messa in discussione degli automatismi e dell’identitarismo delle «forme di vita militanti», spesso incapaci di farsi carico della sofferenza individuale, dell’angoscia generalizzata (l’ancor più heideggeriana Angst) che attraversa il corpo sociale e del senso di imminente catastrofe – ambientale, economica, politica e culturale – che ciascuno di noi percepisce. Sarebbe un errore derubricare quest’afflato a mera notazione esistenzialista, pena l’incomprensione di gran parte degli attuali movimenti di massa, ecologisti in primis, animati da giovani e giovanissimi. D’altro canto, anche la critica implacabile della cultura della “Sinistra”, e in particolare del suo moralismo e vittimismo, orgogliosamente dalla parte del giusto, a suo agio nella sconfitta e largamente superato dalle trasformazioni del capitalismo contemporaneo e delle soggettività che lo abitano, ricorda riflessioni che i movimenti autonomi italiani sviluppano da quarant’anni.

Da una parte, quindi, l’idea che «da ogni punto lo si guardi, il presente è senza uscita» (p. 19) ben descrive il gusto amaro che accompagna la lettura di un quotidiano o l’ascolto di un qualunque giornale radio. Dall’altra, è calzante la constatazione secondo la quale nessuna «insostenibile pretesa di dettare la giusta maniera di vivere» (p. 106) ci aiuterà ad interpretare correttamente i moti di rivolta che pur si danno in questa situazione disastrosa. La sfida della ricostruzione di nuovi linguaggi per le lotte sociali, all’altezza dell’humus politico ed affettivo prodotto dalla crisi e dal suo governo reazionario, è posta con forza. In tal senso, il recupero del gergo heideggeriano della purezza in fondo alla catastrofe, con il suo correlato di pretesa superiorità morale e nobiltà d’animo, non esaurisce sicuramente lo spettro dei registri possibili, pur essendo una strategia praticata con zelo dagli autori.

Certo, a lato di questi lodevoli tentativi, non può che colpire il fatto che la pubblicazione dell’edizione italiana degli scritti del Comité abbia attirato i riflettori di importanti organi di stampa, dalle colonne del giustizialismo a cinque stelle fino al gruppo l’Espresso. E risulta quantomeno straniante l’ossessività edipica con la quale Toni Negri – in un’inedita veste di cattivo maestro del “riformismo” (sic!) –  viene additato come obiettivo polemico numero uno, guadagnandosi ben tre citazioni nelle prime cinque pagine della raccolta. Ma non chiediamo al testo spiegazioni che solo opportunismi editoriali e biografie politiche possono fornire. Sono piuttosto le ricette proposte, infatti, a consegnare al lettore un senso di vuoto e impotenza, curiosamente speculare a quell’angoscia diffusa da cui i saggi prendono le mosse.

 

Insurrezione senza trasformazione

Quale risposta bisogna dare, secondo i poeti, alla catastrofe che si appresta ad abbattersi sulle nostre vite? Il cammino appare a dir poco tortuoso e saranno presumibilmente pochi gli eletti che potranno accedere alle “cospirazioni” necessarie per imboccarlo. Se per il Comité è ormai evidente la diffusione del “cospirare” in ogni angolo della società, non ogni forma di riunione antisistema è tuttavia dotata delle caratteristiche giuste e sono soprattutto quelle pubbliche, aperte, tese alla democratizzazione a non garbare agli autori. Forse perché troppo contaminate da quelle masse che piacciono a patto che restino umbratili ed effimere, oppure perché troppo ricche di eterogeneità e invenzione. A ogni modo, solo l’hic et nunc di un imprevedibile atto destituente ci potrà salvare, «riparando le anime» e ristabilendo la loro autenticità perduta. La violenza istantanea contro l’eleganza privatizzata di un boulevard, la decisione di infrangere la vetrina di una banca o di un negozio di lusso, l’affinità e l’“amicizia” sprigionate dai fuggevoli gruppi in fusione in un pomeriggio di émeute sono le maschere postmoderne di una disperata ricerca della salvezza ultraterrena. Quell’attimo, il barlume di un “gesto”, non si iscrive tuttavia in un “movimento”, né tantomeno apre alla costituzione di una forza trasformativa. Deve svanire con la stessa rapidità con cui si dà. La storicità, ormai evacuata, non lo spiega.  Né vi sono reti sociali e processi collettivi a permetterne l’accensione, a legittimarne la potenza o garantirne la durata. Di più: nessuna condizione sociale e/o politica accomuna i protagonisti del “rifiuto” e, soprattutto, nessuna soggettivazione ne sostanzia la pratica di lotta.

Determinazioni di genere, di razza e di classe, memorie comuni e battaglie passate scompaiono nella notte nera in cui il “politico” è inteso come «negazione della politica» (p. 20). Così, l’estetizzazione di quest’assenza diventa l’atto di rivolta par excellence. Parallelamente, la “frammentazione” delle temporalità e delle relazioni sociali assume tratti ontologici, e facendosi “essere” s’irrigidisce fino a rendere impossibile uno sguardo che ne colga la composizione molteplice, e le possibili ricomposizioni politiche. Insomma, il riferimento degli autori all’“organizzazione invisibile” degli operai di Mirafiori analizzata nelle inchieste operaiste è un puro vezzo retorico, forma svuotata del contenuto. Senza soggettività e processi ricompositivi nessuna «spontaneità organizzata», avrebbe detto Romano Alquati.

Tinto di quel godimento compiaciuto che accompagna la più profonda disperazione, l’atto destituente colpisce dunque in prima battuta se stesso. In quest’ottica, le passioni tristi che attraversano la realtà contemporanea non possono essere trasformate, ma soltanto ritorte contro il nemico: lo spazio delle emozioni politiche è dicotomico, reattivo, globalmente statico. La costruzione di rapporti di forza favorevoli e l’invenzione di forme di potere opposte e alternative a quelle esistenti è esclusa in quanto riproduzione della violenza originaria di un sovrano monolitico e astorico. L’innovazione tecnologica è ridotta al dominio calcolante di “dispositivi” totalitari “per essenza”: la tecnica non è un campo di tensione, ma puro controllo.

Così come, nella storia heideggeriana della metafisica, l’ente ingoia irrimediabilmente l’essere velando la differenza che li separa, nel récit del Comité ogni cambiamento durevole delle gerarchie e delle relazioni di potere ricade nel dominio cieco di un’Unità oppressiva. Essere, società e storia stanno in rapporto inverso rispetto a quanto insegna qualunque dottrina rivoluzionaria anche solo vagamente storica e materialista. L’elogio del “fuori” – dal diritto, dalla merce, dal denaro, dal potere – occulta allora le possibilità di trasformazione effettiva dell’esistente. Per questi autori, in fondo, la rottura delle maglie in cui si organizza la società è impossibile se non nella puntualità di una situazione: non resta che la fuga dalle sue contraddizioni. In fin dei conti, più che avvicinato alle filosofie che vengono “dopo” la metafisica, il sofisticato insurrezionalismo intellettuale del Comité sembra allora innestarsi in una cultura teologico-politica che strizza volentieri l’occhio al religioso e al sacro. “San Max” era d’altra parte l’appellativo con il quale Marx si riferiva all’anarco-nichilista Stirner nell’Ideologia tedesca

Una serie di equivalenze semplificatorie si concatena allora implicitamente su questo piano di trascendenza: organizzazione=dominio; società=sovranità; denaro=peccato; reddito=corruzione; democrazia=imbroglio; assemblea=liberalismo. Unica soluzione: abitare aristocraticamente le vestigia di un mondo in rovina, sognando il “ritorno alla terra” e accumulando macerie su macerie nelle città. Un vero spasso, ma solo per chi se lo può permettere.

 

 

La lezione dei Gilets Jaunes

 È questa la lezione impartita dai Gilets Jaunes? Leggendo la Prefazione, datata gennaio 2019 e firmata da «alcuni contrabbandieri franco-italiani», parrebbe di sì. Lungi dall’essere in qualche misura legati alle condizioni sociali, politiche ed economiche della Francia del 2018, i primi “atti” di mobilitazione sono considerati nientemeno che come il sintomo di una «rivolta etica». Un’etica che, sempre secondo gli autori, oltre a essere eroicamente «irriducibile, basaltica», non ha volontà politica, ma piuttosto, affondando le proprie radici nell’ «esperienza», proviene «da ciò che resta dell’istinto salutare degli esseri» (p. 11). Al di là dell’infelice semantica della «salute» – variante biologica del lessico dell’autenticità –  che fa da contorno a queste pagine, ci si potrebbe chiedere cosa significhi, per il Comité, il termine «esperienza». Come si passa, ad esempio, dalla frammentazione del “sentire” a un comune “esperire” e quale politicizzazione può veicolare una volta eluso l’ambito della soggettività, della prassi, della produzione e dell’organizzazione?

Più concretamente: siamo sicuri che il concetto di «fuori» sia adeguato a spiegare le straordinarie lotte francesi degli ultimi anni, dalla resistenza della ZAD di Notre-Dames-des-Landes fino al ciclo di conflitto apertosi nel 2016 con il movimento contro la loi travail et son monde, proseguito con gli scioperi dei ferrovieri e le occupazioni universitarie e infine rilanciato dal formidabile salto di qualità dai Gilets Jaunes? Queste domande suoneranno forse ingenue o addirittura grossolanamente realiste a chi, magari a ragione, intende risalire alla «parola poetica» che ha reso possibile la «nascita di tutte le autonomie». Eppure, a differenza di quanto sostengono gli autori del Comité, dal novembre 2018 a oggi i Gilets Jaunes non hanno «desiderato confusamente una rivoluzione» (p. 10). Hanno piuttosto già fornito, in uno spazio d’esperienza segnato da tensioni e mutazioni, qualche frammento di risposta. Più che ritagliarsi frettolosamente degli abiti insorgenti à la Marat, stanno inventando modalità, strategie e linguaggi per dare forma attuale all’attività rivoluzionaria. Lo fanno con semplicità e determinazione, senza bisogno di una teologia negativa per nominare le proprie esigenze.

Qui, la “destituzione” non è tanto l’idea regolativa di una nuova ontologia, quanto la parola d’ordine politica rivolta contro un Presidente percepito come «il giullare dei padroni». La “catastrofe” non è colta nella sua aura destinale, ma nelle forme di scaricamento verso il basso dei costi della transizione ecologica capitalista attraverso la tassazione indiretta. Salario, potere d’acquisto e giustizia fiscale non sono una perversione delle anime belle, ma rivendicazioni capaci di scardinare il progetto di riforma neoliberale del governo. Il blocco generalizzato della circolazione di merci e persone, così come l’assalto ai beaux quartiers del turismo e del consumo di lusso, non sono “gesti” unici e situati, ma mezzi istituiti per socializzare e reinventare la pratica dello sciopero. I social media, nell’ambivalenza di ogni piattaforma digitale, vengono utilizzati con disinvoltura per comunicare ed organizzarsi orizzontalmente, senza bisogno di leader e dirigenti, e non sono demonizzati come macchine del dominio. L’assemblea sui ronds-points occupati, infine, diventa il nome comune di un insieme di pratiche democratiche ed organizzative che emergono dalle forme di esistenza, di lavoro e spostamento che hanno caratterizzato la peculiare “composizione spaziale” del movimento.

Destituzione politica, rivendicazione sociale e densità democratica sono così gli assi portanti di una realtà ben più complessa dell’evocazione di una “singolarità qualunque” bisognosa di redenzione. D’altra parte, il tessuto affettivo del movimento è certamente strutturato da una disperazione e da una rabbia radicali – il famoso sentimento di “ras-le-bol” all’origine degli appelli a manifestare – ed è stato capace di torcere contro il potere costituito quella paura spesso usata per dividere e isolare i subalterni. Dall’aver paura si è passati al “far paura”, ma ciò è stato possibile trasformando disperazione e depressione in passioni espansive, in gioia e fratellanza a lungo termine e non attraverso affinità mistiche e riunioni segrete. Le intersezioni con altri terreni di lotta (ecologista, antirazzista e sindacale, anzitutto) e il consolidamento della confederazione nazionale dell’“Assemblea delle assemblee” testimonieranno, nei prossimi mesi, della profondità dell’effetto giallo sulla società francese e sui suoi conflitti. Intanto, possiamo essere certi del fatto che, nell’orizzonte dei Gilets Jaunes, la “riparazione del mondo” passa per l’accumulazione di forza organizzata, espressa da un insieme di contropoteri di qualità e spessore differente rispetto al comando della controparte. Per salvare le anime e trattenere l’apocalisse, lo si sa, bisognerà invece attendere l’avvento di un profeta o del messia…